Musica e politica nel primo Novecento: conformismo, iconoclastia, mitopoiesi


Textbook, 2012

136 Pages


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INDICE

Introduzione

1. Il panorama socio-economico, politico e musicale italiano all'inizio delNovecento
1.1 Il quadro socio-economico e culturale a cavallo del 20° secolo
1.1.1 La situazione socio-economica
1.1.2 Nazionalizzazione delle masse e nazionalismo
1.1.3 Il colonialismo italiano (1882-1912)
1.2 Politica e musica nell’era giolittiana: le forze tradizionaliste
1.2.1 Lo scenario politico dell’era giolittiana
1.2.2 Il panorama musicale
1.3 Le forze rivoluzionarie: il futurismo
1.3.1 Il movimento artistico e musicale
1.3.2 Le concezioni politiche futuriste
1.3.2.1 Punti di contatto tra futurismo e fascismo
1.3.2.2 La separazione politica tra futurismo e fascismo

2. Il fascismo e la sua politica culturale
2.1 Cenni storici sul fascismo
2.2 La politica culturale del fascismo
2.2.1 Cultura fascista: una contraddizione in termini?
2.2.2 Il ruolo degli intellettuali nell’indottrinamento delle masse
2.3 L’attività del fascismo in campo musicale
2.3.1 Organismi e strutture
2.3.2 Iniziative in campo musicale
2.3.3 Iniziative musicali specifiche per le colonie
2.4 Il consenso degli intellettuali
2.4.1 Intellettuali e consenso
2.4.2 Il consenso dei musicisti
2.4.3 Temi ricorrenti nel carteggio tra musicisti e autorità fasciste

3. Produzione politico-musicale nell’epoca del regime
3.1 Musica, patria e nazione negli scritti teorici
3.2 Le forme “nazionali” della musica colta
3.3 La musica teatrale
3.4 Le canzoni dell’epoca fascista
3.5 I miti fascisti nelle canzoni
3.5.1 Il mito della ruralità
3.5.2 I miti dell’identità: patria e famiglia
3.5.3 I miti della contrapposizione: la lotta contro inglesi e comunisti
3.5.4 I miti dell’aggressività: spirito guerriero ed eroismo
3.5.5 I miti della missione: la nuova Roma imperiale, apportatrice di iviltà e libertà
3.5.6 Il mito del capo: il duce e i suoi slogan
3.6 Le caratteristiche musicali delle canzoni e il loro significato politico

Conclusioni

Introduzione

Musica e politica sono entrambe espressioni di una determinata società, della quale riflettono i valori; in risposta al mutamento delle condizioni di vita e di lavoro, che fa fronte a nuove esigenze e a sua volta ne fa sorgere altre, una società elabora man mano nuovi ideali, che vengono assunti nella teoria musicale e in quella politica, e poi tradotti in pratica in prodotti musicali (brani strumentali, opere, canzoni) e nella formulazione ed applicazione di leggi e provvedimenti amministrativi.

Ma accade anche che artisti e uomini politici intuiscano con anticipo i mutamenti sociali in preparazione, e dunque si pongano alla guida di movimenti che aspirano ad orientare l’evoluzione della società verso i traguardi da loro auspicati.

In ragione di queste analogie, e dell’effetto che per un verso musica e politica hanno sulla società, e per un altro circolarmente subiscono da essa, è ipotizzabile un rapporto circolare anche tra queste due arti[1]: si può ritenere cioè che la musica, influendo sulle emozioni di individui e gruppi, possa stimolare questi ad assumere determinati comportamenti politici, e che la politica possa incidere sui comportamenti di chi fa o ascolta musica, favorendo o viceversa contrastando la produzione e la diffusione di certi stili o generi musicali.

In verità, la capacità della musica di influire sulle emozioni e sui comportamenti è nota da diversi secoli: già Platone nelle Legg i e in Repubblica considerava la musica capace di parlare direttamente alla parte irrazionale dell’anima, indirizzando così l’individuo verso specifici comportamenti[2]. Poiché, secondo il filosofo ateniese, la maggiore o minore aderenza di tali comportamenti alle norme sociali condivise era in stretta relazione con il tipo di musica ascoltata[3], e d’altra parte la formazione di cittadini rispettosi della legge era interesse della polis, incentivare o viceversa bandire l’ascolto di determinati tipi di musica era a suo avviso un preciso compito del governo[4].

La capacità della musica di influire sulle emozioni, e di conseguenza sui comportamenti, è stata fatta oggetto di diversi studi anatomici e funzionali, che hanno chiarito i meccanismi sui quali essa è fondata: i messaggi non verbali percepibili attraverso i sensi della vista, dell’udito, del tatto, prima di arrivare alla corteccia cerebrale, dove possono essere elaborati razionalmente, passano attraverso il sistema limbico e il talamo, detto “cervello emozionale”. Per ragioni di carattere evolutivo, legate all’ottimizzazione delle chance di sopravvivenza, prima ancora di poter concepire un pensiero, l’individuo reagisce velocemente a questi stimoli esterni per mezzo delle emozioni. Queste sono appunto delle reazioni affettive, in genere brevi ma intense, che insorgono all’improvviso in risposta alla situazione ambientale; grazie ad esse l’individuo può distinguere rapidamente tra stimoli positivi, negativi e neutri[5].

La risposta individuale attivata dal sistema limbico è dunque di tipo non razionale. Ugualmente di tipo non razionale sono i comportamenti delle masse, inclini a reagire alle emozioni violente in maniera immediata ed acritica, e dunque facilmente influenzabili dall’esterno.

Tale combinazione di fattori spiega il motivo per cui i prodotti artistici non verbali, che intendono sollecitare una risposta emotiva immediata da parte dei fruitori, possono essere efficacemente utilizzati nella propaganda politica. Questa mira a modificare il modo in cui la massa percepisce una situazione, in modo da favorire non già una ponderata riflessione critica, ma una immediata e irriflessa reazione emotiva. Perciò chi gestisce la propaganda seleziona i testi, le immagini e i suoni con cui compone i vari messaggi, in modo da elicitare una reazione che sia in linea con le proprie aspettative[6].

Utilizzata nell’ambito della propaganda, la musica può dunque stimolare il consenso delle masse ad una linea politica; si può dire perciò che la musica può influire sulle scelte politiche.

D’altra parte è anche vero che la politica può influire sulla musica, incidendo sulla vita e le scelte professionali dei musicisti, che a loro volta si riflettono sulla musica da essi composta ed interpretata.

