Diritto internazionale per filosofi


Wissenschaftliche Studie, 2013

278 Seiten


Leseprobe


Indice del volume

Introduzione
0.1 Premessa
0.2 Taglio di questo studio e piano di lavoro

Capitolo I
1.1 Nozione di diritto
1.2 Diritto come fenomeno tipicamente statale
1.3 Elementi del diritto internazionale. Distinzione rispetto al diritto internazionale privato e al diritto transnazionale
1.4 Luogo comune sul diritto internazionale
1.5 Tesi politica e tesi giuridica sul diritto internazionale
1.6 Nascita storica del diritto internazionale
1.7 Diritto internazionale e contratto sociale

Capitolo II
2.1 “Diritto internazionale” e “ordinamento internazionale”
2.2 Caratteri della società internazionale e posizione reciproca dei soggetti destinatari delle norme del diritto internazionale
2.3 Originarietà dell’ordinamento del soggetto internazionale
2.4 Fondamento fattuale della soggettività
2.5 Sovranità, indipendenza e arbitrio
2.6 Istituti del diritto internazionale e condizione di parità dei soggetti
2.7 Soggettività e personalità
2.8 Nozione di soggettività internazionale
2.9 Principio di effettività e soggettività
2.10 Requisiti della soggettività internazionale
2.11 Il riconoscimento in diritto internazionale
2.12 Nozione di Stato soggetto del diritto internazionale
2.13 Rilevanza del principio di effettività nella determinazione della soggettività
2.14 Soggetti atipici
A) Governi in esilio
B) Insorti
C) Santa Sede
D) Organizzazioni internazionali
2.15 Individui e nazioni/popoli
2.16 Vicissitudini dei soggetti internazionali e rilevanza sul piano della soggettività
A) Incorporazione.
B) Fusione.
C) Secessione.
D) Smembramento.

Capitolo III
3.1 Nozione di fonte del diritto. La legge statale come fonte giuridica per eccellenza
3.2 Confronto fra sistemi di fonti: uso nel diritto interno e consuetudine nel diritto internazionale
3.3 Sistema delle fonti in diritto internazionale
3.4 Elementi della consuetudine
A) Elemento oggettivo.
B) Elemento soggettivo.
3.5 Rilevazione della consuetudine internazionale. Repertori di casi e risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
3.6 Consuetudini particolari. Il persistent objector
3.7 Accordi di codificazione
3.8 L’elenco delle fonti secondo l’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia
3.9 L’analogia in diritto internazionale
3.10 Accordo internazionale
3.11 Modalità di stipulazione degli accordi internazionali
A) Procedura solenne.
B) Accordi in forma semplificata.
3.12 Esempi di materie regolate da accordo. Struttura tipica dell’accordo internazionale
3.13 Cause di invalidità dei trattati internazionali
3.14 Cause di estinzione dei trattati internazionali
3.15 Interpretazione dei trattati
3.16 Rilevanza dello scopo del trattato. Teoria dei poteri impliciti e riserve nei trattati
3.17 Fonti di terzo grado

Capitolo IV
4.1 La norma più importante dell’ordinamento internazionale
4.2 Cenni sull’evoluzione storica del divieto dell’uso della forza armata
4.3 Natura della forza vietata. Forza armata e forza economica
4.4 Le eccezioni al divieto dell’uso della forza armata: il sistema di sicurezza collettiva
4.5 (segue): Le eccezioni al divieto dell’uso della forza armata: le missioni di peace-keeping e il loro fondamento consensuale
4.6 (segue): Le eccezioni al divieto dell’uso della forza armata: la legittima difesa individuale e collettiva
4.7 (segue): Le eccezioni al divieto dell’uso della forza armata: alcune considerazioni sull’intervento umanitario

Capitolo V
5.1 L’adattamento come conseguenza del dualismo fra diritto interno e diritto internazionale
5.2 Necessità di adottare atti di adattamento del diritto interno al diritto internazionale
5.3 Adattamento del diritto italiano al diritto internazionale. L’art. 10 della Costituzione
5.4 Adattamento al diritto dei trattati. Procedimento ordinario e ordine di esecuzione
5.5 Adattamento del diritto interno agli atti vincolanti di un organo internazionale

Capitolo VI
6.1 Diritto internazionale, illecito e autotutela
6.2 Nozione di responsabilità internazionale e codificazione delle norme internazionali consuetudinarie in materia di State responsibility
6.3 Elementi dell’illecito internazionale
6.4 Le cd. cause di giustificazione
6.5 Consenso
6.6 Legittima difesa
6.7 Rappresaglia (contromisura)
6.8 Forza maggiore e caso fortuito
6.9 Estremo pericolo
6.10 Stato di necessità
6.11 Conseguenze sostanziali dell’illecito
6.12 Conseguenze strumentali dell’illecito. La nozione di Stato leso

Capitolo VII
7.1Giudicee arbitro.Naturaarbitraledella giurisdizione internazionale
7.2 Carattere arbitrale della giurisdizione internazionale
7.3 L’accordo e i mezzi di regolamento pacifico delle controversie nel diritto internazionale generale
7.4. Cenni sull’evoluzione storica dell’arbitrato internazionale
7.5 Controversie giuridiche e politiche. Nozione di controversia internazionale
7.6 Effetto obbligatorio della sentenza internazionale e sua eventuale mancata esecuzione

Bibliografia essenziale

Giurisprudenza citata

Appendice

Introduzione

0.1 Premessa

Questo breve testo muove dalla considerazione che il diritto internazionale rappresenta un unicum nel panorama attuale degli ordinamenti giuridici vigenti e ciò a causa dei caratteri peculiari che lo contraddistinguono da qualunque altro sistema di diritto prodotto in maniera autoritativa (per esempio all’interno dello Stato o delle sue partizioni territoriali). Al sentire comune il tratto autoritativo sembra essere infatti quello che meglio sintetizza la specificità del diritto come fenomeno: dal punto di vista dell’esperienza che un qualunque individuo può avere del diritto, cioè del diritto come sistema di regole imposte dallo Stato, il carattere autoritativo del fenomeno giuridico si intreccia indissolubilmente con la disponibilità, all’interno dello Stato, di mezzi giuridici efficaci (sanzioni inflitte dalle autorità statali) per garantire il rispetto delle norme quando se ne verifichi la violazione.

Accostandoci al diritto internazionale dobbiamo invece rilevare una assenza strutturale di tale elemento autoritativo che ci aspetteremmo dal diritto in quanto tale. La conseguenza che solitamente si trae è che la natura non autoritativa del diritto internazionale sia collegata a una corrispondente debolezza dei meccanismi di sanzione in caso di violazione delle norme internazionali. Non sorprende dunque che proprio la mancanza di strumenti autoritativi efficaci quale tratto caratterizzante il diritto internazionale abbia indotto molti studiosi – fra i quali persino alcuni internazionalisti – a negare carattere giuridico a questo sistema di diritto oppure a considerarlo come un ordinamento “primitivo”, “prima o poi” destinato a evolversi assumendo via via i tratti propri degli ordinamenti statali – in breve, a diventare strumento d’azione di una comunità umana universale strutturata giuridicamente sotto l’egida di un’organizzazione sovranazionale come per esempio potrebbe essere – prima o poi – l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

In altri termini, un esame superficiale dell’attuale diritto internazionale porta chi si occupa di tale fenomeno giuridico come di “uno fra gli altri” a considerare quest’ordinamento come il fondamento per svolgere un duplice ordine di osservazioni e previsioni. 1) Una visione per così dire negazionista parte dal dato di fatto che il diritto internazionale non dispone di strumenti sanzionatori efficaci per cui deve concludersi che esso non è un vero diritto ma una sorta di fenomeno strumentale che finisce col coincidere con la politica oppure con l’economia. Questo legame del diritto internazionale con la politica o l’economia quali più vasti ambiti in cui dissolversi balzerebbe agli occhi osservando che in ultima analisi in questo ordinamento giuridico gli obblighi non sono rispettati, ma soltanto imposti dagli Stati più forti agli Stati più deboli. 2) Nella riflessione più ottimista, invece, l’evoluzione storica porterà necessariamente la comunità umana universale a unirsi sotto una superorganizzazione mondiale la quale, grazie a un apparato giuridico raffinatissimo ed efficace, riuscirà a imporre le proprie norme in maniera capillare fin nei confronti degli individui dislocati nelle regioni più sperdute del pianeta. Forse in entrambe le interpretazioni in parola può cogliersi l’auspicio che prima o poi il diritto internazionale venga meno: o – finalmente – per rivelare la realtà bruta, politica, puramente fattuale dei rapporti fra Stati, senza che questi possano più nascondere dietro il nome ipocrita di “diritto internazionale” certe loro malefatte; o perché il diritto internazionale così come lo conosciamo adesso, con i suoi gravi difetti, verrà soppiantato dal diritto sovranazionale della comunità umana universale.

