Excerpt
Nota al Testo
I saggi qui raccolti, sostanzialmente omogenei dal punto di vista cronologico, hanno un unico comun denominatore: la ricerca semasiologica e semantemantica come grimaldello per scardinare il complesso sistema di rimandi e di provenienze di cui si nutrono gli autori studiati. Diseguali, essi hanno però l’obiettivo di chiarire, a partire dal dato lessematico e sintagmatico, come l’intersecarsi dei piani compositivi risponda a precise pulsioni personali, legate da un lato al dato della formazione primaria (autori prediletti, correnti letterarie di partenza, impianto antropologico, etc.), dall’altro alle necessità interpretative di chi fruisce il testo. I punti di partenza, nella critica semantematica delle fonti, non sono mai univoci, dipendendo essi da una risultanza diasistematica di più modelli. Compito del semasiologo dei contenuti letterari è giustificare la presenza dell’elemento linguistico all’interno di una multiforme chiostra di paragrammi originari come qualcosa di precisato e voluto, anche palesando che l’evoluzione dei significati di una certa terminologia non è mai casuale, ma volontariamente determinata dagli eventi creativi posti in essere dal singolo scrittore. Sicché, dunque, parafrasando “au contraire” il Vernant, la scommessa in favore della diacronia dei significati (e al contempo della sincronia lessicologica) può essere vinta soltanto quando i due livelli vengano accostati strettamente, come in un unico ganglio vitale. Questi confini metodologici mi hanno spinto a conglomerarli in un unico volume ed è ad essi che si atterranno le analisi che seguono.
A proposito d’epica medievale: il Cantare di Giusto Paladino edito da Vincenzo Cassì
1. Le paredre culte
Quando ci si cimenta con i riferimenti letterari del Rinascimento1 non è sempre semplice dare un quadro specifico e dettagliato del genere epico in quello stesso periodo. La vicenda degli autori che afferiscono a siffatte opere è quanto mai curiosa. Come si sa, la connessione intertestuale che andrò ad esaminare, pur essendo sovente innervata in un tessuto di fraintendimenti reciproci e di false attribuzioni ma anche di corrette citazioni e di onorevoli convenienze letterarie, verte comunque su un tessuto di rimandi che ascendono a più d’un poeta. Ma se c’è poco da aggiungere a quanto è già stato scritto sulle radici dell’epica ariostesca e boiardesca (accanto ai nomi già noti di Pulci e del Boiardo, citerei anche i testi del Trissino, dell’Alamanni, del Giraldi, di Bernardo Tasso, etc.), qualcosa va forse detto relativamente alla contestualizzazione geo-storica, anche per definire che il contesto culturale in cui opere come il Furioso o l’ Innamorato vennero scritte è strettamente connesso alla città di appartenenza dei due poeti, cioè Ferrara. Sicché due linee interpretative dovranno essere tracciate per definire meglio l’origine del poema epico, una delle quali riferibile al sottofondo letterario, e l’altra strettamente legata al dato ambientale. E allora si potrà cominciare dicendo che, dopo i lavori del D’Ancona e del De Robertis, dopo le acute osservazioni di Emilio Pasquini e Lanfranco Caretti, dopo gli utilissimi interventi raccolti dal Segre nel noto convegno del 1974, dal Bruscagli, dal Raimondi, e infine dalla Tissoni Benvenuti nelle loro pubblicazioni successive, il panorama degli studi inerenti la città di Ferrara nei secoli quindicesimo e sedicesimo dell’era volgare è ormai molto più definito. Varie sono le motivazioni per cui Ferrara divenne centro culturale di primaria importanza. Una delle cause è sicuramente da ricercare nel fatto che la corte degli estensi ebbe modo di durare nel tempo, e di non essere sconvolta da quei cambiamenti dinastici e da quelle guerre che, per esempio, scossero il Ducato di Milano nello stesso periodo. Inoltre, essa appariva come un nucleo forte, capace di un’adeguata politica dell’immagine e di alta qualificazione del proprio personale. Geograficamente, Ferrara si trovava al centro di uno scacchiere che vedeva la presenza dei grandi ducati lombardi (la Mantova dei Gonzaga, e la Milano dei Visconti e degli Sforza) a ovest; a nord-est, il dinamico impulso, commerciale e intellettuale, della Repubblica di Venezia; a sud, infine, la spinta – ora propulsiva, ora conservatrice – della signoria medicea e dello Stato della Chiesa, senza contare gli stimoli provenienti da Pesaro (dove operarono Alessandro Sforza e Malatesta Malatesti). La corte ferrarese, come accade nello stesso periodo in Francia e in Spagna, è centro d’irradiazione della cultura, e ciò comporta una qualche differenza rispetto ad altre realtà padane quali Bologna o Modena. Peraltro, c’è da chiedersi perché proprio Ferrara diviene la culla del poema epico umanistico e rinascimentale; la risposta, complessa, può essere schematizzata come segue: i poeti ferraresi come Boiardo ed Ariosto avevano una grande conoscenza della letteratura classica, e in particolare delle opere epiche antiche come l’ Eneide; Ferrara, inoltre, riceve direttamente la benefica influenza del materiale epico franco-veneto (basti pensare all’ Entrée d’Espagne o alla Prise de Pampelune, a non voler citare i codici veneti della Chanson de Roland censiti dal Segre), e se a ciò si aggiunge che nella città è attestata la presenza di codici del Roman de Troie e del Roman d’Alexandre, oltre che di dotti eruditi greci come il cardinal Bessarione (il che comporta automaticamente, sia detto di sfuggita, la conoscenza dell’epica omerica, sia pure mediata attraverso le rielaborazioni “d’oil” sorte nella Francia del Nord), allora il quadro apparirà assolutamente chiaro. Fra l’altro, e come inducono a pensare gli studi citati dal Ginzburg nella sua Storia Notturna, nelle campagne padane erano ben conosciute le leggende del ciclo arturiano, che – come si sa – contaminò quello carolingio nelle opere del Boiardo e dell’Ariosto: ciò assume un valore fondamentale, se solo si pensa all’influsso della letteratura popolare su tanta parte della stessa lirica boiardesca. È stato detto in precedenza che Ferrara è assai più dinamica di Bologna nel campo della poesia: una ragione di ciò sta proprio nel fatto che la città felsinea, forse anche per la presenza in essa di una dotta scuola giurisprudenziale, è tutta un fiorire di commenti e di interpretazioni filosofiche; a Ferrara, invece, si volgarizzano testi classici (proprio il Boiardo ebbe tale incarico dalla corte estense), e si fa poesia d’occasione. Ferrara, inoltre, fu sede privilegiata del magistero di Guarino Veronese e di suo figlio Battista, oltre ad ospitare un concilio nel 1438, e a risultare polo d’attrazione per studiosi d’astronomia e astrologia come Copernico, Rodolfo Agricola, il Pannonio e Antonio Panormita. Quest’ultimo dato ha fatto postulare al Birnbaum una Ferrara attratta più dalla cultura nordeuropea che da quella papalina. Fra l’altro, la presenza di alchimisti ed astrologi ha fortemente influito sulle opere di tutti e tre i grandi ferraresi, visto che richiami alchemici e alla magia non mancano né in Boiardo, né in Ariosto e (benché ultroneo rispetto al nostro discorso) Tasso. Il primo, come si sa, subì notevoli influenze classiche, in special modo lucianee ed apuleiane, ma di esse fece uso in modo molto personale. L’uso di Apuleio, che fu accusato di praticare la magia nera e che nella sua opera lascia spazio a numerosi riferimenti misterici e iniziatici, appare proprio una traccia rilevante di come gli interessi alchemici e astrologici allora vigenti a Ferrara abbiano poi influenzato i testi boiardeschi. In senso più generale, la costruzione di un poema epico che avesse come protagonista un paladino (e nel contempo un eroe) potrebbe richiamare l’esaltazione augustea presente nell’Eneide virgiliana, qui adoperata – come anche nel caso dell’Ariosto – per legittimare il potere, facendosene al contempo beffa tramite la fantasia e l’immaginazione (e salvandosi così dall’accusa di essere troppo proni a quel potere