L’idea di questo lavoro è nata appunto dal desiderio di investigare sui seguenti punti: i) i comportamenti musicali di compositori ed ascoltatori sono influenzati dalle loro convinzioni politiche e/o dalla linea politica assunta dal governo in carica? ii) i comportamenti politici dei fruitori di musica sono influenzati dalla musica da essi ascoltata?

Una volta individuate le ipotesi di ricerca è stato delimitato il campo della ricerca stessa, definendone le coordinate spazio-temporali: si è scelto così di concentrare l’attenzione sulla situazione italiana nel 20° secolo.

In questo periodo, in ragione dell’accelerazione impressa ai processi di industrializzazione ed urbanizzazione in atto, la società italiana aveva ormai assunto la forma della società di massa. La scelta di un periodo caratterizzato dalla società di massa è stata determinata dal fatto che essa permetteva appunto di riflettere sui comportamenti musicali e politici delle masse, più agevolmente osservabili di quelli di gruppi di minore entità.

Dopo aver così inquadrato a grandi linee l’ambito spazio-temporale della ricerca, è stato individuato come particolarmente interessante il periodo intercorrente tra l’inizio del 20° secolo e la fine della seconda guerra mondiale, in quanto i mutamenti politici e musicali occorsi, di grande rilevanza, hanno avuto luogo in un lasso di tempo abbastanza contenuto.

Dal punto di vista metodologico è stato privilegiato un approccio diretto alle fonti primarie, attuato esaminando scritti di politici, esponenti culturali e musicisti; manifesti programmatici, articoli pubblicati su giornali e riviste; testi e musica di opere teatrali, inni e canzoni. Allo studio delle fonti primarie si è affiancato ovviamente quello delle fonti secondarie, realizzato individuando ed esaminando opere particolarmente significative di ambito storico, politologico, musicologico e letterario.

Dal punto di vista strutturale, il lavoro è articolato in tre capitoli. Il primo capitolo verte sul panorama socio-economico, politico e musicale italiano all'inizio delNovecento, e ne evidenzia in particolare le forze tradizionaliste (par. 1.2) e quelle rivoluzionarie (par. 1.3). Il secondo capitolo tratta del fascismo e della sua politica culturale, ed approfondisce in special modo il ruolo attribuito agli intellettuali nell’indottrinamento delle masse (par. 2.2), gli organismi e le strutture operanti in ambito musicale (par. 2.3.1), e il consenso dato al fascismo dagli intellettuali (par. 2.4.1) e specificamente dai musicisti (par. 2.4.2). Il terzo capitolo incentra la riflessione sulla produzione politico-musicale nell’epoca del regime, esaminando scritti teorici di musicisti e musicologi (par. 3.1), e composizioni afferenti sia al genere della musica colta sia a quello della musica popolare: il taglio ideologico di tali prodotti (par. 3.5 e 3.6) è evidenziato attraverso l’analisi di alcune opere rappresentative, compiuta tanto sotto il profilo testuale quanto sotto quello propriamente sonoro-musicale (par. 3.3 e 3.4).

1. Il panorama socio-economico, politico e musicale italiano all'inizio delNovecento

Il processo di industrializzazione, che si verificò nella maggior parte dei paesi europei a partire dagli anni ’80 del 19° secolo, denominato dalla storiografia economica “seconda rivoluzione industriale”, determinò l’avvio e la progressiva accelerazione di modificazioni che si verificarono non soltanto in campo economico, ma anche in campo sociale, politico e culturale. In Italia questo processo si intersecò dapprima con il processo di costruzione del senso di appartenenza alla nuova comunità nazionale, nata con il Risorgimento, e poi con il processo di nazionalizzazione delle masse che, circolarmente, preluse al fascismo, e fu da esso fortemente incentivato.

1.1 Il quadro socio-economico e culturale a cavallo del 20° secolo

1.1.1 La situazione socio-economica

Tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo l’Italia, paese fino ad allora prevalentemente agricolo, incrementò il proprio sviluppo industriale, attuando una consistente crescita sia nei settori più tradizionali che in quelli tecnologicamente più avanzati e strategici. Grazie al protezionismo doganale il settore tessile, l’industria saccarifera, l’industria siderurgica e l’industria idroelettrica ebbero un forte sviluppo. L’industria meccanica avviò o ampliò la produzione di materiale ferroviario, turbine e caldaie, utensili di precisione, macchine da cucire, macchine per scrivere e, soprattutto, automobili. Lo sviluppo industriale di fine Ottocento permise all’economia italiana di essere competitiva sui mercati internazionali in diversi settori[7].

L’aumento del reddito nazionale, però, benché notevole, non fu affatto uniforme, e registrò squilibri sia tra i diversi settori che tra le diverse aree del paese: si evidenziò infatti una profonda divergenza tra lo sviluppo del nord, maggiormente industrializzato e capace di attuare tecniche produttive più moderne anche in campo agricolo, e il sud, nel quale il processo di industrializzazione era assai più lento e l’agricoltura, praticata con assai minore impiego di capitali, era tecnicamente più arretrata e dunque assai meno produttiva[8]. Le ragioni del ritardo dello sviluppo del sud erano individuate da taluni nell’orografia accidentata, nella scarsità di risorse idriche e nel clima sfavorevole[9], ma da altri anche e soprattutto nelle scelte politiche dei vari governi. Infatti, il pesante prelievo fiscale aveva in sostanza “finanziato” lo sviluppo del nord impoverendo il sud[10], e quest’ultimo veniva considerato da molti settentrionali quasi una sorta di colonia, utile più che altro come mercato per i loro prodotti industriali[11].

Le masse contadine meridionali, che vivevano generalmente in condizioni di estrema povertà e arretratezza, alternarono ondate migratorie verso l’America a esplosioni di rivolta sociale, superficialmente etichettate come ‘brigantaggio’ da una classe dirigente assolutamente impreparata ad affrontare i problemi del Mezzogiorno, e da un’opinione pubblica orientata dai giornali del Nord, che mettevano in rilievo la diversità e l’inciviltà delle popolazioni meridionali[12].

Nelle campagne settentrionali, invece, il bracciantato agricolo si organizzò in diversi sindacati, che nel 1901 diedero vita alla Federterra di ispirazione socialista.

Lo sviluppo industriale vide non soltanto il sorgere di parecchi impianti industriali, nei quali le condizioni di lavoro erano frequentemente pessime, ma anche di insediamenti abitativi intorno alle fabbriche, nei quali mancavano le più elementari infrastrutture. Ciò derivava da una cultura imprenditoriale spesso autoritaria e da un mercato del lavoro fortemente sbilanciato a favore degli imprenditori[13]. Per questi motivi, accanto al movimento contadino si sviluppò il movimento operaio, che lottava per assicurare diritti e migliori condizioni di vita e lavoro al proletariato industriale. Verso la fine dell’Ottocento nacquero le società di mutuo soccorso e le camere del lavoro, e nel 1892 nacque il partito socialista italiano, che si propose come moderno partito di massa, perseguendo, almeno inizialmente, una politica di tipo riformista.