In realtà simili conclusioni cui arrivano molte delle più comuni letture filosofiche della natura del fenomeno del diritto internazionale proprio con questo fenomeno non fanno adeguatamente i conti e finiscono con l’offrirne una interpretazione distorta. Questa distorsione è all’origine della diffidenza con cui gli stessi giuristi internazionalisti guardano alle considerazioni filosofiche liquidandole spesso come non sufficientemente radicate nella realtà del fenomeno di cui esse vorrebbero fornire il senso. Ciò accade perché i giuristi internazionalisti, i quali invece hanno approfondito lo studio di quest’ordinamento così peculiare e in molti casi si sono trovati a doverlo interpretare o comunque applicare a un caso concreto, sono costretti a mettere da parte le considerazioni dei filosofi che ne negano il fondamento autenticamente giuridico: nella loro esperienza applicativa i giuristi internazionalisti possono soltanto cercare di interpretare o applicare il diritto internazionale in quanto giuridicamente fondato, cioè sono costretti a fare i conti con il carattere giuridico delle norme che interpretano o applicano. Nell’attività di interpretazione o di applicazione delle norme internazionali essi non sono guidati da criteri politici – cioè di discrezionalità insindacabile; essi non procedono sulla base di considerazioni di mera opportunità sempre comportanti un rischio, una scommessa su certi effetti che applicare o interpretare una certa norma in un certo modo potrà o meno produrre. Nell’applicazione e nell’interpretazione delle norme internazionali i giuristi internazionalisti in un certo modo sono invece costretti (e ciò non da ultimo per fare onore alla propria professionalità e competenza) a seguire criteri argomentativi misurabili, oggettivi, conoscibili, giudicabili, illuminati passo passo dal nesso che ne stringe insieme la logicità e la compattezza rispetto alla quale la eventuale discrezionalità personale deve necessariamente regredire e farsi da parte a meno di non apparire posizione faziosa ed esporsi in questo modo al biasimo per non aver servito una ragione indisponibile, al di fuori di sé e della possibilità di manipolazione per opera delle parti coinvolte dall’applicazione o interpretazione della norma. L’attività di interpretazione o applicazione del diritto internazionale da parte del giurista deve apparire, in quanto tale, quanto mai disinteressata, oggettiva, cioè rispondente a una logica o a una ragionevolezza che chiunque, sbrogliando la medesima matassa di norme, dovrebbe esser costretto a cogliere. Ciò è particolarmente evidente nel procedere argomentativo che guida la motivazione di una certa soluzione giuridica la quale costringe qualunque giurista a render conto del perché di una certa lettura piuttosto che di un’altra: quindi proprio il contrario della commistione con ragionamenti politici che seguono un percorso insindacabile, mai totalmente limpido perché mai necessariamente esposto per filo e per segno. Non che l’attività del giurista – e specialmente del giurista internazionalista – sia priva di implicazioni politiche nel senso più ampio del termine. Ma il risultato concreto (per esempio interpretare una norma in un modo che finisce per essere vantaggioso per il proprio Stato, ovvero conforme alle proprie convinzioni personali) che il giurista internazionalista vuole perseguire applicando o interpretando una certa norma è tutt’al più un’intenzione sottostante e recondita che lo smuove ad argomentare con maggiore ricchezza e completezza (e quindi forza di convinzione) il principio in cui alla fine sbocca la sua attività ermeneutica, ma che non lo esonera affatto dal dover affinare la propria arringa, a corredarla di esempi di casi simili, di norme vicine e norme lontane per renderla più comprensibile e quindi più convincente. La forza impositiva del suo discorso argomentativo non può svolgersi lungo l’asse politico, perché così facendo non troverebbe il consenso necessario alla norma, alla possibilità della sua vigenza in quanto norma.

I filosofi che si interrogano sul diritto internazionale seguono invece un percorso differente. Nella loro opera di astrazione dai dati della realtà per arrivare a conseguenze che possano avvicinarsi a conclusioni ultime, cioè nel tagliare dalla realtà alcuni elementi e cucirli ad altri per giungere a concludere e quindi a fissare i caratteri di un certo fenomeno, i filosofi che si occupano del diritto internazionale pensano di potersi in qualche modo risparmiare i cavilli, di saltare i dettagli in cui il diritto si manifesta in concreto e di poter focalizzare l’attenzione soltanto su alcuni degli elementi più appariscenti – come per esempio la mancanza, in alcuni casi, di sanzioni efficaci, ovvero la possibilità di utilizzare la forza armata. Da questi elementi essi traggono conclusioni che peraltro travisano gravemente la natura del diritto internazionale e in tal modo si guadagnano la diffidenza se non addirittura la derisione dei giuristi. Questi ultimi, costretti a confrontarsi costantemente coi dettagli e coi cavilli, dovendo sempre compiere l’esercizio di instradare tutto ciò che dicono all’interno di un iter argomentativo assai rigoroso – e ciò perché soltanto dall’interpretazione rigorosa delle norme dipende la scelta riguardo alla loro applicazione – davanti alle considerazioni dei filosofi scuotono il capo come dicendo: “costoro non sanno ciò di cui parlano”.

Questo stato di cose non fa che approfondire la frattura che già separa i filosofi dai giuristi internazionalisti. I primi sono convinti di potersi risparmiare un’indagine approfondita della realtà giuridica internazionalistica contemporanea e quindi girano ancora intorno alle considerazioni di Hobbes, di Bodin, di Hegel, come se la lettura di questi pur grandissimi pensatori fosse sufficiente per imbrigliare la realtà attuale, senza neppur porre il problema di metterne alla prova le tesi proprio al vaglio di questa realtà attuale. I giuristi invece, dovendo confrontarsi con problemi concreti, talora altisonanti e inquietanti, come ricostruire la portata del divieto dell’uso della forza armata, ma talaltra assai più modesti, come stabilire se un certo ambasciatore può evitare di pagare le imposte indirette all’interno dello Stato estero di accreditamento, tendono a liquidare le considerazioni filosofiche sulla metafisica del diritto come in sostanza non decisive per la loro attività di giuristi. In altre parole, i filosofi non riescono a toccare la materia in modo da offrire una lettura del fenomeno che faccia la differenza per i giuristi, e viceversa. C’è da aggiungere ancora che, in questo stato di cose, con l’esercizio all’argomentazione oggettiva i giuristi riescono spesso a rintanarsi dietro alle regole della logica che deve rendere inoppugnabile il loro ragionamento: in tal modo essi finiscono con l’essere sgravati della responsabilità di decidere – in senso “filosofico”, libero, cioè in modo irriducibile a una norma eteronoma già data – se seguire una certa interpretazione o un’altra magari più rispondente a criteri etici o di giustizia e si limitano a propugnare la lettura più accettata, o più vicina alle proprie convinzioni personali o ai propri interessi, e in tal senso non ricevono alcuno stimolo positivo da parte dei filosofi. Questo aspetto di nascondimento di valutazioni personali dietro lo schermo dell’oggettiva e convincente interpretazione applicativa delle norme in un senso o nell’altro si avvicina per alcuni versi alla discrezionalità politica, ma se ne distanzia perché il politico è ciò a cui è affidata la scelta in base a parametri insindacabili, è una scommessa sulla prudenza o la lungimiranza di chi esercita il potere pubblico; mentre il giurista disattenderebbe il proprio compito e azzererebbe il proprio valore qualora dalla sua argomentazione si rivelasse l’intento di allontanare il diritto dalla giustizia e di farne un mero strumento di prepotenza. Il giurista si trova nella contraddizione da un lato di dover allontanare da sé la decisione ultima sulla natura giusta, equa, ragionevole, etica del risultato cui tende la sua argomentazione, e ciò perché si tratta di affari indistricabili, da “filosofi”, e dall’altro lato di dover nondimeno tendere a fornire una soluzione che sia il più possibile giusta, etica, equa, ragionevole.

Il motivo principale di questo volumetto è cercare di istituire un ponticello fra giuristi internazionalisti e filosofi del diritto internazionale nella convinzione che queste due categorie di studiosi non possano che avvantaggiarsi dal contatto reciproco. Non può trattarsi che di un ponte piccolino, cioè di uno scarno strumento che focalizzi alcuni punti nodali del diritto internazionale mostrando, da un lato, come in certi fenomeni giuridici, su cui i giuristi per loro formazione e professione non possono o neppure sanno soffermarsi, alberghino problem profondi, bisognosi di una prospettiva filosofica che costringa i giuristi a interrogarsi sul senso della propria attività ed ad assumersela in carico responsabilmente. E dall’altro lato mostrando ai filosofi come certi elementi del diritto internazionale non costituiscano soltanto il dettaglio contingente e pertanto transeunte di categorie eterne quali il problema delle sanzioni o la fine ultima della società umana universale in senso giuridico, ma invece offrano lo spunto per comprendere in maniera più efficace la realtà attuale dei rapporti fra Stati, in modo da poter davvero illuminare, grazie alla loro riflessione, la direzione che il nostro momento storico potrebbe trovarsi a percorrere.

0.2 Taglio di questo studio e piano di lavoro

Ciò premesso, appare credo evidente come questo testo non possa né disperdersi nei tecnicismi cui sono abituati i giuristi, né – purtroppo – dilungarsi adeguatamente sulle considerazioni sui massimi sistemi pane quotidiano dei filosofi. Piuttosto, l’intento è quello di mostrare alcuni tratti caratteristici dell’ordinamento internazionale che solitamente vengono del tutto trascurati dalla riflessione filosofica e mostrare come la loro conoscenza sia invece decisiva per poter riflettere in modo adeguato e realistico su quest’ordinamento così peculiare e forse anche sui fenomeni giuridici in quanto tali.

A tal fine ritengo opportuno sfrondare per quanto possibile il testo da riferimenti sia a casi concreti, sia a posizioni dottrinali. Questa scelta è motivata dall’esigenza di mantenere una certa agilità del testo che sarebbe compromessa dall’inserimento di un adeguato apparato di note che lo trasformerebbe in un misero doppione di manuali già esistenti e molto più validi per i giuristi, perché più approfonditi, ma troppo ostici per i filosofi che non posseggono la preparazione linguistica necessaria per affrontarne la lettura. La mia scelta è mossa dal desiderio di evitare di dilungarmi sul contenuto delle norme, ciò che presenta livelli diversi di comprensione, discussione e approfondimento per gli stessi giuristi chiamati alla loro applicazione. Lo scopo dell’approccio che vorrei seguire è invece quello di offrire la descrizione di principi cardine di questo ordinamento per mettere in grado i filosofi di condurre la propria riflessione con cognizione di causa e non secondo la modalità irrealistica che è comune rinvenire in tanti testi che meditano il senso del diritto e della politica internazionale.

Il piano di lavoro è articolato nelle seguenti tematiche:

tratti distintivi del diritto internazionale rispetto ai sistemi di diritto interno

soggetti del diritto internazionale

fonti del diritto internazionale: consuetudine e accordo

contenuto di alcune norme internazionali: il divieto dell’uso della forza armata

adattamento del diritto interno al diritto internazionale

responsabilità internazionale: conseguenze dell’illecito

soluzione delle controversie internazionali

Un’ultima considerazione. Ho iniziato a interessarmi di diritto internazionale quando ancora non ci si sarebbe mai immaginati che nel giro di pochi mesi la guerra fredda sarebbe finita e l’assetto politico del mondo sarebbe radicalmente cambiato. I testi dell’epoca erano ancora concentrati su problemi teorici del diritto internazionale mentre nel giro di pochi lustri questa materia si è evoluta, soprattutto grazie allo sviluppo dell’organizzazione internazionale e alle Nazioni Unite. Soprattutto la questione dell’uso della forza armata ha attirato l’attenzione, ma apparentemente piuttosto solo dal lato interno delle competenze delle Nazioni Unite. Attualmente le Nazioni Unite hanno notevolmente intensificato le loro attività, non di rado ponendosi in contrasto sia con la Carta sia con i principi cardine del diritto internazionale. Tuttavia molti giuristi sembrano concentrati su queste iniziative (forse per la novità che rappresentano) e sembrano preferire tagliar corto sulla loro legittimità, cioè sembrano rinunciare a discutere la loro compatibilità con i fondamenti ultimi, con la giustizia, con la lettera degli impegni stipulati. Forse questa è una via “di fatto” per sviluppare l’organizzazione fra gli Stati e la cooperazione internazionale, ma in questo modo è proprio il diritto internazionale con la sua specificità a soffrirne. Una volta che si fosse consolidato il lato organizzativo interno di questi fenomeni di cooperazione – e non è affatto detto che ciò accada, e personalmente mi chiedo se sia questa la direzione che è opportuno prendere – comunque la riflessione sul diritto internazionale si rivelerebbe di nuovo indispensabile, a mio avviso proprio nella prospettiva che qui cerco di aprire. In parte alla luce di queste considerazioni, mentre scrivo mi sembra che queste pagine non possano che mettere a fuoco la forma di un congedo. Ma come osservava qualcuno “i confine dell’anima vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le strade: così profondo è il discorso che essa comporta” (Eraclito, tr. it. 1993, p. 27). Chissà che la strada che ora mi pare debba interrompersi, o sia interrotta, non si riapra in modo inaspettato, mostrando necessaria una rielaborazione più profonda.