medesimo). In effetti, i temi portanti dell’ Orlando innamorato, ma anche della produzione lirica indagata linguisticamente dal Mengaldo, sono riferibili al paesaggio naturale, personalizzato in modo favoloso; all’amore, inteso come motore dell’esistenza ma sempre inafferrabile come una sorta di miraggio; la guerra, vista come battaglia gloriosa ed eroica in cui deve spiccare la nobiltà d’animo di chi la combatte (e vedasi l’esaltazione, in opere storiche coeve, della immortale e sfortunata figura di Giovanni dalle Bande Nere, che ha affascinato perfino l’Ermanno Olmi del Mestiere delle armi). Nell’ottica di tali punti cardine, il discorso storiografico viene capovolto totalmente, nel senso che i legami tra storia e mito vengono visti in maniera più indulgente e sfocata di quanto accadesse nelle opere medievali, in cui la mitologia era uno degli errores antiquorum. Quanto all’Ariosto, va rilevato che anch’egli fu raffinato conoscitore dei classici e acuto indagatore delle forme letterarie precedenti. Se Boiardo aveva dato inizio alla letteratura cavalleresca ferrarese, Ariosto trascina la sua produzione epica, nonché il suo teatro e le sue satire, al di fuori dei ristretti confini provinciali, onde far conoscere in tutta Europa quale scrigno di tesori poetici fosse la sua città. Egli, accettando il fiorentinismo bembiano nel suo ultimo Furioso del 1532, supera le pur eleganti contaminazioni stilistiche boiardesche (e si ricordi che le opere di Boiardo vennero riscritte in fiorentino dal Berni!), ma non le rinnega. In altre parole, tramite il cesello del fiorentino letterario, Ariosto cerca di ottimizzare un impianto formale di tipo padano. In lui, immaginazione ed inventio si riequilibrano, e non è certo possibile reperire quell’inno, elevato da Baldassar Castiglione nel suo Cortegiano, all’arte intesa come tecnica retorica pura. Armonia è il termine preferito da Ariosto: ma l’armonia, per lui, non può esser disgiunta da un’autentica libertà interpretativa, unico spazio lasciato dalla rigida organizzazione cortese all’«animus» del letterato. Viene qui in aiuto proprio la classicità; in particolare Orazio, ma non quello delle Satirae, scritte principalmente su pressione di Mecenate per aderire agli ideali stoici del principato augusteo, bensì quello delle Odes, dove un molle e sensibilissimo epicureismo effonde la sua possente musicalità a cantare le bellezze dell’amore e della natura. Questa duplicità è presente anche nel Furioso : l’equilibrio del poeta, sia pure ironico e disincantato, nasconde sempre un malessere di fondo che gli impedisce di accettare senza discussioni i dogmi della propria società. In altre parole, Ariosto può ben definirsi poeta di crisi, proprio tenendo conto della scomposizione da lui operata – e poi della ricomposizione in un senso del tutto nuovo – dei richiami allegorici e magici di cui la sua cultura si nutriva. Il simbolismo del poema ariostesco, che sarebbe risultato caro ad un Panofsky, si estrinseca in un mondo di allusioni e di richiami spesso del tutto inafferrabili. In tal modo, anche l’erasmiana follia di Orlando (che interseca i secoli nel solco della riproposizione banalizzante di motivi eroici e tragici che già avevo esperito altrove nel caso del mito di Aiace Telamonio2 ) non è soltanto una riproposizione anodina del tema classico dell’ Hercules furens in versione antisenecana, ma diventa il segnacolo di un rifiuto, di una segregazione sociale. E il mondo lunare descritto dall’autore diviene una sorta di nuovo Paradiso nel quale attenuare i propri contrasti interiori, ponendosi anche come sotterranea e sibillina delegittimazione di quelle valenze encomiastico-patriottiche di cui ancora la poesia boiardesca era intrisa. Letteratura d’evasione, dunque, appare la produzione dell’Ariosto, sia pure venata di richiami classicistici e ai poemi cavallereschi medievali; ma anche espressione dei dissidi del proprio tempo (e dimenticavamo i Cinque canti, mirabile speculum di quanto s’è detto), vera e propria introduzione alle angosce esistenziali tassiane, dove il nostro discorso trova il suo punto d’approdo. Tuttavia, la dimensione propagandistica e – s’è detto – d’evasione appare certamente preponderante, in nome di una fruibilità sociale che non rinchiudesse il poeta in un circolo vizioso fatto soltanto d’intellettuali e di versificatori d’alto livello, ma facesse conoscere il suo testo anche altrove, presso le classi più umili e disagiate, alla stregua di quella che sarebbe stata l’ottocentesca opera lirica o (oggi) il variegato mondo della canzone e della musica popolare.
2. Il genere dei cantari nella visione di Vincenzo Cassì
Ed è a questo spettro comunicativo che appartiene, senza dubbio, il genere letterario dei cantari, su cui si innerva l’edizione critica del Cassì qui censita3. Il professore ragusano ha recentemente dato alle stampe un’opera poco conosciuta come il Cantare di Giusto Paladino (d’ora in avanti GP) e, richiamando gli antecedenti illustri di cui si è parlato sinora, non è possibile non inserire il testo in questione in una cornice interpretativa che conglobi anche gli antecedenti culturalmente più solidi (i quali, com’è universalmente noto, si ispirarono alla tradizione popolare di cui proprio i cantari facevano parte). La parola “best seller” (ché tale vien definito il GP dal nostro autore) oggi risulta sciupata e utilizzata senza troppo discernimento: essa indica quei volumi che riescono a vendere un numero elevatissimo di copie in un periodo di tempo oggettivamente breve4. Definire con tale appellativo il Cantare di Giusto Paladino è ovviamente possibile, ma facendo astrazione del dato economico (in epoca di tradizione manoscritta, certamente secondario quando non assente) e immaginando che il testo sia stato oggetto di una circolazione molto assidua tra i letterati del periodo in cui esso venne composto (a onta del fatto che le copie dei codici e delle opere a stampa in cui esso è tramandato sembrano non essere moltissime). Il primo punto importante, da non sottovalutare, è la ridottissima quantità d’accenni a tale opera nelle pur controverse sillogi critiche del tempo5. Il motivo per cui ciò sia accaduto si pone al di là di qualsiasi giudizio e può essere compreso soltanto tenendo presente che la circolazione di “cantari”, a quell’epoca, era sottomessa ad una frequenza di utilizzo piuttosto elevata per quei tempi e che, almeno nell’opinione comune, siffatte compilazioni non erano tali da destare l’interesse degli studiosi colti (i quali – facendo finta di dimenticare che tali opere, come detto, erano alla base della poesia epica più evoluta – cominciarono a preferire opere di maggiore sostanza e di tempra più elevata6 ). In effetti i cantari costituiscono un genere letterario del tutto particolare: sono un tipo di poesia cavalleresca che ha per soggetto i fatti e le imprese dei Paladini di Francia e le avventure amorose dei cavalieri erranti che, in via d’ipotesi, vengon fatti operare al tempo del supposto Re Artù (e aggiungerei la versione carolingia, sicché si potrebbe menzionare – come ambito cronologico di riferimento – il periodo che va dal V al IX secolo7 ). Sappiamo che questi racconti, benché originatisi oltralpe, giunsero molto presto nella penisola italiana, in particolare nell’area franco-veneta dove, in precedenza, aveva trovato posto la produzione epica carolingia a cui già s’è alluso. Con assoluta evidenza, tuttavia, se in tale tragitto già il dato contenutistico s’era contaminato e modificato per ovvie ragioni di sostrato, anche la tessitura linguistica subì profonde modificazioni. I dialetti paesani d’area mediana (ma soprattutto settentrionale) e specialmente il veneto influiscono in maniera determinante sulla costruzione verbale e sintattica di tali opere, determinando un coacervo comunicativo che non altro può esser definito se non come costituisce poesia cavalleresca popolare. Quando poi essi passarono in Toscana, tanti compilatori si adoperarono