Il movimento operaio e contadino si diffuse, mentre i ceti più conservatori (proprietari terrieri e industriali) opposero una forte resistenza al riconoscimento dei più elementari diritti dei lavoratori. In conseguenza di ciò, i conflitti sindacali e sociali crebbero di numero e di intensità. In seguito ai cattivi raccolti dell’anno precedente, nel 1898 esplosero in tutto il paese moti spontanei, a cui la classe dirigente liberale reagì in maniera autoritaria. A Milano il generale Bava Beccaris ordinò ai soldati di sparare sui manifestanti disarmati, in varie città fu proclamato lo stato d’assedio, furono arrestati militanti politici e sindacali[14].

La svolta antidemocratica acuì la tensione sociale, e rese impellente il bisogno di trovare un sistema di valori unificanti, che impedisse la disgregazione dello Stato appena formato.

1.1.2 Nazionalizzazione delle masse e nazionalismo

Il passaggio dalla società borghese alla società di massa, nella quale la produzione, la distribuzione e il consumo di beni e servizi si realizzano su vasta scala, avvenne nella maggior parte dei paesi europei con la rapida accelerazione impressa alla fine del 19° secolo ai processi di industrializzazione ed urbanizzazione[15]. In conseguenza di essi persero progressivamente il loro ruolo preminente le istituzioni (in primo luogo la famiglia patriarcale) che fino ad allora avevano saldamente collegato i propri membri, fornendo valori e reti di protezione[16]. A livello individuale l’allentamento di tali legami significativi fu vissuto con smarrimento, come una perdita di valori e di identità, che “doveva” essere rimpiazzata trovando modi diversi per dar risposta al proprio bisogno di appartenenza[17].

Si pose dunque il problema della selezione di “nuovi” valori, sia a livello individuale, sia a livello di massa. In ambito politico, l’entrata delle masse nella vita politica creò l’opportunità per la loro integrazione in un sistema di valori nazionali[18] ; in Italia, divenuta da pochi anni Stato unitario, l’esigenza della nazionalizzazione delle masse fu particolarmente acuta e pressante.

Gli studiosi hanno messo in rilievo che l’identità nazionale è una costruzione culturale che spesso si realizza per impulso delle élite dirigenti dello Stato: rilevando il pericolo che la nuova società industriale, mancante dei meccanismi di coesione sociale caratteristici della società rurale, vada incontro a fenomeni di disgregazione, si promuove il nazionalismo come collante culturale. Circolarmente, il nazionalismo costituisce uno strumento di legittimazione della stessa autorità dello Stato e delle élite dirigenti[19].

Nella costruzione dell’identità nazionale confluiscono dunque elementi economici, politici e culturali: la particolare importanza di questi ultimi fa sì che spesso siano gli intellettuali a indicare alle masse degli ‘interessi nazionali’ unificanti, facendo leva su elementi simbolici (la bandiera, l’inno nazionale, le feste nazionali) e ideologici (i miti)[20].

In verità, il ‘secondo nazionalismo’ italiano[21], nato alla fine dell’Ottocento, fu inizialmente un fenomeno letterario e culturale, diffuso all’interno di una ristretta cerchia di intellettuali; in seguito però assunse un carattere sempre più esplicitamente politico.

Un contributo significativo venne fornito dalle opere dello scrittore Alfredo Oriani: in Fino a Dogali (1889) egli sostenne che l’Italia aveva il dovere morale di proseguire l’opera civilizzatrice di coloro che erano caduti a Dogali. In La rivolta ideale (1908) egli sottolineò che la grandezza del passato italiano imponeva la responsabilità di assumere anche nel presente una analoga prospettiva di grandezza.

Una figura centrale del nazionalismo italiano fu quella dello scrittore e uomo politico Enrico Corradini, che contribuì a creare l’Associazione Nazionalista Italiana nel 1910, e il settimanale L’Idea Nazionale nel 1911. Dalle colonne di quest’ultimo egli diffuse le sue idee politiche, che sostenevano la necessità di uno stato forte, di una politica estera espansionista e colonialista, dell’abbandono delle istituzioni democratiche che si erano dimostrate ‘imbelli’ e ‘corrotte’. Il movimento nazionalista di Corradini era dunque politicamente conservatore e autoritario.

Nell’intento di ottenere l’appoggio delle masse, Corradini si rivolse loro con un’abile miscela di imperialismo e populismo, usando slogan di grande efficacia, che istituivano un’analogia tra la situazione del proletariato, sfruttato dalla borghesia, e quella dell’Italia, il cui sviluppo era ostacolato dai potenti stati circostanti. Tra i messaggi di maggiore presa ci furono i seguenti: i) l’Italia è un grande paese proletario, ii) fra l’Italia e gli stati circostanti corre la stessa relazione che c’è tra la classe operaia e la borghesia, iii) l’Italia, senza risorse industriali e senza un impero coloniale, è costretta dalle altre potenze ad un ruolo subalterno, mentre la sua stessa posizione geografica nel Mediterraneo la destina ad un ruolo ben più importante[22].

Anche il poeta Giovanni Pascoli aderì negli ultimi anni al nazionalismo, divenendo fautore dell’espansione coloniale. Il discorso tenuto nel novembre 1911 in onore dei caduti nella guerra di Libia offre un efficace esempio di retorica nazionalista:

La grande Proletaria s’è mossa. (…) ha trovato (…) [per i suoi lavoratori] una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre, verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole di acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini. (…) Là i lavoratori saranno (…) agricoltori sul suo, sul terreno della Patria[23].

Il ‘secondo nazionalismo’ italiano era dunque strettamente legato ad una visione imperialista e colonialista, che tanto secondo i politici di ieri quanto secondo gli studiosi di oggi, era la sola capace di aggregare tutte le forze sociali, unificando e stabilizzando la struttura sociale e politica[24].

1.1.3 Il colonialismo italiano (1882-1912)

Fin dagli anni ’80 l’Italia impegnava risorse economiche, diplomatiche e militari al fine di conquistare anch’essa, come le altre grandi potenze, dei possedimenti coloniali.