Roma, L’Aquila, Padova, Venezia.

Giugno 2013.

Capitolo I

Tratti distintivi del diritto internazionale rispetto ai sistemi di diritto interno

1.1 Nozione di diritto

Innanzitutto occorre intendersi sulla nozione di diritto sottostante questo lavoro. Qualunque nozione di diritto volesse accogliersi, occorre in primo luogo tener conto che essa è storicamente condizionata ed è quindi arduo estrarre una nozione “pura” di diritto ovvero una sua sostanza metafisica valida in ogni tempo e in ogni luogo. Ciò sia perché, come mostra la ricerca antropologica condotta su molte civiltà primitive, il diritto talora è commisto a elementi simbolico-rituali che difficilmente ne consentono la distinzione da fenomeni propriamente religiosi (cfr. per esempio l’istituto antichissimo della manus iniectio come concepito agli albori dello ius civile romano), sia perché il contenuto di norme giuridiche a volte corrisponde, almeno approssimativamente, al contenuto di norme religiose o morali: per esempio la norma che considera giuridicamente illecito l’omicidio, e che quindi lo vieta, corrisponde nel contenuto al divieto di uccidere esseri umani prescritto da norme morali o religiose.

Nell’attuale momento storico, peraltro, grazie soprattutto all’apporto del pensiero positivista del quale sono ancora vivi il retaggio e il metodo, la nozione di diritto ha guadagnato una sua propria autonomia rispetto a quella che circoscrive la specificità di norme morali e religiose. Il riferimento diretto al positivismo quale apporto essenziale per cogliere la specificità del diritto e, implicitamente, alla teoria kelseniana, lasciano intendere subito come nella visione qui accolta il diritto sia inscindibile dal fenomeno della sanzione. Prendendo distanza da teorie filosofiche che del fenomeno giuridico considerano preponderante per esempio l’aspetto di osservanza spontanea delle norme a livello sociale (Santi Romano, e recentemente Grossi, p. 15 ss.), oppure l’intersecarsi alle norme giuridiche di altri fenomeni come per esempio l’attività di gruppi di lobby, le leggi del mercato globalizzato, o ancora la natura performativa dei suoi enunciati prescrittivi ecc., mi infatti sembra opportuno ribadire l’essenzialità e la centralità dell’elemento della sanzione come essenziale per ravvisare il tratto giuridico se non di una singola norma, almeno all’interno di un insieme di norme. Indubbiamente all’interno di un sistema giuridico sono presenti norme prive di sanzione: per esempio le obbligazioni naturali (cfr. l’art. 2034 cod. civ.); oppure le norme programmatiche come lo è all’interno della Costituzione italiana del 1948 la previsione IX delle Disposizioni transitorie e finali la quale dispone entro 3 anni la creazione delle Regioni, istituite in concreto soltanto negli anni settanta). Vi sono poi norme che, pur contenute in strumenti formalmente in vigore, possono considerarsi “in realtà” vigenti soltanto nella misura in cui siano effettivamente osservate e corrispondenti al comune sentire dei consociati che le considera obbligatorie (come per esempio la norma del codice della strada che impone l’uso della cintura di sicurezza la quale non è osservata né fatta osservare in certe aree geografiche del nostro Paese). I pochi esempi offerti mettono senz’altro in campo alcuni aspetti problematici della natura del diritto. Ciononostante, a mio avviso è nel momento della sanzione che il diritto trova la sua essenza più profonda, perché senza la sanzione prevista dal sistema il diritto non sarebbe il fenomeno che è. Fra le norme giuridiche abbiamo norme di varia natura: di principio, imperfette, programmatiche, attuative di altre norme, performative, processuali ecc.; e tuttavia tutte queste norme ruotano attorno alle norme prescrittive la cui violazione è corredata di sanzione come se questo nucleo di norme rappresentasse il fulcro stesso del diritto, ciò attorno a cui tutte le altre si dispongono come un contorno meno essenziale. Ciò accade per due motivi principali. Da un lato, per l’effetto deterrente che l’esistenza della sanzione quale conseguenza della violazione della norma produce sui consociati, tant’è che là dove i meccanismi sanzionatori si indeboliscono, il comando contenuto nella norma perde la sua forza vincolante e il comportamento imposto dalla norma viene percepito piuttosto come facoltativo (vedasi il modo già ricordato in cui in certe città di fatto non si applica l’obbligo dell’uso delle cinture di sicurezza). Dall’altro lato, per un motivo riconnesso alla natura stessa del diritto quale fenomeno strettamente connesso al linguaggio. Nel linguaggio dev’esservi un tratto ricorsivo che rende possibile il fatto di nominare con una stessa parola diversi enti che mediante la parola sono catturati, si staccano dal puro fluire quale modo di darsi del reale: per esempio la parola “libro” può nominare “questo libro” che si trova qui accanto a me sulla scrivania mentre scrivo; oppure il libro che vorrei acquistare oggi nel negozio vicino casa, o ancora ciascuno dei volumi che si trovano all’interno della biblioteca e così via. Vi è un tratto mortifero del linguaggio (Agamben 1982), un suo ricorrere, ripetersi in un nome che è applicato di volta in volta a enti differenti della realtà: il libro di Hans Kelsen sulla mia scrivania; il romanzo Guerra e pace che intendo acquistare in libreria; le opere di Kant che vorrei consultare in biblioteca. Questa ricorsività è alla radice del linguaggio ed è ciò che consente di considerare il linguaggio come una sorta di griglia in cui fissare, ordinare, comunicare, conoscere e al contempo far morire, cioè perdere qualcosa della realtà circostante, traendola fuori dal puro scorrere indifferenziato nel quale la realtà tutta e noi stessi siamo immersi. Parimenti, è grazie alla sanzione che l’enunciato giuridico è strappato dal puro scorrere degli accadimenti che ci circondano. È grazie alla sanzione che il dire del diritto non è mero flatus vocis ma può divenire regolativo del comportamento umano, cioè può aprire a una dimensione del futuro come qualcosa che abbiamo soltanto in quanto esseri umani parlanti. È grazie alla sanzione che il futuro diviene in qualche modo prevedibile, ed è grazie alla sanzione che posso affermare qualcosa come “se commetto una rapina sarò mandato in prigione” e quindi regolare il mio comportamento di conseguenza: per esempio evitando di compiere atti di rapina anche se in certi contesti potrei addirittura trovarli convenienti, opportuni, ecc. Oppure compiendoli ma cercando al contempo, già in via preventiva, con tutti i mezzi di garantirmi l’impunità (usando per esempio il passamontagna per non lasciarmi riconoscere in viso, fuggendo su di un’auto rubata o senza targa ecc.). Senza la sanzione, il divieto di commettere rapine sarebbe spazzato via dagli stessi eventi: sarebbe puro esercizio della fonè o del gráfos, cioè un tracciar segni nell’aria con la voce frangendo il silenzio o tracciar segni su supporti meno volatili (per esempio sulla carta stampata di un codice), ma in tal modo non si coglierebbe la differenza fra il diritto, da un lato, e il vociare degli animali o il loro lasciar segni vani e senza direzioni, cioè privi del rimando ad alcunché e della possibilità di uscire dalla dimensione temporale dell’immediatezza, dall’altro. Per esempio riconosciamo le orme dell’orso o del lupo, ma non riconnettiamo a tali segni in sé stessi alcuna conseguenza regolativa per il comportamento futuro dell’animale che li ha tracciati. In altre parole senza la sanzione il linguaggio del diritto non sarebbe logos, ciò che ci contraddistingue come esseri umani: come nel logos troviamo l’esser legati di tutti gli elementi che costituiscono e identificano una certa lingua – per esempio nelle regole sulla concordanza degli aggettivi e dei sostantivi, nella formazione del singolare e del plurale, sulla disposizione sintattica – parimenti nel diritto troviamo un esser legato che stringe insieme l’obbligo giuridico e la sanzione per il caso della sua violazione. Dal punto di vista qualitativo si tratta dello stesso tipo di legame. Da un lato, nell’esser reciprocamente legate delle regole del linguaggio, si costruisce il senso del dire, ciò che detto altrimenti è la direzione, la concretezza, il da-dove e il verso-dove del dire; dall’altro, nell’esser legate delle norme con le relative sanzioni, si costruisce il senso del diritto. La circostanza che l’applicazione concreta della sanzione sia solamente un momento eventuale (non tanto nel caso di un cattivo funzionamento del sistema sanzionatorio, ma piuttosto nel caso dell’osservanza della norma, ciò che rende il ricorso alla sanzione non necessario o addirittura illecito) non intacca il ruolo centrale della sanzione all’interno di un sistema giuridico. Un ordinamento giuridico come insieme di norme del tutto prive di sanzioni non è un ordinamento giuridico, bensì una pura descrizione dell’accadere di rapporti anonimi. Tale pura descrizione si limita a riprodurre come un sismografo attività che scorrono in modo fra loro indifferenziato, senza riuscire a formulare conseguenze prevedibili. È invece grazie alla sanzione (intesa qui nel senso più ampio possibile di conseguenza che il diritto riconnette a certe attività giuridicamente rilevanti, cioè prese in considerazione dall’ordinamento giuridico) che può orientarsi l’agire. Se agisco in un certo modo, il mio agire potrà avere alcune conseguenze imposte e regolate dal diritto, per cui posso scegliere in quale direzione orientare la mia azione in vista di tali conseguenze. Ciò non significa naturalmente che il diritto sia presente soltanto lì dove è disponibile un sistema di sanzione efficace, effettivamente funzionante. Il fatto che un insieme di norme giuridiche le quali in un certo momento non vengono osservate dai consociati per una serie di circostanze fattuali non implica di per sé che in un futuro anche immediato non possano invece essere imposte grazie a sanzioni che divengono finalmente efficaci. Proprio nel diritto internazionale, per esempio, qualcosa del genere si è verificato quando, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, si è deciso di punire i crimini commessi dal nazismo dando così l’avvio alla nascita del settore di norme che regolano i delicta juris gentium e ciò anche se all’epoca della loro commissione questa figura non poteva dirsi consolidata, o almeno non nei medesimi termini.