per rifarli in prosa e in versi e – soprattutto – nel volgare fiorentino che andava diventando la lingua comune degli intellettuali e dei dotti. Al di là del testo edito da Cassì, in cui l’estensore si identifica da solo, va senz’altro detto che molti cantari sono anonimi, forse perché i redattori, scrivendo per il popolo (che era facilmente portato a dimenticare i nomi dei creatori di codesti poemi), poco si curavano di far conoscere il loro nome, sono tali l’autore del Libro di Fioravante, che appartiene al principio del secolo decimoquarto, del Bovo d’Antona, del Rinaldo da Montalbano, del Gibello, del Bel Gherardino e di tanti altri fra i testi appartenenti all’area semantica dove si collocano le produzioni letterarie di tal genere. Prevale in queste compilazioni il ciclo francese, ma non mancano esempi risalenti a quello arturiano ed anche singolari incroci (come nel GP) dove entrambe le tradizioni trovano posto e vengono in qualche modo integrate; tutte poi sono prolisse, troppo cariche di particolari, talvolta anche puerili e grotteschi, sebbene non di rado sappiano far parlare i loro personaggi – in modo assolutamente adeguato al loro ruolo sociale – il linguaggio caldo degli affetti personali e quello del coraggio cavalleresco e della pietas religiosa. Tornando al GP, come ci ricorda proprio il Cassì nelle prime pagine della sua succosissima introduzione critica, va sottolineato che il primo a citare il testo in oggetto è Giovanni Battista Quadrio. In una sezione della sua Storia e Ragione (quella nella quale “annoveransi quegli italiani poemi, co’ quali Vite furono scritte a istruzione dell’uomo”8 ), il Quadrio cita “el libro de Sancto Justo Paladino de Franza e de la sua vita e come a elo li apparve la Fortuna del Mondo; e come parlava con essa e come lo fu intentato dal demonio de diversi modi de la nostra Fede Cristiana, opera stampata Mediolani per Philippum dictum Cassanum de Mantegatiis nel 1493, adi 26 Aprilis”9. Il medesimo Quadrio, in seguito, riassume brevemente la vita del Santo e rivolge una velata critica nei confronti del Crescimbeni, che non aveva saputo in nessun modo dire chi fosse tale santo se non supponendo che, in esso, andasse identificato il santo neerlandese San Gerlaco di Valkenburg, che la chiesa un tempo commemorava il 5 Gennaio (ma i premostratensi ne celebravano l’ officium il lunedì dopo l’ottava dell’Ascensione, prima che il nome del santo fosse depennato dal calendario liturgico10 ) e che pare avesse effettivamente intrapreso la carriera militare negli ordini cavallereschi intorno al 1120-1130, per poi abbracciare la vita monastica dopo un viaggio in Terrasanta. Non è questa la sede per parlarne e non era compito del Cassì (che pure se ne interessa brevemente nel corso dell’introduzione) porre in essere un tentativo del genere, ma sarebbe forse utile instaurare un confronto più diretto (in altre parole, una vera e propria comparazione esegetica) tra il testo del Cantare di Giusto Paladino e quello della Vita beati Gerlaci Eremytae. Quest’ultima, composta nel 1222-28 da un ignoto confratello premostratense che dimorava presso il monastero di Houthems-St-Gerlac (dimora abituale del santo), fu poi pubblicata all’interno degli Bibliotheca Hagiographica Latina da parte dei Bollandisti, in una forma che potremmo definire filologicamente incerta11, ma che certamente avrebbe meritato – da parte degli studiosi – un qualche raffronto di tipo semasiologico e stilistico, pur nell’assoluta diversità dei due registri linguistici12. Tornando al testo curato dal Cassì, varrà la pena dire che esso si presenta solido, strutturato saldamente, e con apparato ecdotico assolutamente dotto e assolutamente privo di qualsiasi sinecura (e dunque sostanzialmente inaccessibile a chi non conosca, nei dettagli, il poema da lui editato). Qualche minima osservazione può però esser fatta, innanzitutto evidenziando come il criterio bedieriano del “bon manuscrit”, essenzialmente prediletto da Cassì, mi trova assolutamente d’accordo, avendolo io stesso scelto in altre occasioni, e del resto una “recensio” di tipo dantesco al modo di Petrocchi avrebbe forse necessitato di tempi comunque biblici, vista la sostanziale difformità linguistica che i vari esemplari da cui il testo è tramandato paiono voler attestare. L’opera, secondo lo studioso siciliano, sarebbe da ascrivere ad un ignoto chierico d’area franco-veneta, cosa che verrebbe confermata dal dato linguistico e codicologico e anche – “si parva licet” – dalla successiva diffusione a stampa: questo individua l’area diffusionale del GP in una dimensione geografica già nota, vale a dire quella classica inerente i rimaneggiamenti di opere francesi (anche se il grado d’ibridismo linguistico e quello di dipendenza dalle fonti transalpine risultano, caso per caso, del tutto variabili). Fatte queste osservazioni, bisogna sottolineare, in ottica finale, che il testo edito dal Cassì non lascia altre questioni in sospeso, mostrando invece – va necessariamente ribadito – la solida preparazione filologica dell’autore (benché, ma è soltanto un mio personale parere, l’apparato critico avrebbe potuto essere catalogico e non diviso per ogni singola strofa), nonché il preciso (direi puntiglioso) apprestamento linguistico del testo che egli è andato ad editare. Quest’ultimo versante, la cui pertinenza ed esattezza paiono indubbiamente mutuate da suggestioni risalenti al Palumbo ed al Segre, può forse esser definito come la “pars costruens” dell’intera edizione, per la quale lo scrivente si augura un pubblico di lettori attento e culturalmente inclusivo.
La follia di orlando ed il vestito rosso: divagazioni multiprospettiche su Ariosto e Battisti
1. Un antipasto metodologico…
Approfitto dell’occasione, benché le osservazioni metodologiche siano a volte difficili da giustificare, per chiarire un punto a me caro ed epistemologicamente decisivo: lo studio lemmatico e i confronti testuali, pur rimanendo all’interno di un recinto congetturale e di una visione dia-sistematica del prodotto letterario, non aspirano certo a farsi portatori di verità indiscutibili e dogmatiche, almeno rispetto alla provenienza delle ascendenze a cui quegli stessi prodotti fanno riferimento. Anzi, se è vero – come sostengono i linguisti più accorti – che il testo è tutto, quale migliore occasione si ha di confrontarsi con il testo se non analizzandolo nelle sue componenti contestuali? Come ho già avuto modo di scrivere altrove, è il contesto che giustifica il testo e non viceversa, nel senso che il testo sorge in un determinato modo perché i contesti culturali a cui esso afferisce lo hanno generato in quel modo, e soltanto in quel modo. E poco importa se si tratti di suggestioni o di certezze radicali, perché, se un autore legge un testo e – sia pure per memoire involontaire, lo concedo – ne ricorda le movenze e le riecheggia, vuol dire che ha digerito e rielaborato quel testo in modo personale ed autonomo, non c’è che fare. Come sostiene molto efficacemente M. Bianciardi13,
[l]a versione dell’esperienza del mondo che il soggetto costruisce, quindi, pur ponendosi come radicalmente soggettiva, unica, del tutto peculiare, quale il soggetto stesso tende ad immaginarla e a rappresentarla a se stesso, si pone anche, fin dal suo nascere, come una delle molteplici sfaccettature di una ‘realtà’ poliedrica e polidefinita, intersoggettiva e multicentrica. Ogni versione soggettiva della realtà è per questo intrinsecamente mancante, in quanto non si regge da sola, bensì è assoggettata, da un punto di vista logico, a quella necessità di validazione che l’uso del linguaggio comporta, nonché, da un punto di vista emozionale, al bisogno del confronto, della conferma o della giustapposizione, da parte di altri soggetti significativi. Non appena il soggetto si ponga come osservatore di se stesso, coglierà questa non eludibile interdipendenza tra le proprie descrizioni della realtà ed altre descrizioni della medesima realtà.