Nel 1882 il governo italiano ottenne la baia di Assab dalla Compagnia di Navigazione Rubattino, che l’aveva acquistata nel 1869, mentre non riuscì, nonostante vari tentativi, ad acquistare od occupare il porto di Zeila; nel 1885, grazie ad un accordo con la Gran Bretagna, riuscì però ad occupare il porto di Massaua, Il governo Crispi, in carica con un breve intervallo dal 1887 al 1896, considerò queste acquisizioni come basi per la conquista di un impero coloniale, che, secondo gli auspici, doveva comprendere l’intero Corno d’Africa. Nel 1889 i possedimenti italiani sul mar Rosso furono ufficialmente riconosciuti dal negus etiope Menelik II, e l’anno successivo essi ebbero il nome di colonia Eritrea. Nello stesso periodo il trattato sottoscritto ad Uccialli dai sultani locali stabilì il protettorato italiano sulla Somalia.

In seguito, basandosi su una controversa interpretazione di tale trattato, l’Italia pretese di esercitare il protettorato anche sull’Etiopia, e riprese i tentativi di penetrazione militare: ma le truppe italiane, impreparate e mal guidate, subirono pesanti sconfitte all’Amba Alagi (1895) e ad Adua (1896). Quest’ultima sconfitta condusse alla definitiva uscita di Crispi dalla scena politica italiana.

Dopo la caduta di Crispi, che aveva sostenuto una politica filotedesca e antifrancese, l’Italia si avvicinò di nuovo a Gran Bretagna e Francia, impegnandosi a rispettarne le relative zone d’influenza in Africa settentrionale. Accettando il dominio francese in Tunisia e Marocco, l’Italia ottenne in cambio il via libera per la conquista della Libia, appartenente all’impero ottomano, da tempo in crisi. Nel 1911-1912 Giolitti decise quindi di riprendere la politica di espansione coloniale, dichiarando guerra all’impero ottomano e occupando le regioni libiche della Tripolitania e della Cirenaica.

La guerra di Libia, che dette inizio alla formazione della colonia della Libia italiana, rispondeva a diverse finalità: portare l’Italia nel novero delle “grandi potenze”, dirottare all’esterno le tensioni sociali esistenti nel paese, e costituire una grande opportunità economica. Lo stesso socialista Antonio Labriola considerava la conquista di Tripoli un buon affare per la borghesia e anche per il proletariato italiano[25]. In verità, a trarre profitto dall’impresa in Libia (territorio che non aveva al momento grande rilievo economico, dato che il petrolio non vi era ancora stato scoperto), furono soprattutto le banche, gli armatori e l’industria pesante[26].

1.2 Politica e musica nell’era giolittiana: le forze tradizionaliste

1.2.1 Lo scenario politico dell’era giolittiana

Giovanni Giolitti, ministro degli interni nel governo Zanardelli (1901-1903) e poi presidente del consiglio, con brevi interruzioni, fino al 1914, propugnava una concezione innovativa e progressista del liberalismo.

Egli aderiva alle idee centrali del liberalismo, fondate su limitazione dell’azione statale e valore autonomo riconosciuto all’individuo[27] “senza negare le necessità della nazione”[28], e sosteneva la necessità di coniugare sviluppo economico e libertà politica integrando la classe operaia nelle istituzioni dello stato liberale. Nel discorso parlamentare del 4 febbraio 1901, egli espose così le sue concezioni:

Noi siamo all’inizio di un nuovo periodo storico, ognuno che non sia cieco lo vede. Nuove correnti popolari entrano nella nostra vita politica, nuovi problemi ogni giorno si affacciano, nuove forze sorgono con le quali qualsiasi governo deve fare i conti[29].

Si instaurò così un dialogo con la corrente riformista del partito socialista, il cui leader Turati riteneva che la classe operaia dovesse favorire la crescita di una moderna borghesia industriale, perché questo sviluppo avrebbe permesso, col tempo, una trasformazione della società secondo gli auspici socialisti[30]. La strategia politica a breve termine sostenuta da Turati prevedeva che il PSI premesse sul governo perché fossero realizzate le riforme più immediatamente necessaire. Infatti Turati scriveva nel 1901

E’ pensiero comune del partito socialista che la trasformazione (…) non possa farsi né per decreti dall’alto, né per impeti subitanei dal basso, ma presupponga tutta una lenta e graduale trasformazione, anzitutto dell’ossatura industriale (…) poi, e coerentemente, una trasformazione e un elevamento, non meno lenti e graduali, del pensiero, delle abitudini, delle capacità delle stesse masse proletarie[31].

Con l’appoggio esterno dei socialisti, e superando le resistenze degli strati più conservatori, Giolitti attuò dunque una politica che mostrava di tenere in considerazione bisogni e desideri delle classi lavoratrici, della piccola proprietà contadina, dei piccoli industriali, degli artigiani, dei professionisti, dei pubblici funzionari: varò leggi di protezione sociale dei lavoratori, quali quelle volte a tutelare il lavoro di donne e fanciulli, a rispettare il riposo festivo, e a migliorare l’assistenza infortunistica e pensionistica, e mantenne un atteggiamento più aperto alla contrattazione sindacale, e in generale più moderato nei confronti di coloro che partecipavano a manifestazioni e scioperi indetti dai sindacati[32].

Giolitti ebbe un buon sostegno alla sua linea politica nella fase di prosperità economica, quando la lira “faceva aggio sull’oro”, cioè la quantità di valuta circolante era proporzionale alle riserve auree del Regno, il che la rendeva preferita sul mercato internazionale alla sterlina, e dava alle merci italiane un vantaggio competitivo[33]. Inoltre l’abbassamento del tasso d’interesse incentivava gli investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro[34].

Ma già nel 1907 le carenze di base dell’economia italiana, dovute sia a scarsità di materie prime sia a mancanza di capitali, si resero evidenti. La nuova crisi economica fece aumentare la resistenza alle riforme, per motivi diversi, sia da parte della destra che da parte della sinistra. Entrambi gli schieramenti, infatti, rilevarono che l’operato del governo non aveva rispettato i programmi, conseguendo risultati inferiori alle aspettative. In particolare, la politica giolittiana, industrialista e settentrionalista, pur varando alcuni programmi di interventi speciali per il sud, ebbe scarsa incidenza sui problemi del Mezzogiorno, e anzi comportò un aggravamento di questi ultimi.