Dunque, la nozione di diritto qui accolta è quella di un insieme di norme rivolte a certi soggetti (i destinatari delle norme stesse: per esempio gli esseri umani, le persone giuridiche ecc.) dotate almeno in ultima analisi di meccanismi (sanzioni) che assicurino il rispetto degli obblighi in esse contemplati.

Percomprendereappieno lacoappartenenzafra obbligoe sanzione come ciò che fa del diritto il fenomeno che è, occorre però dire ancora qualcosa della sanzione giuridica: e cioè il fatto che essa è prevista dall’ordinamento stesso. È una parte delle norme che compongono l’ordinamento stesso a contenere le sanzioni perlaviolazionedi (altre)normedelmedesimo ordinamento. Il fatto che la sanzione è immanente, contemplata eapplicata in modocompleto all’interno dello stesso ordinamentogiuridico, consentedidistinguerelanorma giuridica da altre categorie di norme: per esempio le norme religioseo quellemorali. Nelcasodellenorme religiose, la sanzione religiosa vera e propria (non quella prodotta dalla riprovazione socialenéquella che puòanche consisterein conseguenze giuridiche in quanto contemplata anche in norme giuridichedotate di meccanismi sanzionatori) èla sanzione comminatadaldio.Ora,èchiaro cometale sanzionesia circonfusa di un alone di incertezza dovuto all’imperscrutabilità del volere divino. Le sanzioni divine – così come i premi che la religione assicura a chi ne segue i precetti – trovano sicura applicazione se mai in un altro mondo: e non v’è modo di condizionare né di aggirare quest’imperscrutabilità e incertezza che avvolgono la possibilità di una sanzione divina ultraterrena. Anche nel caso della morale, può esservi una coincidenza nel contenuto fra la norma giuridica e la norma morale, ma ciò che differenzia i due ordini di norme è di nuovo la sanzione. Nel caso della morale, l’azione contraria alle leggi morali (o a quelle socialmente accettate) può trovare una sanzione nell’interiorità del singolo preso dal senso di colpa per ciò che ha fatto, ovvero nella riprovazione sociale cui è sottoposta, ma tale sanzione non solo èpuramente eventualee incerta quanto al chipossa infliggerla, ma in generale la sua natura non è prevedibile a priori e non è neppur detto che il singolo, trovando da qualche parte la forza di opporsi al giudizio negativo formatosi intorno a sé, non riscuota col tempo il plauso di altri individui che grazie alla riflessione arrivino a considerare morale la sua azione. Ma a prescindere da molti elementi di indeterminatezza che circondano la sanzione morale, in ogni caso molto il più delle volte neppure vi è coincidenza fra contenuto del precetto morale e contenuto del precetto giuridico. Spesso, nel caso della sanzione giuridica vera e propria, alcune conseguenze negative che l’ordinamento giuridico riconnette alla violazione di certe norme sono soltanto funzionali all’intero sistema e non sono avvertite come il luogo in cui converge una forma di riprovazione sociale o un senso di colpa in senso morale. Se per esempio commetto un errore nella compilazione della dichiarazione dei redditi, un controllo da parte dell’ente competente porta alla comminazione nei miei confronti di una sanzione amministrativa, ma l’errore che ho commesso (magari dovuto alla disattenta trascrizione di una cifra in luogo di un’altra) non produce di per sé una riprovazione sociale. Così il fatto di aver contratto debiti che non sono in grado di assolvere può portare all’applicazione di una sanzione (per esempio l’obbligo di corrispondere gli interessi per il mancato pagamento) quale conseguenza prevista dall’ordinamento giuridico, ma nella nostra cultura e nel momento storico attuale non porta con sé una sensibile condanna sociale – ciò che invece era previsto ancora all’inizio del XX secolo quando l’insolvenza economica induceva il debitore a togliersi la vita come unica misura in grado di sanare l’onta sociale (come mostra il bel racconto di Schnitzler Gioco all’alba).

1.2 Diritto come fenomeno tipicamente statale

Concepito nel senso detto, il diritto sin qui è considerato fenomeno tipicamente statale. Vero è che soprattutto in passato le norme giuridiche si trovavano frammiste a precetti morali e religiosi. Tuttavia è vero anche che nel mondo contemporaneo gli ordinamenti giuridici si connotano per una tale complessità da rendere a mio avviso l’indagine di fenomeni storicamente più lontani da noi come poco efficace se lo scopo di tale indagine vuole essere quello di cogliere il diritto nella sua “essenza”. Ciò che è più antico nel tempo non necessariamente si presenta in forma pura, originaria; la complessità del diritto nel mondo attuale è in qualche modo un carattere più proprio del diritto, uno sbocco inevitabile della sua evoluzione come se, almeno in occidente, il diritto fosse di per sé destinato a pervenire a tale complessità, ad avere implicazioni collegate al problema dell’uso calcolante della ragione, a subire rispetto alla questione morale una scissione che per certi versi riproduce quella fra razionalità e sensibilità che ha origine nella divaricazione fra corpo e spirito con cui abbiamo grande familiarità perché la riconosciamo come “nostra” sin dal pensiero degli antichi greci.

Il fenomeno giuridico tipico con cui possiamo confrontarci attualmente è in primo luogo quello del diritto in quanto prodotto dallo Stato. Così concepito, il diritto come prodotto dello Stato si ricollega immediatamente alla potestà statale e almeno in un certo senso è manifestazione di questa potestà. Il diritto prodotto dallo Stato è innanzitutto quello che si rivolge autoritativamente ai cittadini, ovvero alle persone presenti sul territorio dello Stato. È poi quello che ha un ambito di applicazione che coincide con la sovranità statale, cioè si applica sin dove si espande la sovranità dello Stato, per esempio nel territorio soggetto alla sua giurisdizione. È infine quello che si avvale dei poteri statali, al contempo regolando l’attività di questi ultimi, per assicurarsi l’esecuzione e il rispetto delle norme: per esempio mediante imposizioni di leggi (potere legislativo), mediante l’attività degli organi di polizia (potere esecutivo), e mediante l’azione dei giudici (potere giudiziario). Senza addentrarci nella complessità degli ordinamenti giuridici statali attualmente vigenti, e tenendo a mente la tripartizione classica fra i poteri sovrani, sia pure con la consapevolezza che trattasi di una partizione grossolana, possiamo vedere come il diritto prodotto dallo Stato sia caratterizzato da un tratto intrinseco, ineliminabile dello Stato come lo conosciamo attualmente: vale a dire dalla presenza della potestà statale. La potestà statale determina il tratto autoritativo del rapporto che lega insieme il potere statale esercitato mediante l’organo dello Stato e gli individui, assoggettando questi a quello e utilizzando il diritto (e non la bruta forza, non la cieca tracotanza) quale strumento a tal fine. Gli individui sono assoggettati al potere statale, sono costretti ad adempiere agli obblighi previsti dall’ordinamento anche se non ne condividono i contenuti, anche contrariamente alla loro volontà. Ciò è evidente in tutti e tre gli ambiti dei poteri sovrani. A livello legislativo, perché il Parlamento adotta leggi obbligatorie per i singoli le quali si impongono anche a coloro che non condividono l’orientamento politico della maggioranza. A livello esecutivo, perché i singoli sono sottoposti ai regolamenti e agli atti esecutivi emanati dagli organi incaricati dell’attività di governo (ciò è particolarmente evidente per esempio nel caso delle misure di polizia adottabili nei confronti dell’individuo anche in maniera coattiva). A livello giudiziario, perché i singoli sono sottoposti all’attività svolta dai giudici (per esempio l’accertamento riguardante la violazione delle norme) e possono essere destinatari, contro la propria volontà, di una sanzione: civile, amministrativa o anche una pena vera e propria. Il diritto statale è autoritativo perché è dotato degli strumenti e degli impianti (forze di polizia, esercito, tribunali, istituti di detenzione) per imporre agli individui sottoposti al proprio potere sovrano il rispetto delle proprie norme. In questo senso, da questa prospettiva del diritto interno che considera il singolo come in posizione di subordinazione rispetto agli organi del potere statale, potestà statale e sovranità significano la stessa cosa. Ciò non significa naturalmente che non vi sia una rete di rapporti giuridici nei quali il singolo non possa esercitare attività giuridicamente rilevanti in posizione paritaria con altri soggetti. Il diritto civile degli ordinamenti giuridici più avanzati è il campo privilegiato per l’estrinsecarsi di rapporti giuridici fra soggetti posti in posizione di parità. Per esempio nel caso della compravendita, il rapporto che si instaura fra acquirente e venditore è un rapporto fra pari: prima della stipulazione del contratto l’uno non può costringere l’altro alla prestazione e anche una volta stipulato il contratto, una delle due parti non potrebbe modificarne autoritativamente il contenuto, ciò che invece in linea di massima è possibile di comune accordo con l’altra parte. Anche là dove il diritto tiene conto di posizioni di disparità fra individui privati (prevedendo una speciale tutela per i minori, o per persone affette da deficienze fisiche o psichiche) lo fa senza alterare il principio dell’autonomia privata. Peraltro, nel caso di inottemperanza degli obblighi da parte dei soggetti che gli stanno di fronte in posizione di parità, il singolo non può mettere in atto meccanismi di sanzione né mezzi coercitivi propri, ma per far valere il proprio diritto deve rivolgersi all’organo statale competente. È tale a ordine di fenomeni che si pensa quando si afferma che il diritto statale lascia al singolo una sfera di autonomia privata, all’interno della quale egli può svolgere atti giuridicamente rilevanti ma essenzialmente privi di carattere autoritativo. Con ciò si sottintende l’idea che il diritto è in primis quello prodotto dallo Stato in quanto ciò che raccoglie l’insieme dei poteri sovrani che hanno la forza di costringere il singolo ad adempiere ai propri obblighi giuridici. Rispetto a questo fondamento autoritativo, la sfera di autonomia privata di cui gode il singolo viene avvertita come una specie di ambito derivato, come un settore concesso dalla potestà statale che a partire dal proprio “strapotere” lascia un certo ambito di libertà all’individuo.