E dunque il testo, pur nella sua centralità innegabile, non può certamente essere assolutizzato a cancellatore del contesto, o distruttore della poli-semanticità del contesto medesimo in nome di una unicità interpretativa che si trasformi in elemento privo di contraddittorio. Il testo è sicuramente il re, ma è un re costituzionale, sorretto cioè da un governo – la molteplice versatilità delle dimensioni contestuali – che ne amministra e ne dirige il senso a seconda delle diversità storiografiche ed ermeneutiche a cui lo stesso testo via via si piega. Nell’ottica, ad esempio, delle digital humanities, credo sarebbe giusto dire che gli intervento basati sulla dimensione libresca possono e devono costituire un ganglio unico ed unitario con quelle riflessioni che nascano e partano dalla dinamica del confronto di culture e di generi letterari (nonché di discipline), a creare un costituto unitario dove l’interpretazione dei testi tra loro coevi possa essere vista in una dinamica storicizzante, anche qualora quegli stessi testi si occupassero di questioni quantomeno analoghe. Tuttavia, è evidente che tali riflessioni non possono essere unicizzate in nome di un paradigma totalizzante, che tenga fuori dal discorso critico le questioni relative al contesto geo-storico e ad un’esegesi che faccia riferimento anche alla geografia della letteratura. In un’ottica del genere, appare destabilizzante pensare che certe dinamiche valoriali (e intendo valori relativi all’interpretazione dei testi) debbano essere contraddittoriamente contrapposte tra loro, quando invece esse potrebbero essere viste in una prospettiva che le renda interdipendenti, o per lo meno in una dimensione solidaristica dove le reciproche differenze operino per raggiungere – in totale concordia – un risultato espositivo che abbia valore univoco. Esperire un cammino analitico di tal genere non andrebbe visto, dunque, con occhio guardingo e malevolo, ma (fatte salve le differenze di struttura e di cornice epistemologica) bisognerebbe cercare di approntare un discorso ermeneutico che li conglobi e li unisca in un crogiolo che come prodotto finale qualcosa di armonico ed equilibrato.
2. Orlando, malato d’amore
Fatte queste necessarie premesse geo-letterarie, vorrei sottolineare che il dato puramente testuale ha sempre una sua dimensione maggioritaria rispetto a qualsiasi riflessione di carattere geo-storico o geo linguistico che si voglia approntare (sia pure in premessa). Comincerò dunque con una citazione molto conosciuta, almeno in ambito specifico, in questo caso puramente esemplificativa14 :
[…] Volgendosi ivi intorno, vide scritti/ molti arbuscelli in su l’ombrosa riva./ Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,/ fu certo esser di man de la sua diva./ Questo era un di quei lochi già descritti,/ ove sovente con Medor veniva/ da casa del pastore indi vicina/ la bella donna del Catai regina.// Angelica e Medor con cento nodi/ legati insieme, e in cento lochi vede./ Quante lettere son, tanti son chiodi/ coi quali Amore il cor gli punge e fiede./ Va col pensier cercando in mille modi/ non creder quel ch’ai suo dispetto crede:/ ch’altra Angelica sia, creder si sforza,/ ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza// Poi dice: “Conosco io pur queste note:/ di tal’io n’ho tante vedute e lette./ Finger questo Medoro ella si puote:/ forse ch’a me questo cognome mette.”/ Con tali opinion dal ver remote/ usando fraude a sé medesmo, stette/ ne la speranza il malcontento Orlando,/ che si seppe a se stesso ir procacciando/ […]/ Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come/ possa esser che non sia la cosa vera:/ che voglia alcun così infamare il nome/ de la sua donna e crede e brama e spera,/ o gravar lui d’insopportabil some/ tanto di gelosia, che se ne pera;/ ed abbia quel, sia chi si voglia stato,/ molto la man di lei bene imitato.
La menzione di cui mi voglio occupare rimonta al canto XXIII dell’ Orlando Furioso, e in particolare all’episodio universalmente noto della follia di Orlando. Non è mia intenzione analizzare l’evento da un punto di vista squisitamente critico (è stato già fatto e molto bene15 ), ma collocare lo stilema della follia amorosa qui descritta in un polo correlativo, quello della canzonettistica cantautorale – o presunta tale – della seconda metà del ‘900. Sto parlando, in soldoni, del duo composto da Mogol e Lucio Battisti. Chi voglia paragonare – in senso puramente letterario – i testi delle loro canzoni popolari con i sonetti di Dante e Petrarca o le Ottave di Ariosto, non può certo esser accusato d’un becero e obsoleto passatismo16. E dico di più: chi si permette di ironizzare su ciò, non ha la minima idea di cosa sia la letteratura in senso lato. Questi facili detrattori, infatti, non considerano che i maggiori esegeti italiani si sono appunto occupati di tematiche consimili benché relative ad epoche ormai trascorse da tempo (per esempio, le ballate del Trecento e del Quattrocento). Sicché, pur tenendo conto del fatto che, sovente, i testi delle canzoni d’amore ostentano numerosi stereotipi sessisti (la donna intesa come possesso esclusivo, l’impossibilità – per la medesima – di vivere da sola, etc.), l’analisi letteraria e l’esegesi comparativa non possono di certo indietreggiare davanti ad essi soltanto perché qualcuno ne predica la complessiva banalità. Inoltre, nel caso della coppia Mogol-Battisti, questa banalizzazione del tessuto letterario non ha ragion d’essere: i testi prodotti in collaborazione da tale duo hanno infatti generato ampia bibliografia, talvolta anche divergente dai canoni tradizionali17, e oggi si tende a considerare Mogol come uno dei maggiori poeti italiani viventie Battisti come un musicista popolare di vena non volgare e scontata. Nel 1969, Mogol e Battisti incidevano su vinile un brano dal seguente testo18 :
Ti stai sbagliando, chi hai visto non è/ Non è Francesca/ Lei è sempre a casa che aspetta me/ Non è Francesca/ Se c’era un uomo, poi/ No, non può essere lei/ Francesca non ha mai chiesto di più/ Chi sta sbagliando, son certo, sei tu/ Francesca non ha mai chiesto di più/ Perché/ Lei vive per me/ Come quell’altra è bionda, però/ Non è Francesca/ Era vestita di rosso, lo so/ Ma non è Francesca/ Se era abbracciata, poi/ No, non può essere lei/ Francesca non ha mai chiesto di più/ Chi sta sbagliando, son certo, sei tu/ Francesca non ha mai chiesto di più/ Perché/ Lei vive per me/ Lei vive per me.
In origine, il brano era stato cantato da un gruppo musicale di cui oggi nessuno si ricorda se non gli addetti ai lavori, anche per il nome abbastanza bislacco che lo contraddistingueva ( I Balordi); quando però Battisti lo portò agli onori del pubblico, esso divenne quasi subito famoso e – nel corso degli anni e come ricorda anche il Ceri19 – divenne un vero e proprio cavallo di battaglia dello stesso Battisti e (lo si può dire senza tema di smentita) una sorta di inno all’amor tradito che ha affascinato forse tre generazioni di ascoltatori. Non oso ipotizzare, per assoluta assenza di riscontri probatori, se Battisti o lo stesso Mogol sapessero dove si collocasse il livello di compenetrazione semiologica dei due testi. Probabilmente, vista la non grande cultura letteraria del musicista di Poggio Bustone, è assai poco probabile che egli ne sapesse qualcosa. Ma certamente il suo sodale Rapetti (in arte, appunto Mogol) aveva certamente la consapevolezza di tali legami semantici e semasiologici, al punto di riprodurre – in modo modernissimo – lo stato alterato di coscienza che prevale in chi, dopo la rivelazione di un tradimento, non vuole o non può credere che esso sia avvenuto. I due testi, quello ariostesco e quello di Battisti e Mogol, hanno alcune caratteristiche comuni, ma anche dei tratti completamente diversi: nel primo, l’adulterazione del messaggio petrarchesco ed elegiaco, secondo cui l’evocazione dell’amore e il paesaggio naturale sarebbero legati indissolubilmente, è generata da un medium del tutto imprevedibile, vale a dire la follia. Nel secondo, assistiamo ad alcuni tratti certi, indiscutibili, di cui è bene sottolineare l’assenza.