In effetti soprattutto nel Meridione si susseguirono scioperi dei lavoratori agricoli e dimostrazioni di piazza che spesso dettero luogo a durissimi scontri con le forze di polizia: il timore della classe egemone borghese dinanzi alle agitazioni delle masse lavoratrici è testimoniato dalla mole di provvedimenti miranti a ristabilire l’ordine pubblico (denunce, arresti e condanne legate alle manifestazioni)[35] e dal numero di conflitti violenti con la forza pubblica (i cosiddetti “eccidi proletari”)[36]. Non a caso alcuni organi di stampa presto individuarono

sotto il velluto morbido ed insidioso delle apparenze liberali [del governo Giolitti] l’unghia traditrice della reazione[37].

Inoltre l’incapacità del sistema economico di assorbire l’offerta di forza lavoro causò l’emigrazione di milioni di persone[38].

In verità, il riformismo giolittiano, anche se sosteneva una visione progressista del liberalismo, era comunque espressione di una borghesia fermamente decisa a non cedere il potere[39]. Ne è prova la modifica della legge elettorale adottata nel 1912, che allargò il suffragio, ma lo riservò comunque a circa il 23% della popolazione, privilegiando i ceti abbienti e alfabetizzati[40].

In conclusione la linea giolittiana nonostante gli intenti programmatici, si discostò solo in piccola parte dalle modalità di gestione della vita politica già attuate nel passato.

1.2.2 Il panorama musicale

In questo periodo le ideologie fatte proprie dalla borghesia durante la prima fase dell’industrialismo, positivismo e naturalismo, esaurirono la loro spinta propulsiva: venne meno la fiducia nell’oggettività del reale, nella certezza scientifica, nel progresso infinito, e si realizzò una prima presa di coscienza dell’irrazionalità del mondo[41].

Proprio per reagire a queste destabilizzanti intuizioni, il pubblico che seguiva le manifestazioni musicali, e tra queste in particolare le popolari opere liriche, cercava in esse degli elementi di novità, che però non ponessero in crisi il suo sistema di valori e credenze rassicuranti.

E’ opportuno ricordare, infatti, che questo pubblico era composto, oltre che da appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia, soprattutto da contadini inurbati, artigiani proletarizzati, intellettuali privati del loro tradizionale prestigio, e funzionari statali mandati a operare lontani dal loro luogo di origine per realizzare l’unità degli italiani[42]. Molti di loro vivevano un disagio oggettivo, a cui tentavano di dar risposta fruendo di prodotti artistici fortemente legati alla tradizione, anche se presentati con una veste più moderna, in quanto incentrati su temi di attualità e utilizzanti un registro linguistico non aulico ma analogo al parlato quotidiano.

Dunque, diversamente dai prodotti del verismo letterario, che avevano dato voce agli strati più diseredati della società, cercando veramente di osservare il mondo con i loro occhi, le opere del verismo musicale italiano dell’epoca si limitarono ad un approccio molto più superficiale, mirante non all’approfondimento di tematiche sociali, ma soltanto alla presentazione di ambienti pittoreschi, e in cui ogni accenno a lotte di classe fosse rigorosamente bandito.

I compositori di opere veriste , Ruggero Leoncavallo, Pietro Mascagni. Umberto Giordano, Francesco Cilea, e Giacomo Puccini, scelsero perciò libretti incentrati su storie “quotidiane” imperniate sull’esaltazione di valori tipici della provincia rurale (sincerità, autenticità di sentimenti), anche se spesso ambientate in location esotiche, e li musicarono utilizzando melodie orecchiabili, evidentemente legate alla grande tradizione operistica italiana, e dunque di semplice fruizione[43].

La critica musicale odierna mette in luce che i tratti salienti del verismo musicale consistettero in un certo impegno di ambientazione mediante sonorità e melodie tratte dal vero, e soprattutto nel calare i personaggi in situazioni sceniche piuttosto violente, alle quali essi reagivano con altrettanto violente esternazioni dei propri sentimenti e stati d’animo. In pratica si trattava di un’estrema intensificazione di quel carattere melodrammatico che in precedenza era considerato tipico del Romanticismo[44].

Il rinnovamento proposto dal verismo musicale era dunque più apparente che reale, e il favore di cui le opere veriste godettero a cavallo del 20° secolo conferma, sul versante culturale, l’orientamento tendenzialmente conservatore[45] espresso dal loro pubblico in ambito politico.

1.3 Le forze rivoluzionarie: il futurismo

Mentre una parte degli intellettuali supportava le concezioni del tradizionalismo conservatore, altri presero le distanze dal governo di Giolitti e dal sistema di potere da lui incarnato, rifiutando soprattutto l’ipotesi dello sviluppo capitalistico-industriale fondata sulla libera concorrenza delle forze sociali; e quella, alla prima strettamente legata, dell’alleanza fra certi settori della borghesia e certi settori del proletariato.

Sul piano ideologico e culturale l’antigiolittismo si componeva di diversi aspetti: i) antisocialismo, che per alcuni prese la forma dell’antiriformismo, per altri quella dell’antioperaismo, ma per quasi tutti comportò una decisa lotta contro le principali organizzazioni del proletariato; ii) antidemocratismo, cioè la critica del governo della maggioranza e il rifiuto delle ideologie illuministiche; iii) antiliberalismo, cioè l’esaltazione dei principi della forza e dell’autorità[46].

1.3.1 Il movimento artistico e musicale

Mentre alcuni intellettuali interpretarono la crisi del razionalismo in modo sostanzialmente conservatore[47], altri si discostarono violentemente dalle forme artistiche dell’Ottocento, ricercando e sperimentando linguaggi assolutamente nuovi che facevano leva proprio sulla potenza dell’irrazionale[48].

Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) fondò, con il Manifesto del Futurismo (1909), un movimento artistico che proponeva un rinnovamento radicale dell’arte, considerato inevitabile per portare quest’ultima al passo con le novità introdotte dal processo di industrializzazione. Infatti, da quando le catene di montaggio riducevano enormemente i tempi di produzione, le automobili e l’illuminazione artificiale mutavano tempi e ritmi della vita cittadina, la produzione e le comunicazioni erano caratterizzate da una brusca accelerazione, che rendeva necessario mettere da parte le concezioni artistiche ‘passatiste’, di cui si avvertiva la non rispondenza al nuovo contesto.

Col suo Manifesto Marinetti lanciò un messaggio dirompente contro il conformismo della tradizione, la cultura accademica, gli istituti grammaticali e metrici, ogni forma di acquiescenza classicistica, in favore di tutto ciò che in precedenza era stato considerato impoetico, come la macchina, la tecnica, l'audacia, la velocità, la forza, la guerra, il rumore.