Forse è proprio a causa di questo suo tratto autoritativo ricollegato al fenomeno dello Stato nel senso moderno che concepiamo il diritto come un fenomeno “sovrastrutturale”, come un fenomeno essenzialmente eteronomo, impostoci dall’esterno (cioè dal potere statale) e che funge da limite alla nostra libertà. La considerazione che “la mia libertà finisce là dove inizia la libertà altrui” non riesce a eliminare questa sensazione che il diritto sia avvertito come un insieme di regole che non scegliamo liberamente, ma a cui siamo assoggettati, eventualmente contro la nostra volontà. E ciò per certi versi è curioso, se si riflette che invece per quanto riguarda la tradizione giuridica occidentale, la quale risale al mondo romano, cronologicamente lo ius civile è venuto prima dello ius publicum.

1.3 Elementi del diritto internazionale. Distinzione rispetto al diritto internazionale privato e al diritto transnazionale

Se teniamo a mente questi tratti fondamentali del diritto in quanto prodotto dallo Stato, e se consideriamo il diritto prodotto dallo Stato come lo stadio attualmente più avanzato nell’evoluzione dei fenomeni giuridici in generale, spostando ora lo sguardo all’ordinamento giuridico internazionale certamente tale ordinamento ci apparirà in qualche modo come qualcosa di marginale. Innanzitutto perché, in quanto ordinamento che regola i rapporti degli Stati e degli altri soggetti del diritto internazionale, il diritto internazionale è uno solo, mentre invece gli ordinamenti prodotti dagli Stati sono molteplici e quindi per certi versi sembrano offrire, nella loro varietà e complessità, molti più spunti di riflessione. Poi perché i diritti statali attualmente vigenti, in quanto frutto di gestazioni lunghe e tormentate, dispongono di strumenti attuativi incomparabilmente più raffinati ed efficaci rispetto a quelli del diritto internazionale.

Ma che cosa si intende qui per diritto internazionale, propriamente?

Il fenomeno su cui si incentra questo breve studio “per filosofi” va adeguatamente circoscritto per non incorrere in fraintendimenti che per i non esperti di diritto non sono forse di intuitiva comprensione. Il diritto internazionale di cui qui si parla va tenuto distinto in primo luogo dal cd. diritto internazionale privato, cioè quell’insieme di norme comprese all’interno dell’ordinamento statale (e dunque parte del diritto prodotto dallo Stato nel senso che s’è visto) e contenenti nelle fattispecie che contemplano alcuni elementi di estraneità: per esempio il legame coniugale con una persona straniera; la società con sede legale in un altro Stato; l’immobile situato all’estero. In virtù della presenza di questo elemento estraneo, il legislatore statale può ritenere opportuno richiamare eventualmente la legge straniera per regolare quella determinata fattispecie. È quanto per esempio accade nel nostro ordinamento dove si prevede che le questioni relative allo stato e alla capacità del coniuge straniero sono regolate dalla legge dello Stato di cui lo straniero è cittadino. Ma si tratta di una scelta del nostro legislatore che avrebbe potuto anche optare per una soluzione diversa, richiamando le norme contenute in una convenzione internazionale, ovvero non operare alcun richiamo e assoggettare la questione alla normativa italiana considerando irrilevante la nazionalità straniera. Le norme del diritto internazionale privato non si diversificano quindi dalle altre norme prodotte dal legislatore interno, e la determinazione del loro contenuto è questione che soltanto il legislatore interno può porre.

L’altro settore di norme da non confondere col diritto internazionale di cui qui si parla è il cosiddetto diritto transnazionale, vale a dire l’insieme delle norme e delle pratiche commerciali fra imprese aventi sede legale in Stati diversi (lex mercatoria). In questo caso si tratta, invero, di un insieme di norme che si sono formate grazie a prassi ispirate a principi generali in materia contrattuale e arbitrale in vigore in più o meno tutti gli ordinamenti giuridici avanzati. Il fondamento di tale fenomeno va però sempre ricercato nel diritto prodotto dallo Stato. Le imprese possono invocare nei confronti di imprese straniere le norme di questo “diritto mercantile”, non necessariamente coincidente con il diritto privato dello Stato di appartenenza, nella misura in cui tali imprese, in quanto soggetti del diritto privato all’interno del proprio ordinamento giuridico, già godono di una determinata sfera di autonomia privata che consente di stipulare contratti, aderire ad arbitrati ecc. secondo principi generali di libertà – cioè fatto salvo il nucleo delle norme inderogabili all’interno dell’ordinamento statale che può essere imposto loro in base ai criteri che determinano la possibilità per uno Stato di esercitare i propri poteri sovrani nei confronti di tali imprese. Vero è che spesso tali imprese sono dotate di una struttura assai complessa e di un cospicuo potere economico tale da consentire loro di esercitare sugli stessi Stati una notevole influenza al di fuori delle regole giuridiche, a volte anche in maniera ingiusta, e ciò senza che lo Stato, il quale dovrebbe esercitare su di esse un potere sovrano, riesca a imporre loro la propria potestà: si torna in altre parole al problema dell’efficacia della sanzione. Nella maggior parte dei casi le transazioni che avvengono nell’ambito della lex mercatoria si svolgono senza scosse, senza che le parti coinvolte lamentino la violazione di norme inderogabili. Là dove invece prevalgano logiche diverse – per esempio il perseguimento di interessi che finiscono col ledere diritti umani essenziali –, o tali fenomeni sono repressi dallo Stato di appartenenza oppure, se quest’ultimo non è in grado di sanzionarli in maniera efficace, trattasi di fenomeni troppo fluidi, determinati da variabili troppo vicine alla politica, all’economia, tollerati in via di fatto; ma anche per questo motivo può dubitarsi che il diritto mercantile costituisca un ordinamento giuridico a sé stante. In ogni caso, esso non riesce a riassorbire in sé né a render conto adeguatamente del fenomeno del diritto internazionale il quale invece ha caratteri del tutto diversi.

Che cos’è allora propriamente il diritto internazionale di cui qui si tratta?

Il diritto internazionale è l’ordinamento giuridico che regola i rapporti degli Stati e degli altri soggetti internazionali. Proprio per il fatto che all’interno della propria sfera sovrana ogni Stato produce il proprio ordinamento giuridico, il diritto internazionale può dirsi l’ordinamento giuridico che sorge nell’ambito di libertà oltre la potestà statale dei soggetti sovrani la quale non può spingersi oltre i confini della sovranità, per esempio oltre il proprio territorio oppure oltre la sfera di giurisdizione nei confronti dei propri cittadini. È il diritto che sorge per regolare questi spazi liberi dall’autorità statale rispetto ai quali i soggetti sovrani si incontrano necessariamente in posizione di parità. In generale, dunque, il diritto internazionale sorge dall’esigenza di dare regolamentazione giuridica ai rapporti fra gli Stati in quanto soggetti sovrani. Ciò può verificarsi in situazioni molteplici e variegate: per esempio quando sia in questione la titolarità di un certo diritto in occasione della commissione di un illecito; oppure quando è necessario dare veste giuridica alla cooperazione che gli Stati possono avere interesse a mettere in atto fra loro; o ancora quando sia in questione quale soggetto internazionale possa legittimamente esercitare la propria sovranità al di sopra di un certo territorio conteso da un altro soggetto sovrano; oppure per stabilire se e quale tipo di misure uno Stato possa adottare nei confronti dei cittadini di un altro Stato di cui si trovi occasionalmente ad avere la disponibilità. In senso più ampio dunque esso è il diritto che sorge come fenomeno relazionale fra soggetti sovrani per regolare attività di vario tipo.

1.4 Luogo comune sul diritto internazionale

Proprio perché il diritto internazionale sorge dal vuoto lasciato libero dalla sfera del potere potestativo statale, già si coglie intuitivamente come quest’ordinamento giuridico sia strutturalmente diverso dal diritto prodotto dallo Stato. Invero, il diritto internazionale non è diritto prodotto dallo Stato, o almeno non nel senso in cui lo è il diritto statale interno, ciò in cui abbiamo visto manifestarsi in modo tipico un aspetto della sovranità dello Stato. Dato che il diritto statale, nella varietà del configurarsi degli ordinamenti giuridici vigenti, è il fenomeno che prima di ogni altro riconosciamo come giuridico nel senso visto, alcuni studiosi (soprattutto filosofi) che si accostano al diritto internazionale, non ravvisando in esso gli elementi tipici del diritto caratterizzanti gli ordinamenti giuridici statali, finiscono col negarne il carattere giuridico.

Quest’idea finisce col consolidare un luogo comune sul diritto internazionale, idea profondamente radicata nell’uomo della strada, assai dura a morire anche per chi abbia qualche nozione di questa materia. Secondo questo luogo comune il diritto internazionale non sarebbe un vero diritto e ciò per una serie di motivi riconducibili ad alcuni caratteri della società internazionale attuale, caratteri che possono sintetizzarsi nella strutturale mancanza di elementi autoritativi nei rapporti fra gli Stati sovrani. Innanzitutto, il diritto internazionale non sarebbe diritto perché non è prodotto da alcun super-Stato, bensì dagli stessi Stati mediante il loro relazionarsi reciproco. L’ONU non è in grado, come si vedrà, di incarnare le funzioni di tale “superstato” perché non può avvalersi di poteri autoritativi efficaci, né in ambito legislativo, né esecutivo, né giudiziario. Non esiste un parlamento internazionale che emani leggi internazionali che possano imporsi agli Stati. Dato che è lo Stato stesso mediante il proprio agire a produrre la norma, il suo agire in modo contrario al diritto esistente è in grado di per sé di produrre una nuova norma. Ciò induce qualcuno a ritenere che le norme che formano il diritto internazionale coinciderebbero con il mero fatto, con il mero avvicendarsi fattuale consistente nel puro fare degli Stati senza la possibilità di assoggettare tale puro fare a una regolamentazione giuridica vera e propria (cioè controfattuale). La mancanza di meccanismi sanzionatori autoritativi produrrebbe l’effetto per cui è il mero agire – soprattutto l’agire degli Stati materialmente più potenti – a imporsi come contenuto delle norme. Sembrerebbe pertanto sensato affermare che in diritto internazionale la norma giuridica è ricalcata sul puro fatto, cioè sul mero succedersi dei comportamenti statali. Per questa sua modalità costitutiva, indissolubilmente legata alla prassi degli Stati, il diritto internazionale soffre anche di un’eccessiva vaghezza nei contenuti. Le sue fonti primarie non sono infatti norme scritte e, in balia della mancanza di strumenti autoritativi, i contenuti degli obblighi sono esposti all’arbitrio statale quanto alla determinazione della loro portata. La giurisdizione internazionale poi può funzionare soltanto se gli Stati vi abbiano preventivamene acconsentito. In mancanza del previo consenso, invero non vi sono strumenti efficaci per riuscire a costringere uno Stato a sottoporre una controversia a un giudice internazionale. Infine, la realizzazione delle norme internazionali sarebbe affidata più a rapporti di forza che a norme giuridiche. Solo gli Stati potenti sarebbero in grado di esercitare pressioni per ottenere il rispetto delle norme violate nei loro riguardi. Gli Stati più deboli invece non avrebbero mezzi per ottenere il rispetto dei propri diritti e sarebbero sempre costretti a sottostare alle prepotenze dei più forti.