3. Battisti, lo spione e l’amante geloso
In effetti, andando più nello specifico del testo battistiano, non vi sono cenni al luogo in cui l’apparizione rivelatrice del tradimento sarebbe avvenuta, né vi è contestualizzazione alcuna del dialogo tra i due personaggi (uno, che si pone come interlocutore e delatore, resta del tutto muto, mentre l’altro rimane incredulo di fronte al ferale messaggio ricevuto). Vi sono soltanto delle evidenti caratterizzazioni prossemiche, le quali riguardano:
1) L’interlocutore citato, che osserva in silenzio la scena e poi la riporta, presumibilmente come l’ha vista, al proprio amico;
2) La coppia rappresentata da Francesca e dal suo amante, che passeggiano mano nella mano (o abbracciati) per strada.
In questo caso particolare, tuttavia, si assiste alla presenza intersecata di due livelli, quello relativo alla distanza intima (il procedere fianco a fianco dei due innamorati) e quello concernente la distanza sociale (l’amico che scruta la scena la vede da lontano, perché non viene riconosciuto dai due e la cosa è resa del tutto palese dal fatto che i due ragazzi non fanno nulla – con ogni evidenza – per sottrarsi allo sguardo indagatore dell’amico spione, probabilmente perché non lo hanno incrociato direttamente). Secondo il Salvatore20, [p]ur di negare l’evidenza, il pensiero del protagonista […] non si sviluppa in maniera coerente, ma viene rappresentato da Battisti-Mogol (melodicamente e verbalmente) nel suo svolgersi faticoso, per approssimazioni successive, pretestuosamente. Queste approssimazioni non risolvono nulla, a dispetto del sillogismo, perché sul pensiero grava una censura inconscia. Nella struttura della canzone, tale censura si manifesta nella sua incompiutezza formale. Le differenze tra le sezioni […] sono minime, e lasciano la sensazione che la canzone finisca prima di svilupparsi, rinunciando a una netta differenziazione di strofa e ritornello. È come un’unica strofa che si ripete, con parole e note appena appena non diversificate, per esprimere un unico assurdo concetto, che non conduce da nessuna parte. Una sorta di labirinto, nel quale il protagonista si rinchiude nell’estremo tentativo di evitare l’inevitabile conclusione: Francesca è perduta, non appartiene più a lui. Nel suo insieme – musica e testo – Non è Francesca costituisce una specie di metafora dell’incapacità di crescere, del rifiuto di maturare, di accettare la sconfitta e superarla […]. Dal labirinto tracciato in questa canzone, infatti, non si esce, se non in un eroico gesto di rassegnazione.
Alle parole dello studioso casertano si potrebbe aggiungere questo: la mancata uscita dal labirinto e la rassegnazione eroica che egli preconizza sono in realtà due atteggiamenti risolutivi del tutto non consequenziali, ma assolutamente opposti, con il primo che più facilmente può essere accostato all’opzione delirante e folle scelta dal personaggio ariostesco. Altri punti importanti sono datti dalla caratterizzazione identificativa del personaggio Francesca. Quest’ultima è detta bionda e viene descritta indossante un vestito rosso. Tale caratterizzazione ha ovvi riscontri simbolici (il rosso si lega letterariamente alla passione21, quando invece la capigliatura bionda può certamente rimontare ad ovvi e celebri esempi della poesia medioevale e rinascimentale, Beatrice, Laura e la stessa Angelica – prima quella del Boiardo e poi quella di Ariosto – in testa)22 :
Angelica, non troppo a lui lontana,/ La bionda testa in su l’erba posava,/ Sotto il gran pino, a lato alla fontana:/ Quattro giganti sempre la guardava./ Dormendo, non parea già cosa umana,/ Ma ad angelo del cel rassomigliava./ Lo annel del suo germano avea in dito,/ Della virtù che sopra aveti odito.
Com’è universalmente noto, vi sono notevoli differenze – a livello caratteriale, si intende – tra la rappresentazione di Angelica che viene posta in essere da Boiardo e quella tratteggiata da Ariosto23. L’Angelica-Francesca di Mogol dove si pone? L’Angelica boiardesca, si sa, è una donna furba, insincera, piena di sotterfugi e di cattiveria, una sorta di Messalina ante litteram che non ha nulla a che vedere, se non sul piano puramente estetico, con le eroine della letteratura stilnovistica e petrarchesca. Il personaggio di Ariosto, invece, opera su un livello più basso, è certamente una donna bellissima, il cui unico obiettivo è però quello di tornare dal proprio padre Galafrone (magari trovando anche uno sposo, senz’altro, e il traguardo viene raggiunto quando costei s’innamora di Medoro). La Francesca di Giulio Rapetti Mogol sembra voler contaminare le due eroine: essa, a differenza del personaggio evocato da Ariosto e con qualche consonanza rispetto all’esempio di Boiardo, non è incolpevole, avendo tradito il suo amato con un altro uomo (quando invece l’Angelica ariostesca non dichiara mai il suo amore per nessuno tra i paladini che la inseguono). In altre parole, se i due personaggi maschili, cioè Orlando e il raggirato amante di Battisti/Mogol, appaiono consimili (benché non uguali, perché Mogol non dipinge il suo uomo come un frenetico ma soltanto come una sorta di psicotico affetto da un chiaro fenomeno di falsa coscienza), le donne sono invece diverse, laddove – lo si ribadisce – la Francesca di Battisti sembra avere più i tratti dell’Angelica di Boiardo che quelli della simile figura ariostesca. Si tenga conto, a latere, che il vestito rosso contraddistingue Beatrice nella famosa scena onirica rappresentata all’inizio del capitolo III della Vita nova di Dante24 :
E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: “Ego dominus tuus”. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: “Vide cor tuum”.
Addirittura, com’è noto, anche il vestito della Vergine Maria nel XXX canto del Purgatorio dantesco è di colore rosso (benché tale veste sia accoppiata ad un mantello verde)25 :
Io vidi già nel cominciar del giorno/ la parte orïental tutta rosata,/ e l’altro ciel di bel sereno addorno;/ e la faccia del sol nascere ombrata,/ sì che per temperanza di vapori/ l’occhio la sostenea lunga fïata:/ così dentro una nuvola di fiori/ che da le mani angeliche saliva/ e ricadeva in giù dentro e di fori,/ sovra candido vel cinta d’uliva/ donna m’apparve, sotto verde manto/ vestita di color di fiamma viva.
Se si volesse tener conto anche di tale afferenza, si potrebbe pensare anche ad un livello satirico, dato dal fatto che la Francesca del duo Battisti-Mogol non sembra propriamente essere un esempio di purezza verginale. Nei mitologemi ascendenti al Furioso, il colore rosso sembra essere collegato alle dinamiche amorose di Angelica in una sola occasione: mi riferisco, per esempio, ad un dipinto del veneziano Antonio Zucchi, il quale – nella seconda metà del Settecento – dipinse in stile neoclassico la scena in cui Angelica e Medoro incidono i loro nomi su uno dei tronchi della foresta in cui si consuma il loro idillio26. In quel caso, tuttavia, la donna è vestita di bianco mentre Medoro indossa appunto una sorta di pallio o di toga (ma potrebbe anche trattarsi di una tunica) di panno rosso scarlatto, con un accostamento quanto mai curioso che sembrerebbe connettere la purezza del personaggio femminile alla passione impetuosa del maschio (il che non si adatta allo schema precedente se non nella misura in cui il valore simbolico del colore rosso può rappresentare un collegamento indiretto e di scarso valore).