I futuristi sostituirono dunque i miti del passato con quelli ‘moderni’ della velocità e del progresso. In campo figurativo, ciò portò alla scelta di nuovi soggetti: gli aspetti più innovativi della realtà contemporanea fecero prepotentemente il loro ingresso nel campo artistico: le città in tumultuosa crescita, le folle in movimento, le automobili e i treni furono assunti come simboli di modernità. La pittura e la scultura accolsero la dimensione temporale, inventando nuovi modi di rappresentare il movimento, attraverso la scomposizione e la ripetizione dell’immagine, come in una sequenza di fotogrammi[49].

In campo musicaleFrancesco Balilla Pratella(1880-1955) può essere considerato l’iniziatore del futurismo musicale. Il suo pensiero è esplicitato in alcuni manifesti successivamente raccolti nel volume Musica Futurista (1912)[50].

Il primo manifesto, Il manifesto dei musicisti futuristi (1910), contiene una tagliente analisi della vita musicale italiana dell’epoca, ancora legata agli schemi stantii del melodramma. Pratella propone uno studio della musica libero dalle catene rappresentate dalle istituzioni accademiche (conservatori, critici, editori, concorsi), che alimentavano, ed erano a loro volta alimentate, dal gusto “passatista” del pubblico.

Ancora più importante è il secondo manifesto, La musica futurista - Manifesto tecnico (1911), in cui Pratella espose i punti chiave della propria teoria:esplorazione delle dissonanze e della microtonalità, uso libero e irregolare del ritmo. Fonte di ispirazione per il compositore dovevano essere la natura e soprattutto il mondo meccanizzato creato dall’uomo.

Applicando le proprie teorie musicali alle tematiche centrali del futurismo, Pratella scrisse L’aviatore Dro, un’opera ispirata alla figura di Francesco Baracca, eroe dell’aviazione della prima guerra mondiale morto durante una battaglia aerea. Musicalmente, l’opera non si discosta molto dalle atmosfere impressioniste; l’adesione al futurismo è esplicitata prevalentemente dal soggetto e dalle scelte timbriche, rese particolari dall’inserimento nella compagine orchestrale di uno specifico strumento atto a riprodurre il suono dell’aeroplano.

Alle istanze di rinnovamento musicale sostenute da Pratella si associò Luigi Russolo(1885-1947), che portò a compimento le intuizioni profetiche del suo predecessore.

Mentre le innovazioni proposte da Pratella ampliavano i modi compositivi tradizionali, e dunque mantenevano comunque un legame con la tradizione, la rivoluzione di Russolo comportò l’invenzione di suoni, strumenti e sistemi notazionali del tutto nuovi, aprendo alla musica degli orizzonti fino ad allora impensati. Se prima di Russolo il rumore era concepito come antitetico al suono musicale, interferenza, disturbo, adatto tutt’al più per brevi effetti onomatopeici all’interno di composizioni eseguite con strumenti tradizionali, con lui esso assunse pieno valore musicale ed artistico.

Il pensiero musicale di Russolo è esposto nel suo manifesto L’Arte dei rumori (13 marzo 1913) e nel volume dallo stesso titolo (1916) che raccoglie quel manifesto e i suoi scritti successivi apparsi sul mensile Lacerba [51].

Russolo presentava la sua arte dei rumori come un doveroso adeguamento dell’arte alla vita contemporanea: egli sosteneva, infatti, che siamo circondati dal rumore, effetto della modernità, e dobbiamo tenere conto delle sue infinite possibilità sonore. I suoni musicali che si utilizzano nella musica tradizionale sono falsi e soprattutto limitati, in quanto rappresentano soltanto una minima parte dello spettro di suoni presenti nel mondo naturale e meccanizzato. Invece, con l’impiego del rumore si arricchiscono le chance offerte al compositore, sia dal punto di vista tonale che dal punto di vista timbrico.

L’orchestra deve allora accogliere degli strumenti che ripropongano i suoni della modernità: Russolo stesso ideò e costruì ululatori, rombatori, crepitatori, stropicciatori, scoppiatori, gorgogliatori, ronzatori e sibilatori, e compose per essi la trilogia intitolata Spirali di rumori (1914), comprendente i quadri Risveglio di una città, Si pranza sulla terrazza dell’Hotel e Convegno d’automobili e d’aeroplani.

Particolarmente interessante è pure un’altra invenzione di Russolo, il r umorarmonio (1921), un apparecchio in grado di amplificare gli effetti sonori degli intonarumori, che può essere considerato l’antenato dell’odierno campionatore[52].

Nel suonare i nuovi strumenti musicali, essenzialmente meccanici, le doti esecutive dello strumentista avevano un ruolo molto minore di quello che esse rivestivano nell’uso degli strumenti più tradizionali; ciò limitava enormemente il peso artistico della perizia tecnica dell’esecutore, e dunque la necessità di un suo prolungato apprendistato musicale. Assumendo tale concezione, che rispondeva perfettamente alle caratteristiche livellatrici della civiltà di massa, i futuristi dimostrarono di rendersi conto che nella civiltà di massa, per un verso, le chance espressive e comunicative dell’arte potevano essere ampliate all’infinito, e, per l’altro, che il fare arte inteso come operazione assolutamente individuale non aveva più posto[53].

1.3.2 Le concezioni politiche futuriste

La concezione rivoluzionaria dell’arte e il rifiuto della tradizione sostenute dai futuristi divennero ben presto pensiero politico. Infatti, in ragione della sua impostazione globalizzante, il futurismo voleva trasformare radicalmente ogni aspetto della vita italiana, ed era animato da una forte polemica condotta sia contro la borghesia liberale che contro la sinistra umanitaria e internazionalista. Già nel 1913 il futurista Papini incitava alla “Guerra interna e Guerra esterna”, alla rivoluzione e alla conquista[54], e sosteneva con forza che i futuristi erano chiamati a realizzare la rivoluzione di cui l’Italia aveva bisogno[55].

Sviluppando il concetto marinettiano di “Arte-Azione”, secondo cui il fare arte interveniva in ogni aspetto della vita quotidiana, l’arte era concepita dai futuristi come azione totale, e rappresentava dunque il mezzo principale per guidare gli individui e la nazione ad uscire dal loro smarrimento e senso di impotenza[56]. Ciò poteva avvenire risvegliandone la vitalità attraverso l’incitamento alla lotta e alla guerra, presentate come eventi festosi di arte in atto, da vivere appunto agendo artisticamente, o, come si esprimeva Marinetti, “danzando e cantando”[57].

I futuristi aderirono dunque in modo totale alla prima guerra mondiale, certi che essa avrebbe accelerato la rivoluzione futurista[58].