Se fosse questa la prospettiva da accogliere, sarebbe indubbia la somiglianza fra il diritto internazionale e il mitico “stato di natura” (cfr. Hobbes tr. it. 1996, p. 122; Hegel § 333, tr. it.

1996, p. 555) che secondo questa visione si troverebbe all’origine di ogni società nella sua fase primordiale, prima che gli uomini che la compongono decidano di deporre le armi e costituirsi come società civile.

1.5 Tesi politica e tesi giuridica sul diritto internazionale

Anche senza giungere alla visione radicale che recupera l’idea dello stato di natura, anche coloro che conoscono in maniera meno approssimativa questo ordinamento così peculiare finiscono col fronteggiarsi sulla base di due tesi fondamentali i cui punti salienti a volte non sono tenuti presenti con coerenza dai loro stessi sostenitori.

Da un lato abbiamo coloro che finiscono col far riassorbire il diritto internazionale dalla politica. La commistione fra diritto internazionale e politica è evidente, per questi autori, sia per via dell’influenza che il concreto configurarsi dei rapporti politici ha sul diritto internazionale (si pensi per esempio al diverso orientamento fra l’ex presidente americano Bush e l’attuale presidente Obama determinante la questione della legittimità della detenzione dei prigionieri di Guantánamo), sia per il fatto che, come mostra la storia con tante tristi vicende, il contenuto di questo diritto dipende spesso dal capriccio degli Stati più potenti.

Per questa tesi che riassorbe il diritto internazionale nella politica, a causa della mancanza di un centro autoritativo con poteri legiferanti, esecutivi e giurisdizionali efficaci, il diritto internazionale o non è un vero diritto, oppure è un diritto “primitivo”, destinato prima o poi a evolvere in una forma più vicina a quella del “vero diritto”, cioè del diritto prodotto dallo Stato quale manifestazione del suo potere sovrano.

Opposta a questa visione è la tesi che considera il diritto internazionale come un fenomeno pienamente giuridico. Questa tesi ha il pregio di liberarsi dal pregiudizio che il diritto debba essere un fenomeno essenzialmente autoritativo e si accosta al diritto internazionale sulla base del presupposto che il diritto può ravvisarsi ogni volta che il comportamento dei soggetti viene regolato in maniera astratta, cioè a prescindere dai singoli attori concreti che accedono alla relazione giuridica particolare. La concezione del diritto sottesa da una tale visione è che nell’ambito delle relazioni umane il diritto accada là dove può dirsi “ogni volta che X, ne consegue che Y”, a prescindere dalla potenza fattuale dei soggetti concretamente coinvolti nella relazione giuridica. Per esempio ogni volta che uno Stato vìola gli obblighi derivanti da un trattato, è responsabile di un fatto illecito internazionale, da cui scaturiscono determinate conseguenze e ciò tanto nel caso in cui lo Stato autore della violazione sia uno Stato potente, quanto nel caso in cui sia uno Stato debole e poco influente sulla vita politica internazionale. Secondo la visione giuridica, anche le norme internazionali sono caratterizzate dalla generalità e dall’astrattezza che contrassegnano le norme giuridiche in quanto tali e che almeno entro certi limiti possono fungere da garanzia per la loro giusta e corretta applicazione. La visione giuridica trae sostegno dall’osservazione che in effetti gli illeciti internazionali sono fatti quanto mai sporadici se paragonati invece ai casi innumerevoli in cui le norme previste dal diritto internazionale. Ciò è tanto più evidente nell’epoca attuale se si considera anche che, rispetto alla situazione antecedente la seconda guerra mondiale, il numero dei soggetti internazionali si è notevolmente accresciuto grazie all’ingresso nella società internazionale degli Stati sorti dalla decolonizzazione e alla creazione di numerose organizzazioni internazionali. Questi nuovi soggetti così come i soggetti più vecchi, cioè gli Stati europei, intrattengono una fittissima rete di rapporti reciproci, sono parti di molti accordi internazionali che regolano le materie più disparate (il diritto del mare, il riconoscimento delle sentenze straniere, i programmi di cooperazione in materia culturale, il commercio di prodotti artigianali, la difesa collettiva, gli aiuti allo sviluppo ecc.) e nella stragrande maggioranza dei casi questi rapporti si svolgono nel rispetto delle reciproche posizioni giuridiche. Rispetto alla quantità delle norme vigenti i casi della loro violazione sono rari, e quindi grazie alla teoria giuridica si riesce a render conto di questo fenomeno che invece resta del tutto inascoltato da chi considera il diritto internazionale soltanto come un fenomeno privo di specificità, che finisce col confondersi con la politica. Certo, i sostenitori della teoria giuridica non possono misconoscere che in alcuni casi – e si tratta dei casi più preoccupanti per l’opinione pubblica – il diritto internazionale non dispone di meccanismi veramente efficaci per assicurare il rispetto delle proprie norme. In casi di illeciti molto gravi, per esempio nel caso di aggressione armata da parte di uno Stato nei confronti di un altro, la mancanza di meccanismi autoritativi efficaci determina lo sconforto per il fatto che poco si può fare di concreto per indurre lo Stato aggressore a desistere dal suo comportamento illecito. Inoltre, la circostanza che lo Stato aggredito possa rispondere all’illecito mediante la forza armata (tipica ipotesi di legittima difesa), consolida la sensazione che il diritto internazionale si avvalga in ultima analisi di vie di fatto e che quindi non possa considerarsi come un vero diritto. In realtà, i casi di violazione grave delle norme internazionali sono divenuti per fortuna assai rari – benché eclatanti e inquietanti – almeno se paragonati alle occasioni nelle quali invece il diritto internazionale viene osservato e gli Stati costantemente ribadiscono in modo esplicito l’importanza del rispetto delle sue norme fondamentali (fra cui il divieto dell’uso della forza armata).

Affermare la natura giuridica del diritto internazionale ha due importanti conseguenze. Innanzitutto, significa sottolineare come il diritto internazionale, pur con tutte le sue debolezze strutturali, non possa essere ridotto a meri rapporti di forza. Nell’ambito delle relazioni internazionali si manifestano invero e purtroppo alcune dinamiche che possono essere spiegate ricorrendo alla logica della pura forza come contrapposta al diritto, ma tale logica non esaurisce né riesce a riassorbire in sé il fenomeno giuridico internazionale. In secondo luogo, affermare la natura giuridica del diritto internazionale significa trovare proprio nel diritto internazionale la riprova del fatto che il diritto in generale non è un fenomeno “sovrastrutturale”. Il diritto nella sua essenza non è costituito da un insieme di limiti che al singolo sono imposti dall’alto di un potere percepito come prepotente ed estraneo, ma esso sorge per il fatto stesso che due o più soggetti entrano in relazione secondo una modalità diversa sia da quella della forza bruta che da quella affettiva: vale a dire secondo una modalità tipicamente giuridica, cioè fondata sull’anonimità dei soggetti quale conseguenza dell’astrattezza della regola.

Specialmente la relazione fondata sulla forza bruta è caratterizzata dal prevalere di elementi fattuali: per esempio il fatto concreto di essere più forte di un altro e di incutergli timore, ciò che determina nel darsi concreto di un certo rapporto il suo essere configurato secondo una sproporzione strutturale: il più debole in balia del più forte. Per stabilire se un certo rapporto si configuri di fatto secondo questa sproporzione, è indispensabile indagare quel rapporto concreto, la natura dei soggetti coinvolti (per esempio la persona gracile e la persona robusta), l’avvicendarsi di eventi che all’improvviso potrebbero portare a un capovolgimento della situazione (per esempio la malattia invalidante della persona più forte che può avere un effetto “liberante” la persona gracile). La “giustizia” di una relazione del genere è schiacciata dalla sproporzione fattuale fra le persone coinvolte in questo tipo di relazione e non è possibile prevedere alcunché riguardo all’andamento che essa può assumere. Se ne può solo registrare la configurazione fattuale secondo il suo dipanarsi nel tempo. Ma neppure la relazione affettiva si svincola da questa dimensione fattuale. In più, il vincolo affettivo non garantisce il soggetto di fronte alla perdita del proprio bene, per esempio non gli fornisce alcuno strumento per costringere l’altra persona a volergli bene. Per cui la relazione affettiva dura nel reciproco rispetto nella misura in cui permanga l’affetto sul quale si fonda la relazione stessa. Anche qui non possono farsi previsioni quanto alla sua durata o alle modalità concrete del suo atteggiarsi. Può darsi soltanto una descrizione del concatenarsi concreto delle vicende che uniscono due persone. Anche qui, sul solo fondamento dell’affetto, non è garantita alcuna “giustizia”.

Non così la relazione giuridica la quale invece in linea di principio instaura un rapporto intersoggettivo sradicato sia dalla sproporzione fattuale che dalle aspettative affettive del singolo. Un soggetto che si relazioni giuridicamente anzi non ha affatto interesse a questi tratti concreti del rapporto con l’altro. Essi sono soltanto eventuali. Per rendere più comprensibile quanto appena detto posso servirmi di un esempio. Una persona può stringere legami affettivi con altre persone intorno a sé: può voler bene a qualcuno e confidare che l’affetto che prova sia ricambiato, ma non può far nulla per costringere la persona amata a ricambiare l’affetto. Non vi sono mezzi giuridici per costringere l’interiorità della persona. La medesima persona poi può stringere altre relazioni con altre persone però senza desiderare implicazioni affettive. Per esempio può entrare in un negozio e acquistare del pane. La persona che acquista il pane non ha interesse a uno scambio d’affetto con la persona che vende il pane: non vuole saper nulla della sua malvagità o del suo buon carattere, dei suoi dolori passati, delle sue speranze. Vuole soltanto pagare il prezzo giusto per una certa quantità e qualità di pane. E, se uscita dal negozio, la persona scopre di essere stata truffata da chi le ha venduto il pane, sa che è suo diritto ottenere una qualche forma di risarcimento. Questo suo diritto le è garantito dall’ordinamento giuridico mediante una serie di strumenti più o meno efficaci di cui la persona può servirsi (per esempio il reclamo, la denuncia alle autorità sanitarie per il prodotto avariato, alle autorità di polizia per la bilancia truccata e così via).