4. Le analogie strutturali: per una semantica della gelosia patologica
Andando a fare riferimento agli elementi costitutivi del testo ariostesco, almeno dal punto di vista paesaggistico, si possono fare alcune osservazioni relative ai fondamenti costitutivi dello stesso. Sono presenti:
1) Gli alberi del bosco, incisi con i nomi dei due novelli innamorati e costruiti letterariamente come nodi semantici forti o come testi atti a trasformare il bosco in una sorta di epigrafico grimorio capace d’indurre chiunque lo legga alla follia27;
2) Orlando, quale attore principale di una rappresentazione scenica di tipo simbolicamente metamorfico28 (da soldato senza macchia e senza paura a delirante mostro affetto da follia e – con un evidente sottolineatura d’un processo involutivo – da “salvaticità”29 );
3) La coppia Angelica/Medoro, in una prospettiva duplice e in certo qual modo obbligatoria: infatti, all’interno della scena (fatto salvo il punto di vista principale, che è quello di Orlando) è d’uopo tener presente anche l’ottica da cui la scena medesima è percepita dai due innamorati, i quali si considerano dati perché considerano gli avvenimenti da un punto di vista positivo. Orlando, al contrario, li avverte come amanti fedifraghi che hanno compiuto un grave atto di violazione degli obblighi sociali, ovvero dei legami stabiliti dall’ideologia feudale.
Nel testo ariostesco, come si può facilmente arguire, non siamo messi di fronte ad un monologo come nel testo di Rapetti Mogol, ma a un soliloquio, perché manca del tutto un interlocutore (per quanto fittizio esso sia), a meno di non voler considerare tale – con un azzardo critico poco condivisibile – la natura circostante. La dinamica posturale di Orlando, già ampiamente indagata nel suo livello antropologico30, ha qui il fine, per dir così, di mettere a nudo la personalità fragile del guerriero carolingio, il quale è del tutto disarmato di fronte ai sentimenti (perché ingenuo ed inesperto), essendosi sempre occupato della propria formazione militare più che di un’educazione emozionale che non avrebbe avuto alcun senso all’interno della prospettiva eminentemente bellica all’interno della quale egli poneva la propria vita. Un processo inverso, a livello puramente mass-mediologico, subisce Samar Anand, protagonista del lungometraggio Jab Tak Hai Jaan dell’indiano Yash Chopra31. Il giovane Samar, che vive e lavora saltuariamente a Londra, si innamora della giovane Meera, ricambiato. Tuttavia, quando egli va in coma a causa di un terribile incidente stradale, la ragazza – di religione cristiana – fa voto di lasciarlo e di non rivederlo mai più qualora Samar dovesse aver salva la vita. Samar, venuto a sapere la cosa, decide di seguire le orme paterne e di diventare artificiere dell’esercito, rischiando tutti i giorni la vita in Kashmir in una sorta di sfida antifrastica verso Dio che ha permesso l’abbandono di Meera. Al di là dello scontato lieto fine, vanno rilevati, nel testo filmico, alcuni dati di fatto, che voglio elencare qui come fatto in precedenza:
1) La ragazza compie un gesto che potremmo definire scontatamente manzoniano, se non fosse che esso trovasi in un film indiano (al di là di possibili suggestioni indirette ricevute dagli sceneggiatori del film medesimo);
2) Anand compie atti di follia temeraria disinnescando bombe senza alcuna protezione, nell’evidente e indiretto tentativo di suicidarsi (i suoi compagni indossano una pesante corazza o armatura di materiale ignifugo e anti-urto, mentre il ragazzo opera vestito di una semplice tuta mimetica).
I campi semasiologici qui presenti ed ascendenti a paredre letterarie sono dunque due: uno di tipo cristianeggiante, tipologicamente vicino a modelli tipici della letteratura occidentale, mentre l’altro non dissimile – almeno a livello puramente psicologico – rispetto all’esempio ariostesco. Anand, in analogia con quanto accade ad Orlando, si “denuda” simbolicamente, non indossando l’armatura difensiva e sfidando follemente la morte nella temeraria ricerca d’un proprio cupio dissolvi. Come si può vedere, gli schemi narrativi derivati dall’originale ariostesco, sia pure per via indiretta ed obliqua, prevedono sviluppi ulteriori anche in campi creativi del tutto diversi, ma legati a quello che li ha generati da un solo minimo comun denominatore: il sentimento amoroso deluso, esacerbato dal rifiuto e dalla gelosia patologica e tale da provocare accessi di follia o atteggiamenti del tutto dissennati in colui che viene gravato dal tradimento.
5. Due follie eroiche a confronto
Determinare uno spazio di manovra di tipo semantico, a conclusione di questo mio discorso, potrà sembrare incongruo, almeno rispetto alle definizioni geo-letterarie di partenza. Tuttavia, per quanto vi possa essere qualcosa di difficoltoso nel determinare un punto nodale come questo, è bene tentare. Mi occupai, tempo addietro della figura di Ajace Telamonio nell’ambito della produzione letteraria italiana dalle origini fino ai nostri giorni, per determinare come le azioni compiute dal medesimo avessero avuto nel corso dei secoli un processo di involuzione e di banalizzazione rappresentativa che è possibile determinare e toccare con mano nei testi a lui dedicati32. Neppure io, però, mi chiesi in quale misura fosse possibile quantificare una connessione critica tra l’atto delirante e disonorevole posto in essere da Aiace (il tentativo di sterminare gli altri eroi presenti con lui a Troia a causa del torto rappresentato dalla non assegnazione a lui delle armi di Achille, tentativo frustrato da Atena, che lo porta invece ad uccidere dei maiali e in seguito, a causa dell’onta recatagli da questo gesto, ad uccidersi) e la follia di Orlando33. Il bestiale comportamento del Telamonio, dettato da un sentimento d’iracondia e d’onore offeso, è certamente distante – nelle sue motivazioni primarie – dal dissennato denudarsi di Orlando, il quale agisce in modo sconsiderato perché affetto da una versione patologica di gelosia che non gli lascia alcuno scampo34. Tuttavia, fatta astrazione del concetto di furor bellicus che, almeno nel caso ariostesco, evidentemente non ricorre35, vi sono alcune connessioni indubitabili:
1) Entrambi hanno intrapreso il mestiere delle armi, rivelandosi come i più forti ed i più determinati guerrieri dell’esercito di cui fanno parte (con l’eccezione, nel caso greco, di Achille, il quale però all’interno dell’Iliade combatte quantitativamente molto poco);
2) In alcuni dipinti neoclassici (ad esempio, una tela del Poussin36 ) Aiace morente viene rappresentato completamente nudo, senza nessuna “subùcula” o chitone che lo coprisse, il che lascia intravedere una connessione abbastanza complessa tra nudità e follia37.
3) La nudità di Orlando è altresì mostrata da tutti i pittori che lo hanno rappresentato, in modo sostanzialmente analogo e con poche differenze di struttura se non nel caso delle illustrazioni del Doré, dove riappare una “braga” a coprire le vergogne dell’eroe38.
[...]
1 Dopo Lanfranco Caretti (e cfr. L. Caretti, Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1961, variamente ristampato), lo studioso che maggiormente ha indagato la rete dei rapporti socio-culturali e letterari tra i vari esponenti dell’epica rinascimentale e manierista è lo Jossa. Al proposito cfr. S. Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali (1540-1560), Napoli, Vivarium, 1996; e La fondazione di un genere: il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, 2002. Ma il tema è di non poca sostanza: si vedano, solo negli ultimi vent’anni, A. Casadei, B. Basile, Ariosto e Tasso, Roma, Salerno, 2001; G. Sacchi, Fra Ariosto e Tasso: vicende del poema narrativo, Pisa, Edizioni della Normale, 2006; C. Segre, Tasso, Ariosto e rifacimenti, Milano, RCS, 2007; S. Zatti, The quest for epic: from Ariosto to Tasso, Toronto, UTP, 2006; F. Sberlati, Il genere e la disputa: la poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2006; M. Corradini, La tradizione e l’ingegno: Ariosto, Tasso, Marino e dintorni, Novara, Interlinea, 2004; J.A. Cavallo, The romance epics of Boiardo, Ariosto and Tasso: from public duty to private pleasure, Toronto-Buffalo-London, UTP, 2004. Tutti questi volumi, ovviamente, sono corredati da ampia bibliografia.
2 Cfr. il mio Un eroe dai mille volti. L’Aiace letterario italiano tra Seicento e Novecento, Raleigh (NC), Lulu Press, 2014.