Al termine della guerra, tra la fine del 1918 e i primi mesi del 1920, i futuristi precisarono il loro impegno politico, fondando un vero e proprio partito, ideato da

un gruppo di artisti, poeti, pittori e musicisti[59]

ma aperto a

tutti gli italiani, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, anche se negati a qualsiasi concetto artistico e letterario[60].

In verità, la stessa scelta dei futuristi di divulgare i contenuti culturali del movimento attraverso manifesti programmatici, volantini, cartelli pubblicitari[61] evidenzia che essi intendevano infrangere le barriere fino ad allora esistenti tra élite artistiche e masse[62], e che si proponevano di avere seguito tra le masse stesse. Infatti, già nel primo manifesto del 1909 Marinetti fa riferimento alle “grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa", alle "maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali”[63]..Questo conferma che fin dai suoi esordi il movimento considerava le masse come sue interlocutrici privilegiate, e che aveva dunque compreso che proprio il loro avvento caratterizzava in modo totalmente nuovo la società italiana del 20° secolo[64].

Nel 1932, sulle colonne del periodico Futurismo da lui fondato e diretto, Somenzi evidenziò con grande precisione le caratteristiche dell’arte futurista che ne ponevano immediatamente in luce la funzione politica[65].

L’intuizione futurista di una stretta interrelazione tra il fare arte e il fare politica è stata sviluppata in ambito marxista a partire dalla metà degli anni Trenta[66], ed è oggi accettata da molti studiosi[67]. Si può dunque ritenere che il futurismo abbia indicato nuove direzioni di sviluppo sia alla riflessione teorica che alla produzione artistica, influendo anche su movimenti di dissimile impostazione valoriale.

[...]


[1] La musica è spesso definita “l’arte dei suoni”, e secondo taluni anche la politica è un’arte; già Platone infatti la definiva tale. Geneviève Droz , I miti platonici, Bari: Dedalo, 1984, p. 24.

[2] Platone, Le leggi, Milano: BUR, 2005, 798.d.9; Id., La repubblica, Milano: BUR, 2007, 402.c.1-8.

[3] Cfr. Evanghélos Moutsopoulos, La musica nell’opera di Platone, Milano: Vita e Pensiero, 2002.

[4] Giovanni Panno, Dionisiaco e Alterità nelle “Leggi” di Platone. Ordine del corpo e automovimento dell’anima nella città-tragedia, Milano: Vita e Pensiero, 2007, p. 136.

[5] Alessandra Padula, Il ruolo della musica nella gestione delle emozioni, München – Ravensburg: Grin, 2010, p. 28.

[6] Philip M. Taylor, Munitions of the Mind: A History of Propaganda from the Ancient World to the Present Day, Manchester: Manchester University Press, 2003, p. 6.

[7] Marco Doria, L’imprenditoria industriale in Italia dall’Unità al “miracolo economico: capitani d’industria, padroni, innovatori”, Torino: Giappichelli, 1998, pp. 8-13.

[8] Vera Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell’età giolittiana, Bologna: Il Mulino, 1978, p. 194.

[9] Giustino Fortunato, Le due Italie. La questione meridionale, Firenze: Libreria della Voce, 1912, pp. 3-18.

[10] Cfr. Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Bari: Laterza, 1958.

[11] Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino: Einaudi, 1975, p. 37. Cfr. anche Napoleone Colajanni, Settentrionali e meridionali, Milano: M & B Publishing, 2000.

[12] Claudia Petraccone, Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia, Roma-Bari: Laterza, 2000, p. 54.

[13] Doria, L’imprenditoria, cit., p. 77.

[14] Cfr. Paolo Valera, I cannoni di Bava Beccaris, Milano: Giordano, 1966.

[15] Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, Storia contemporanea, Il Novecento, Milano: Paravia Bruno Mondadori Editori, 2002, p. 47.

[16] Cfr. Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna: Il Mulino, 1984.

[17] José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, in Id., Scritti politici, Torino: UTET, 1979, pp. 777-982.

[18] George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna: Il Mulino, 2009, pp. 19-20.

[19] Ernst Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma: Editori Riuniti, 1997, pp. 61-62.

[20] Anne-Marie Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna: Il Mulino, 2001, pp. 7-14.

[21] La denominazione ‘secondo nazionalismo’ distingue questo dal ‘primo nazionalismo’, di epoca risorgimentale.

[22] Enrico Corradini, Il nazionalismo italiano, Milano: Treves, 1914, pp. 34-36.

[23] Citato in Antonio Schiavulli (a cura di), La guerra libica. Il dibattito dei letterati italiani sull’impresa di Libia (1911-1912), Ravenna: Giorgio Pozzi Editore, 2009, pp. 43-54.

[24] Salvatore Lupo, Il fascismo: la politica di un regime totalitario, Roma: Donzelli, 2000, pp. 144-145.

[25] Franz Neumann, Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano: Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, p. 220.

[26] Marco Fossati, Giorgio Luppi, Emilio Zanette, La città dell’uomo. Settecento e Ottocento, Milano: Paravia Bruno Mondadori, 2003, pp. 408-428.

[27] John Stuart Mill, Sulla libertà, a cura di Giovanni Mollica, Milano: Bompiani, 2000, p. 181.

[28] George L. Mosse, Futurismo e cultura politica in Europa: una prospettiva globale, in Renzo De Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica, Torino: Fondazione Giovanni Agnelli, 1988, pp. 13-32, 14.

[29] Giovanni Giolitti, Il movimento operaio nello Stato liberale, in Gastone Manacorda, Il socialismo nella storia d’Italia, Bari: Laterza, 1966, p. 297.

[30] Antonio Cardini, La cultura economica e il socialismo alla produzione del PSI, in Maurizio Degli Innocenti (a cura di), Verso l’Italia dei partiti, Milano: Angeli, 1993, pp. 299-311.

[31] Filippo Turati, La via del riformismo, in Gastone Manacorda, Il socialismo, cit. , p. 302.

[32] Doria, L’imprenditoria, cit., p. 29.

[33] Francesco Piazza, La politica interna di Giolitti e i socialisti, Bologna: Cappelli, 1986, p. 67.

[34] Ivi, p. 66.

[35] Fabrizio Giulietti, Storia degli anarchici italiani in età giolittiana, Milano: Angeli, 2012, p. 67.

[36] Raffaele Romanelli, L’Italia liberale, in Alberto Mario Banti (a cura di), Storia contemporanea, Roma: Donzelli, 1997, pp. 175-197, 193.

[37] L’unghia della tigre, “L’Avvenire Sociale”, 20 marzo 1901. Analogamente si esprime anche Il fallimento della democrazia, “Il Pensiero”, 16 febbraio 1906.