Il tratto di anonimità della relazione giuridica fa sì che chiunque (cioè a prescindere dalle sue caratteristiche fisiche o psichiche) si trovi nella situazione appena descritta (l’acquisto del pane contro il pagamento di un certo prezzo) possa pretendere un certo comportamento dall’altra persona che accede alla relazione giuridica: tale pretesa è garantita dall’ordinamento, e la norma che la prevede è astratta proprio perché prescinde da alcuni elementi fattuali della relazione. Questi elementi fattuali sono tagliati via – cioè sono considerati non rilevanti – dall’ipotesi astratta formulata nella norma ed è questo tratto di astrattezza e di anonimità a consentire di formulare la previsione per cui “chiunque si trovi in una certa situazione deve tenere un certo comportamento e se viene meno all’obbligo subisce determinate conseguenze”, ciò che costituisce la struttura di base della normagiuridica, senza la quale le altre tipologie di norme giuridiche (per esempio quelle che istituiscono poteri, facoltà, dispongono termini, quelle meramente processuali o programmatiche) perderebbero il loro fondamento ultimo.

Ora, così come accade nel caso dei singoli, i quali possono avere interessi determinati da situazioni di fatto, ma anche possono accedere a relazioni giuridiche sfrondate da questi elementi fattuali, così anche gli Stati in quanto soggetti del diritto internazionale possono essere determinati nei loro comportamenti da considerazioni fondate sull’atteggiarsi concreto delle vicende di politica internazionale. È sulla base di considerazioni del genere che per esempio gli Stati più deboli cercano di non inimicarsi quelli più potenti. Ma al contempo, tutti gli Stati in quanto soggetti, e quindi a prescindere da chi in concreto essi siano, possono accedere e hanno di fatto accesso a relazioni che invece sono caratterizzate dall’anonimità di cui s’è parlato sopra. Tali relazioni sono regolate da norme che presentano la struttura-base del tipo: “chiunque si trovi in una certa situazione deve tenere un certo comportamento e se viene meno all’obbligo subisce determinate conseguenze”. Per esempio tutti gli Stati devono rispettare la sovranità territoriale e l’indipendenza politica degli altri Stati e se contravvengono a quest’obbligo l’ordinamento internazionale prevede una serie di conseguenze. L’esistenza di norme del genere nell’ordinamento internazionale, anonime, astratte, implicanti conseguenze contemplate dall’ordinamento per la loro realizzazione, norme che la stragrande maggioranza delle volte sono rispettate dagli Stati i quali levano vivaci proteste nel caso della loro violazione, mostra la giuridicità del diritto internazionale, l’impossibilità di ridurre tale fenomeno alla politica o ai rapporti di forza. Ciò naturalmente non significa che il diritto internazionale funzioni “sempre”, che non conosca – purtroppo – debolezze intrinseche dovute alla struttura peculiare della società internazionale la quale per sua natura non dispone di meccanismi autoritativi per il rispetto delle proprie norme. Ma anche gli ordinamenti interni possono presentare difetti per certi versi analoghi e nessuno dubita del loro carattere giuridico. Se per esempio, dopo aver osservato come nel nostro Paese, assai spesso purtroppo si assista al fenomeno della scarcerazione preventiva degli imputati per decorrenza dei termini di custodia cautelare e si riscontri quindi una grave inefficienza del sistema giurisdizionale, non per questo si dubiterebbe della natura giuridica del nostro ordinamento.

Il diritto internazionale anzi, in maniera ancor più evidente di quanto non faccia l’ordinamento interno di uno Stato, mostra l’essenzialità del diritto come modalità ontologica della relazione fra due o più soggetti. In un sistema, come quello giuridico internazionale, che non conosce un parlamento mondiale, né un governo mondiale né tantomeno un giudice che sistematicamente si occupi delle controversie internazionali, è ancor più significativo che nondimeno gli Stati intrattengano rapporti pienamente giuridici nel senso detto: quasi sempre gli Stati rispettano le norme internazionali consuetudinarie e gli impegni assunti mediante trattati e sono assai sporadici – ancorché eclatanti – i casi di violazione delle norme internazionali. Certo, i casi di queste violazioni, benché numericamente infinitesimi rispetto a quelli in cui gli Stati adempiono ai propri obblighi, destano talvolta gravi preoccupazioni, perché possono implicare lo scoppio di conflitti che possono degenerare in un’escalation in grado di sfuggire dal controllo degli attori della società internazionale. Ciononostante, anche di fronte a queste ipotesi più problematiche (quali di recente l’irruzione israeliana nella nave recante aiuti umanitari alla striscia di Gaza, ovvero gli incidenti fra le due Coree nel corso del 2010, la dichiarazione di guerra da parte della Corea del Nord all’inizio del 2013), gli Stati evitano di ricorrere a misure come quelle armate che potrebbero produrre rapidamente un aggravarsi della situazione e anzi tentano con ogni mezzo di risolvere le questioni impiegando mezzi pacifici, conformando il proprio comportamento a quanto dispone al riguardo il diritto internazionale generale (cfr. l’art. 2§ 3 della

Carta delle Nazioni Unite).

1.6 Nascita storica del diritto internazionale

Quanto affermato sarà più evidente dopo aver esaminato quella che comunemente è considerata la nascita storica del diritto internazionale. Comunemente si ritiene che il diritto internazionale contemporaneo sorga col Trattato di Westfalia (1648) con cui si chiude la Guerra dei Trent’anni. Questo atto suggella la definitiva disgregazione della respublica delle genti cristiane che aveva costituito la struttura giuridico-politica d’Europa durante il medioevo. Il Trattato di Westfalia non marca un salto brusco rispetto al sistema precedente, ma sigla la fine del processo storico di disgregazione che aveva cominciato a riguardare la struttura giuridico-politica di età medievale già da molti decenni. Nel medioevo, nonostante che la respublica gentium christianorum sia rimasta a lungo fondata sul principio della personalità del diritto (Calasso, p. 110), il sistema del vassallaggio collegato al beneficium (concessione di un appezzamento di terra) istituiva un tessuto normativo continuo fra i titolari di un beneficium, i quali dovevano render conto a un senior (per esempio mediante la cessione di frutti), e direttamente o mediatamente, cioè tramite un’intelaiatura più o meno fitta di funzionari pubblici, al detentore del potere sommo, secondo una struttura piramidale a due vertici, al capo della quale erano posti, per gli affari spirituali il Papa, e per quelli temporali, l’Imperatore. Nel momento in cui questi due poli in cui si concentravano le due tipologie fondamentali di potere, pro aeterna vita e pro termoralium cursu rerum, non sono più in grado di imporre la propria autorità a entità le quali invece rivendicano l’esercizio delle potestà pubbliche in modo esclusivo, si assiste alla disgregazione di quest’ordinamento bipolare caratterizzante la respublica. Per descrivere tale disgregazione può chiamarsi in causa il principio di effettività, in quanto è su di un piano di fatto che la respublica delle genti cristiane non è più in grado di imporre la propria autorità per condizionare il modo d’essere delle comunità umane e territoriali che un tempo le erano sottoordinate. Davanti a sé essa invece trova entità in rapporto alle quali non può essere ricostruito alcun tessuto giuridico continuo. È questo il senso del tratto originario che caratterizza l’ordinamento giuridico dei nascenti Stati moderni. Ogni Stato che ha la forza, la potenza di emanciparsi dai poteri papale e imperiale, si dà da sé un proprio assetto (politico, economico, ma soprattutto, ai nostri fini, giuridico) in modo sovrano e indipendente. Rifiutando ogni ingerenza da parte sia del papa che dell’imperatore, ogni Stato resosi indipendente decide da sé come amministrare la giustizia, i rapporti sociali, l’economia; quali leggi darsi, su quale struttura politica fondarsi ecc. Ai fini del mio discorso, oggetto di questa rivendicazione d’indipendenza rispetto a poteri sovrani eteronomi è in primo luogo l’ordinamento giuridico. Il tratto di indipendenza così inteso in connessione con l’originarietà dell’ordinamento giuridico è ciò che marca in maniera essenziale lo Stato in senso moderno, dalla pace di Westfalia sino ai giorni nostri. Ma il fatto che tale indipendenza e originarietà siano state affermate per via di fatto non significa che la società formata da queste neonate entità indipendenti si caratterizzi per essere una società basata su rapporti di fatto, e ciò neppure al suo primo sorgere. Anzi, proprio l’esistenza stessa – la mera co-esistenza potrebbe dirsi – di una pluralità di centri di potere reciprocamente indipendenti comporta di per sé l’esigenza di regolarne i rapporti reciproci. Il diritto internazionale sorge come ordinamento regolante i rapporti fra soggetti sovrani e indipendenti. Esso non è creato da alcun organo sovraordinato, perché queste entità che sono gli Stati rifiutano qualunque potere al di sopra di sé. Nondimeno, esso si crea per il fatto stesso che gli Stati entrano in relazione: in maniera pacifica, per esempio stipulando accordi, inviando i propri emissari in Stati stranieri, oppure in maniera violenta, per esempio dichiarandosi guerra e conducendo operazioni militari. Ma non è che prima gli Stati sorgono come centri indipendenti, poi iniziano a svolgere certe attività vantaggiose o svantaggiose e poi ancora, in un terzo momento, al fine di far cessare una situazione originariamente conflittuale (l’hobbesiano stato di natura, guerra di tutti contro tutti), decidono di deporre le armi e instaurare rapporti pacifici. Il diritto internazionale non nasce in questo terzo momento. Piuttosto, e ciò è evidente in particolare fra gli Stati di area europea i quali hanno una ricca e lunga tradizione giuridica di diritto interno, nel momento in cui essi stipulano un accordo con altri Stati, gli Stati lo intendono proprio come figura giuridica dalla quale scaturiscono diritti e obblighi, facoltà e possibilità di rivendicazioni e sanzioni in caso di violazione dell’accordo; nel momento in cui subiscono un atto di guerra, immediatamente lo percepiscono come violazione della propria sovranità territoriale. In altri termini, è dalla mera coesistenza di più centri indipendenti che nasce la valutazione giuridica delle attività che essi pongono in essere.

In ciò può cogliersi una profonda analogia rispetto alla modalità in cui la mera coesistenza di più soggetti umani fa sorgere un fenomeno come il diritto. Ma mentre nel caso delle relazioni fra soggetti umani il diritto, benché indispensabile e irrinunciabile (benché di valore ontologico, insomma), sembra occupare uno spazio marginale giacché l’esistenza di ciascuno è catturata più profondamente e intensamente dalla dimensione affettiva, nel caso degli Stati il fatto che essi in quanto entità complesse non si relazionino su di un piano affettivo quanto in primo luogo giuridico, può esser colto in maniera intuitiva, senza bisogno di dimostrazioni per via discorsiva.