3 Cfr. Cantare di Giusto Paladino. Edizione critica a cura di Vincenzo Cassì, Giorgio Pozzi, Ravenna, 2021
4 Cfr., per tali definizioni, C. Bordoni, Il romanzo di consumo. Editoria e letteratura di massa, Napoli, Liguori, 1993, passim.
5 La menzione del testo, ad esempio, è del tutto assente nel repertorio di C. Trabalza, La critica letteraria nel Rinascimento (secoli XV. XVI. XVII), Milano, Vallardi, 1915.
6 Per un riscontro bibliografico accessibile ai profani, cfr., ad esempio, Cantari fiabeschi arturiani, cur. D. Del Corno Branca, Roma, Carocci, 1999. Ancora interessante, sempre per farsi un’idea iniziale ed esemplificativa del genere letterario in questione, la raccolta Fiore di leggende. Cantari Antichi, cur. E. Levi, Bari, Laterza, 1912, con bibliografia, nonché Cantari cavallereschi dei secoli XV e XVI, cur. G. Barini, Bologna, Romagnoli Dell’Acqua, 1905, anch’essa con bibliografia. Ma, come si comprenderà facilmente, la bibliografia su tale argomento è molto vasta e il Cassì ne raccoglie buona parte alla fine del suo pregevole volume.
7 Cfr, per tali questioni cronologiche R.S. Loomis, «The Arthurian Legend before 1139», in The Romanic Review, 32 (1941), pp. 3 – 38.
8 Cfr. Della storia e della ragione d’ogni poesia volume quarto dell’abate Francesco Saverio Quadrio dove le cose all’epica appartenenti sono comprese etc. In Milano, MDCCXLIX. Nelle Stampe di Francesco Agnelli, p. 169.
9 Ivi, p. 171.
10 Cfr. G.B. Valvekens, «Gerlaco di Valkenburg», in Aa.Vv., Bibliotheca sanctorum. Enciclopedia dei santi. Vol. 6, Roma, Citta Nuova, 1996, ad vocem.
11 Cfr., ad esempio, BHL, p. 514, dove se ne fa menzione con un titolo diverso rispetto a quello corrente.
12 Cfr., per una pubblicazione moderna con testo olandese a fronte, Vita beati Gerlaci Eremytae: de Heilige van het Geulda, cur. J.G.M. Notten, s.e., Houthem-St.Gerlach (NL), 1990, con bibliografia. Si vedano però anche le edizioni e gli studi elencati in https://www.narrative-sources.be, ad. voc “Vita Gerlaci et miracula”, ult. cons. 29 giugno 2021. Ad ogni modo, per raffronti certi rimane ancora indispensabile il testo custodito in AA.SS., I. pp. 304 – 319.
13 Cfr. M. Bianciardi, “Complessità del concetto di contest”, in Connessioni, (1998), 3, pp. 29 – 45, in part. p. 43 (ma su tali questioni, cfr. anche P. Bertrando, Testo e contesto. Narrativa, postmoderno e cibernetica, ivi, pp. 47 – 69).
14 Cfr. L. Ariosto, Orlando Furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, Bologna, CTL, 1960, pp. 782 – 783 (il volume è a cura di C. Debenedetti e C. Segre).
15 Per quel che concerne l’episodio, ovviamente, i tentativi d’interpretazione critica sono stati molti, a vari livelli. Una buona bibliografia la si trova in S. Zatti, Il “Furioso” fra epos e romanzo, Milano, Pacini Fazzi, 1990, p. 85, n. 1, a cui aggiungerei almeno S. Jossa, “L’Eroe nudo e l’eroe vestito. La rappresentazione di un gesto da Omero a Cervantes”, in Intersezioni, 21/1 (2001), pp. 5 – 36; M. Donà, Di qua, di là. Ariosto e la filosofia dell’Orlando furioso, Milano, La Nave di Teseo, 2020 (rielaborazione del saggio Percorsi della follia, in Aa.Vv., Là dove finisce la parola, cur. F. Moretti, G. Franchi, Milano, Mimesis, 2019, pp. 72 – 93); G. Borroni, Le tre follie di Orlando. Il Berserk, il Wild man, il Trickster, Lucca, Tra le Righe, 2016. Anche tali testi sono corredati da ampia bibliografia, valida soprattutto per gli studi anteriori al 1990.
16 A puro titolo d’esempio, cfr., su tali questioni, A. Vincenzoni, Luigi Tenco e Dino Campana: poeti allo specchio, Cagliari, Logus, 2013, passim.
17 Sul duo Mogol-Battsiti (ma soprattutto su Giulio Rapetti Mogol), c’è una buona base bibliografica. Cfr. per un minimo di riscontro, M. Rossi, Battisti-Mogol. Tradizione spirituale ed esoterismo, Empoli, Ibiskos, 2008; G. Salvatore, L’arcobaleno: storia vera di Lucio Battisti vissuta da Mogol e dagli altri che c’erano, Firenze, Giunti, 2000; F. Caon, L’italiano parla Mogol: imparare l’italiano attraverso i testi delle sue canzoni, Perugia, Guerra, 2011; G. Saladini, G. Favero, Raccontando Mogol, Piombino (LI), Il Foglio, 2014; G. Fontana, Mogol. Umanamente uomo, Milano, Ricordi, 1999; R. Stefanel, Ma c’è qualcosa che non scordo. Lucio Battisti: gli anni con Mogol, Roma, Arcana, 2007. Altri volumi verranno citati via via.
18 Cfr., per il testo della canzone in oggetto, G. Salvatore, Mogol-Battisti. L’alchimia del verso cantato. Arte e linguaggio della canzone moderna, Roma, Castelvecchi, 1998, p. 234.
19 Cfr., su questo, L. Ceri, Pensieri e parole. Lucio Battisti: una discografia commentata, Milano, Coniglio, 2008, p. 28
20 Cfr. Salvatore, Mogol-Battisti, cit., p. 236.
21 Cfr., sulla questione, J. Chevalier, A. Gheerbrandt, Dizionario dei simboli, Milano, Rizzoli, 1999, p. 528.
22 Leggo il testo in F. Figurelli, R. Ramat, E. Bonora, L. Russo, C. Muscetta, a cura di, I classici italiani: pt. 1-2. Dal Duecento al Quattrocento, Firenze, Sansoni, 1963, p. 1007.
23 Su tali questioni, cfr – da ultimo – P. De Capitani, “Angelica da Ariosto a Boiardo: un percorso a ritroso. Proposta di lettura di Orlando Furioso XIX 18”, in Chroniques italiennes, 22/1 (2012), letto in https://docplayer.it/32188407-Angelica-da-ariosto-a-boiardo-un-percorso-a-ritroso-proposta-di-lettura-di-orlando-furioso-xix-18-33.html, ult. cons. 15 aprile 2021, con bibliografia.
24 Cfr. D. Alighieri, Vita Nova, III.4-8, che leggo in G. Barberi Squarotti, S. Cecchin, A. Jacomuzzi, M.G. Stassi a cura di, Opere minori di Dante Alighieri: Vita nuova, De vulgari eloquentia, Rime, Ecloge, Torino, UTET, 1983, p. 74.
25 Cfr. Id., Purg., XXX.22-33. Per il testo, cfr. G. Fallani, N. Maggi, S. Zennaro, a cura di, Tutte le opere, Roma, Newton Compton, 2010, p. 411.
26 Il dipinto è del 1773. Per tali notizie, cfr. R. Pallucchini, La pittura veneziana del Settecento, Venezia-Roma, ICC, 1960, pp. 231 sgg.
27 Cfr., su tali questioni, G. Liebman Parrinello, a cura di, Il bosco nella cultura europea tra realtà e immaginario: atti del Convegno internazionale, Roma, 24-25 novembre 1999, Roma, Bulzoni, 2002, passim. L’origine della citazione boschereccia, come ricorda il Ciccarelli (e cfr. A. Ciccarelli, Nota sulla follia di Orlando in Ariosto, in «Italica», 94/4, 2017, pp. 665 – 684, in part. p. 673), è oraziana.
28 Per quanto riguarda il livello metamorfico nella letteratura rinascimentale, rimanderei a B. Guthmüller, Mito e metamorfosi nella letteratura italiana: da Dante al Rinascimento, Roma, Carocci, 2009, con bibliografia.