[38] Cfr. Patrizia Audenino e Paola Corti, L’emigrazione italiana, Milano: Fenice, 1994.

[39] Antonio Faeti, Guardare le figure, Torino: Einaudi, 1972, pp. 189-190.

[40] Manrico Gesummaria, Difficili equilibri all’inizio del XX secolo, http://www.unipegaso.it/materiali/Scienze/annoII/StoCont_Gesummaria/ModIII/Lezione_III.pdf (accesso 11 agosto 2012).

[41] Correnti di impronta irrazionalistica possono essere considerate, in ambito filosofico-letterario, ilmisticismo, il vitalismo, l’intuizionismo e il decadentismo, e in campo artistico il simbolismo. Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, Milano: Principato, 1971, pp. 11-60.

[42] Carlo Parmentola, Verismo, in Alberto Basso (a cura di), Dizionario della musica e dei musicisti, Torino: Utet, 1984, vol. 4, pp. 689-691.

[43] Guido Salvetti, La nascita del Novecento, Torino: EDT, 1991, pp. 245-278, 245-247.

[44] Mario Carrozzo e Cristina Cimagalli, Storia della musica occidentale, Roma: Armando, 1998, vol. 3, p. 331.

[45] Ivi, p. 330.

[46] Alberto Asor Rosa, La cultura, in Ruggiero Romano e Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, 6 voll., vol. 4, tomo 2: Dall’Unità a oggi. La cultura, Torino: Einaudi, 1973, pp. 592-593.

[47] Vedi in proposito il par. 1.2.2.

[48] Maurizio Calvesi, Introduzione, in Ester Coen, Futurismo, Firenze: Giunti, 2009, p. 6.

[49] PierLuigi Albini, Manifesti futuristi: scienza, macchine, natura, 2003, http://www.homolaicus.com/arte/futurismo/testi/Manifesti_futuristi_scienza_macchine_natura.pdf (accesso 13 luglio 2012).

[50] Francesco Balilla Pratella, Il manifesto dei musicisti futuristi, 1910; La musica futurista – Manifesto tecnico, 1911; La distruzione della quadratura, 1912;http://posso.dm.unipi.it/users/traverso/futurismo/futurismo.html (accesso 13 luglio 2012).

[51] Luigi Russolo, L’Arte dei rumori – Manifesto futurista, 1913, h ttp://www.eclectic.it/russolo/artofnoises.pdf (accesso 13 luglio 2012).

[52] Gabriele Marino, La rivoluzione musicale futurista, http://www.sentireascoltare.com/articolo/835/luigi-russolo-frammenti-di-un-discorso-rumoroso.html (accesso 13 luglio 2012).

[53] Alberto Asor Rosa, Avanguardia, in Ruggiero Romano (a cura di), Enciclopedia Einaudi, 16 voll., Torino: Einaudi, 1977, vol. 2, pp. 195-231, 199.

[54] Giovanni Papini, La vita non è sacra, in “Lacerba”, 15 ottobre 1913.

[55] Giovanni Papini, La necessità della rivoluzione, in “Lacerba”, 15 aprile 1913.

[56] George L. Mosse, Futurismo e culture politiche in Europa: una prospettiva globale, in Renzo De Felice, Futurismo, cit., pp. 13-32, 17.

[57] Filippo Tommaso Marinetti, Zang Tumb Tuum Adrianopoli ottobre 1912: parole in libertà, Milano: Edizioni futuriste di poesia, 1914. Cfr. Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra: da Marinetti a Malaparte, Bologna: Il Mulino, 1997, pp. 179-183.

[58] Emilio Gentile, Il futurismo, cit., p. 119.

[59] Filippo Tommaso Marinetti, Democrazia futurista Dinamismo politico in Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Milano: Mondadori, 1996, p. 345.

[60] Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Partito futurista italiano, in Roma futurista, I, 1, 20 settembre 1918, p. 2.

[61] Luciano De Maria, Il ruolo di Marinetti nella costruzione del futurismo, in Renzo De Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica,Torino: Fondazione Giovanni Agnelli, 1988, pp. 33-48, 41.

[62] Ugo Rufino, Contesto storico e avanguardie europee: il caso del futurismo italiano, Cuadernos de Filología Italiana, 2009, vol. 16, pp. 201-224, 213.

[63] Manifesto del Futurismo, http://www.irre.toscana.it/futurismo/opere/man1.htm (accesso 12 agosto 2012).

[64] Laura Iotti, Futuristi e anarchici: Dalla fondazione del futurismo all’ingresso italiano nella prima guerra mondiale (1909-1915), Carte Italiane, 2(6), 2010, p. 71.

[65] Mino Somenzi, Fascisti, siate futuristi in arte! La funzione politica dell'arte, Futurismo, n. 3, 15-30 luglio 1932.

[66] Su questa linea si pongono le riflessioni di vari studiosi ed artisti, tra cui Walter Benjamin, Theodor Adorno, Marcel Dufrenne, Erwin Piscator, e Bertolt Brecht. Cfr. Rolf Wiggershaus, The Frankfurt School: Its History, Theories, and Political Significance, Cambridge: Massachusetts Institute of Technology, 1995.

[67] Tra i molti ricercatori che hanno approfondito questa tematica, può essere menzionata Esther Leslie, la quale sostiene che non c’è politica che non sia già arte, come non c’è arte che non sia già politica. Cfr. Esther Leslie, Tesi su arte e politica, Amnesia vivace, 5, gennaio 2003, http://www.amnesiavivace.it/sommario/rivista/brani/pezzo.asp?id=28 (accesso 18 luglio 2012).

Excerpt out of 136 pages

Details

Title
Musica e politica nel primo Novecento: conformismo, iconoclastia, mitopoiesi
Author
Year
2012
Pages
136
Catalog Number
V204686
ISBN (eBook)
9783656320364
ISBN (Book)
9783656320838
File size
857 KB
Language
Italian
Notes
Musica e politica sono espressioni di una determinata società, della quale riflettono i valori: per un verso dunque la società influisce sulla musica e sulla politica, creando le condizioni per il sorgere di determinati movimenti politici e per il successo di specifici stili musicali. Per un altro verso musica e politica influiscono sulla società, orientando le emozioni di individui e gruppi in modo che questi si attivino per indirizzare lo sviluppo della società stessa in una specifica direzione.
Keywords
musica, novecento
Quote paper
M° Rossella Marisi (Author), 2012, Musica e politica nel primo Novecento: conformismo, iconoclastia, mitopoiesi, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/204686

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