29 Mi rifarei a una linea interpretativa già tracciata, almeno per la letteratura medioevale, da S. Orlando, Uomini selvatici e poeti nella lirica cortese romanza, in Aa.Vv., Studi testuali, Raccolta di saggi dedicata a D’Arco Silvio Avalle, s.n.c., Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1984, pp. 83-108. Ristampato con modifiche e col titolo “L’uomo selvatico tra verosimile e inverosimile”, in Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, 25 (1985), pp. 77 – 86. Si tenga conto che l’uomo selvatico viene menzionato anche in Boiardo ( Orl. Inn., I.23.41-48).
30 Sulle forme della follia nel panorama letteraria del secolo XVI, cfr. essenzialmente G. Scianatico, Il dubbio della ragione: forme dell’irrazionalità nella letteratura del Cinquecento, Padova, Marsilio, 1989, pp. 50 sgg.
31 Queste notizie in J. Leon, Jab Thak Hai Jaan, Brisbane (AUS), Emereo Publishing, 2015, passim.
32 Cfr. il mio Un eroe dai mille volti. L’Aiace letterario italiano tra Seicento e Novecento, Raleigh (NC), Lulu Press, 2014, passim.
33 A mia saputa, in letteratura scientifica, l’unico collegamento certo tra i due, ossia non dovuto a semplici suggestioni, è stato notato analizzando i duelli notturni che implicano entrambi i personaggi (rispettivamente, quello tra Aiace ed Ettore e quello tra Orlando e Agricane, per cui cfr. G. Monorchio, Il duello nella trattatistica e nell’epica Rinascimentale, Madison [WI], UWP, 1985, p. 165).
34 Cfr. F. Ferretti, “La follia dei gelosi. Lettura del canto XXXII dell’Orlando furioso”, in Lettere Italiane, 62/1 (2010), pp. 20 – 62, in part. pp. 31 sgg. In quel caso, tal genere di follia vien fatta ascendere ad antecedenti ovidiani.
35 Cfr., su ciò, P. Taviani, Furor bellicus, Milano, FrancoAngeli, 2012.
36 Ho scelto di basarmi, per tali osservazioni, su quanto leggesi in A. Blunt, Nicolas Poussin, London, Pallas Athene, 1967, pp. 106 sgg. (il dipinto ivi menzionato è del 1631). La descrizione del Blunt, peraltro, pone in evidenza il livello spaziale più che quello della nudità. Si noti che Poussin colloca il particolare del suicidio del Telamonio in un ambito più vasto, d’ispirazione ovidiana e marinista (la tela in cui esso si trova è significativamente intitolata Il suicidio di Flora). Ma su ciò, cfr. essenzialmente R.B. Simon, “Poussin, Marino, and the interpretation of Mithology”, in The Art Bulletin, 60/1 (1978), pp. 56-68, in part. pp. 61 sgg; e T. Thomas, “ Un fior vano e fragile : The Symbolism of Poussin’s Realm of Flora”, ivi, 68/2, 1986, pp. 225-236, in part., sulla questione, pp. 227 – 228. A latere, noterei che Thomas inserisce la follia di Aiace nel contesto del furor bellicus, riprendendo un’annotazione fatta dall’erudito rinascimentale Giuseppe Orologi alle Metamorfosi ovidiane tradotte dall’Anguillara. Se Thomas la riporta tradotta in inglese, io la leggo – essendomi stato inaccessibile il testo parigino del 1554 – nel volume pubblicato a Venezia nel 1820 (e cfr. Le Metamorfosi d’Ovidio ridotte da Giovanni Andrea Dell’Anguillara in ottava rima con le annotazioni di M. Giuseppe Orologgi e con gli argomenti di Francesco Turchi, Venezia, Martini e Rizzi, 1820, p. 221: «Si vede nella contenzione trattata diffusamente da Omero tra Ajace, ed Ulisse per l’armi di Achille quanto yaglia negli eserciti un capitano così esercita pratico, e bel favellatore, e prudente ne’ maneggi di guerra, come ancora ardito, e coraggioso nel maneggiar le armi, come si vede, ch’era Ulisse perch[é] la sola fierezza, e bravura di Ajace è bene di servizio quando è regolata, dall’altrui saggezza, e prudenza, non essendo, che furiosa e precipitosa per se stessa, ed atta a voltar sossopra tutte le cose; quando si trovan ambedue queste cose cioè il cuore, e la prudenza in un solo soggetto, si può dire, che quel soggetto meriterà lodi di perfetto capitano, perch[é] non averà bisogno di esser regolato da altri nell’eseguire, come ha bisogno quello, che ha solamente l’ardire poco regolato, e non è buono, che da eseguire». Si vedano, ovviamente, anche A. Cotugno, a cura di, Le Metamorfosi d’Ovidio con le annotazioni di Giuseppe Orologi e gli argomenti di Francesco Turchi, 2 voll., Manziana [RM], Vecchiarelli, 2019, in part. vol. 1, p. 232). Va senz’altro sottolineato che essa risulta purtroppo mancante in Un eroe dai mille volti cit. Sull’Orologi, oltre alla prefazione al testo curato da Cotugno, cfr. essenzialmente G.M. Anselmi, M. Guerra, Le Metamorfosi di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, GEDIT, 2006, pp. 160 sgg.; e soprattutto G. Orologi, L’inganno, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2021, passim, con bibliografia (il volume è curato da R. Fois).
37 Come sostiene Matteo Sione, «[i]l sentimento amoroso è un oggetto che pare puerile, osceno, ridicolo: Eros, il grande dio greco dell’amore, ridotto a essere un bambino ignudo che gioca con le sue frecce. Eppure, Eros è proprio questo, una sorta di nudità, ed è forse per ciò che appare osceno. L’amore mostra ciò che del corpo non si percepisce: non già la carne, il sesso, gli odori, ma l’oscenità del sentimento, quel corpo nascosto sotto il corpo come cosa che stritola, martella e grida. L’amore è l’oscenità insopportabile della propria folle nudità» (e cfr. M. Sione, “Il discorso amoroso – Inattualità e follia dell’amore”, in Charta Sporca. Pensare inattuale, letto presso http://www.chartasporca.it/il-discorso-amoroso-inattualita-e-follia-dellamore, ult. cons. 19 aprile 2021). Che vi possa essere una connessione tra follia e nudità (così come tenuti assieme da un medium spontaneo quale il sentimento amoroso), mi pare indubitabile, anche se il discorso esegetico mi pare poco o nulla studiato.
38 Per tutte queste notizie, cfr. l’interessantissimo saggio di F. Bondi, Figure della follia dentro e attorno al Furioso, in http://www.galassiaariosto.sns.it/percorsi/figure-della-follia-dentro-attorno-furioso-2, ult. cons. 20 aprile 2021. Il Bondi, che pure non menziona parallelismi con Aiace ma fa riferimento alle rappresentazioni di Ercole, cita la scena della follia così come dipinta dal seicentesco Jean Boulanger. Lo studioso toscano nota che il Boulanger «mostra nudo il petto del suo personaggio, ma non certo “l’ispido ventre” né tantomeno il “tergo”. E se la spoliazione delle armi era chiaro simbolo della perdita da parte del sire di Anglante delle sue prerogative di guerriero cristiano, qui egli calza ancora uno schiniere della lucida armatura. Dunque, egli non ha ancora smarrito del tutto gli elementi della sua identità. Benché impressionante, l’Orlando di Boulanger più che un pazzo appare ai nostri occhi una figura ancora eroica sebbene in preda a un’ingovernabile ira, che cammina minacciosamente a grandi passi verso lo spettatore. E che dire del cupido armato d’arco che gioca maliziosamente con la sua spada? Si potrebbe pensare che quest’ultimo particolare interponga un ulteriore filtro rispetto al disagio promanato dal tema della follia, un filtro allegorico-galante, rendendo la pittura quasi una sorta di [caravaggesco] Amor omnia vincit » (con menzione indiretta di antecedenti virgiliani).