In altri termini, se guardiamo al piano delle relazioni fra gli Stati, il fenomeno del diritto come qualcosa di originario, di radicato nel fatto della coesistenza di soggetti complessi in posizione di reciproca parità appare ancor più essenziale che non guardando all’esistenza del singolo essere umano. Tale considerazione porta con sé la conseguenza che il diritto internazionale non è un posterius rispetto a un originario stato di natura, ma è fenomeno ontologico, caratterizzante cioè il modo d’essere, l’atteggiarsi delle relazioni fra più soggetti in posizione di parità. Il fenomeno del diritto internazionale mostra come un mondo finalmente emancipato dalla sovrastruttura di regole giuridiche (percepite come eteronome, anche perché legate in maniera strutturale all’alterità con cui ciascuno entra in relazione) in cui viga una libertà assoluta non può mai essere realizzato. Anche là dove, come nell’ordinamento internazionale, non esistono meccanismi autoritativi efficaci, nondimeno esiste il diritto. Il mito dello stato di natura che la società internazionale incarnerebbe, non è che una favola adeguata a chi non riesce a stare nella contraddizione che, in quanto esseri umani, non v’è un’evoluzione graduale da una totale assenza di diritto che misteriosamente sviluppa verso una condizione in cui vi siano norme giuridiche, giacché la capacità di dare norme (come una sorta di apertura o di disponibilità ad accogliere qualcosa come un insieme di norme giuridiche) c’è sempre stata, e ciò benché la storia attesti che le norme giuridiche si sviluppano ed evolvono, norme che non esistevano ieri sono le leggi di oggi e forse di domani non più. Invece che raffigurarci un primitivo stato di natura, sperimentando il quale, in un momento cronologicamente e storicamente successivo, a conti fatti alcuni soggetti hanno ritenuto più conveniente ed economico evitare i lutti e le perdite e concordare un patto sociale, sempre fragile, precario, occorrerebbe tentare di pensare le persone in quanto già da sempre immerse nel diritto e nel linguaggio di cui il diritto è intessuto. Già da sempre con un senso di giustizia anche quando esse stesse agiscono in maniera ingiusta; accompagnate da un interrogare mai appagato perché rivolto all’abisso senza parole della loro libertà e della loro finitezza.

È sul basso continuo di considerazioni del genere che

evidentemente alcuni studiosi del diritto internazionale (Roberto Ago 2002, fra gli altri) hanno voluto rintracciare prodromi nel diritto internazionale non soltanto in alcuni momenti della storia di poco precedenti la fine della respublica christianorum, ma anche in fasi più remote delle umane vicende quali germi palesi, a uno sguardo retrospettivo, della novità a venire in cui si sarebbe concretizzata la società internazionale in quanto fenomeno moderno. Questi studiosi hanno colto elementi essenziali attestanti l’esistenza di un diritto internazionale in nuce anche in rapporti molto più antichi, come quelli intercorrenti fra le póleis greche, o risalenti ancor prima di queste, fa alcuni popoli del medio oriente antico. Questi rapporti infatti, pur essendo sporadici, affioranti per periodi brevi, regolati da poche norme, presentano dal punto di vista qualitativo l’elemento essenziale affinché si dia qualcosa come la moderna società internazionale: e cioè l’indipendenza dei soggetti, l’originarietà dei loro ordinamenti giuridici, il fatto di non riconoscere alcuna autorità al di sopra di sé, proprio come accade nel caso dei soggetti del diritto internazionale contemporaneo.

Ma il ragionamento vale non soltanto guardando a ritroso nel tempo. Pensando al futuro della società internazionale contemporanea, ai possibili sviluppi dei suoi fenomeni organizzativi (Arangio-Ruiz 1998, rist. 2013), può affermarsi con fondamento che essa manterrà i suoi caratteri così speciali rispetto ai diritti nazionali nella misura in i soggetti che la compongono manterranno la propria indipendenza. Alcuni studiosi, osservando la mancanza a livello internazionale di un sistema centralizzato ed efficace di produzione delle norme, di accertamento del loro contenuto e soprattutto di sanzioni per il caso della loro violazione, mettono l’accento sul fatto che il diritto internazionale sarebbe un ordinamento primitivo. Quest’idea genera l’aspettativa che prima o poi la società internazionale evolverà verso meccanismi accentrati di produzione, accertamento, sanzione, come è già accaduto nel corso della storia di molti ordinamenti giuridici interindividuali. Secondo tali studiosi, specialmente osservando lo sviluppo del diritto romano antico e dei diritti germanici nella loro prima fase storica, si coglierebbe con evidenza l’accentramento progressivo della funzione sanzionatoria, affidata, nella fase primitiva, direttamente al singolo che ha subito l’illecito oppure ai membri della sua famiglia cui spetta di vendicarlo; e poi sottratta ai singoli, tranne che in rarissime eccezioni (stato di necessità, legittima difesa), per essere gestita da un terzo imparziale (giudice o altro organo statale). Secondo questi studiosi, i quali si avvalgono di dati antropologici a dimostrazione del fatto che in pratica gli ordinamenti giuridici evolvono da uno stadio rudimentale a uno più raffinato dal punto di vista delle garanzie a tutela del diritto, un’evoluzione del genere dovrebbe toccare prima o poi anche il diritto internazionale attuale. Ma se il tratto essenziale dell’ordinamento internazionale è la qualità sovrana dei soggetti destinatari delle sue norme, ciò implica che un ordinamento non potrebbe mai avere il tratto caratteristico del diritto internazionale se tale qualità sovrana dei soggetti venisse meno, cioè se gli Stati perdessero in maniera definitiva e radicale il monopolio quanto alla produzione, all’accertamento e alla sanzione delle norme regolanti i loro rapporti. Là dove sembra potersi assistere a fenomeni evolutivi in tal senso, per esempio nel caso dell’Unione europea, in realtà ancora siamo di fronte alla compresenza di più ordinamenti giuridici discontinui (cfr. Arangio-Ruiz 1972, § 84, p. 236 ss.): quello internazionale (regolante per esempio le questioni più rilevanti di politica estera fra gli Stati membri e fa costoro e gli Stati terzi), quello comunitario (regolante i rapporti fra gli Stati membri dell’Unione europea e gli organi comunitari) e quello interno di ciascuno degli Stati membri. Grazie al paziente lavoro di ravvicinamento legislativo per opera degli organi comunitari nonché grazie all’applicazione da parte degli operatori giuridici interni, soltanto gradualmente e molto lentamente questi tre piani giuridici discontinui stanno convergendo in molte materie verso principi e norme comuni. Nella fase attuale può dirsi che fra gli Stati membri dell’Unione europea vige tuttora una struttura simile a quella di una confederazione piuttosto che quella di uno Stato federale vero e proprio. Dalla lentezza con cui procede il lavorio di integrazione fra questi tre ordinamenti giuridici a livello regionale – tant’è che il suo segno più evidente consiste nell’identità di contenuto di certe norme (per esempio quelle in materia di diritti fondamentali della persona umana, contenute sia in norme internazionali che nazionali che comunitarie), piuttosto che nel carattere sistematico degli strumenti per la loro garanzia –, può cogliersi la grande difficoltà ostante la realizzazione di una comunità mondiale unita e giuridicamente integrata. Ciò ancor più evidente nel caso delle Nazioni Unite dove gli Stati mantengono pressoché intatta la propria indipendenza e, salvo rarissime eccezioni, non ammettono intrusioni nella propria sovranità.

Ma se anche l’attuale società internazionale riuscisse a integrarsi in una comunità umana universale unitaria (come aveva auspicato Kelsen, p. 162 ss.), e un diritto “internazionale” divenisse la norma fondamentale dell’umanità, tale diritto sarebbe internazionale solo nel senso eventuale di rivolgersi a nazioni o ceppi razziali e culturali differenti e non nel senso in cui lo intendiamo oggi, cioè come direttamente connesso alla qualità sovrana dei soggetti. Se la comunità umana universale fosse integrata in un unico ordinamento giuridico, gli ordinamenti degli Stati non avrebbero più carattere originario ma si dissolverebbero nella Grundnorm fondamentale della comunità umana. Qualunque fosse il contenuto di questa Grundnorm universale, essa condizionerebbe dal di dentro il modo di essere degli ordinamenti statali: questi assomiglierebbero agli statuti delle nostre attuali regioni o province i quali non possono porsi in contrasto con le norme costituzionali fondamentali a pena di innescare meccanismi che porterebbero a espungere dal sistema le norme non conformi alla Grundnorm universale. In una società siffatta, il diritto internazionale nel senso più proprio dileguerebbe per dar luogo a un ordinamento piuttosto somigliante a un immenso diritto statale mondiale quale tessuto normativo continuo in cui si muovono le persone fisiche e giuridiche dell’umanità intera. Ma se a questo punto, come forse potrebbe accadere, un gruppo riuscisse a distaccarsi dall’umanità intera, affermando la propria indipendenza rispetto a essa; o se ancora, il nostro pianeta entrasse in rapporto con entità aliene che non si lasciano catturare dalle maglie dell’ordinamento giuridico universale degli esseri umani, allora tali rapporti avrebbero la qualità dei rapporti internazionali, in quando rapporti giuridici fra soggetti in posizione di reciproca parità. Emblematica, in tal senso, la situazione rappresentata nella nota serie televisiva Star Trek, prodotta nel periodo della guerra fredda. Da una parte, in un’ottica interna, simile a quella di una pubblica amministrazione, l’organizzazione vigente all’interno dell’astronave Enterprise costituisce un utile modello di descrizione dei rapporti gerarchici fra il capitano Kirk e i suoi collaboratori, nonché della modalità con cui sono realizzati i processi decisionali. Dall’altra parte, nei rapporti esterni con gli alieni, troviamo riprodotti alcuni principi che fanno rassomigliare l’attività dell’Enterprise a quella di certi organi dell’attuale Organizzazione delle Nazioni Unite. Innanzitutto, l’Enterprise conduce la propria attività esplorativa per conto di una Confederazione, cioè di un’organizzazione internazionale i cui vincoli di cooperazione sono informati dal principio intergovernativo, e non organicamente integrato. In secondo luogo, nelle missioni condotte in pianeti sconosciuti, vige per il capitano Kirk e il suo equipaggio l’obbligo di non interferire con il naturale sviluppo verso cui tenderebbe la vita sul pianeta, ciò che riecheggia il principio di non intervento, di non ingerenza negli affari interni nonché il principio di autodeterminazione dei popoli. Infine, con alcuni gruppi di alieni (per esempio i romulani, talora con i vulcaniani), il capitano Kirk mette in atto vere e proprie attività diplomatiche e in qualche caso è indotto a usare la forza armata a fini di legittima difesa, quando per esempio le entità aliene adottano azioni aggressive sferrando il primo attacco in quanto recalcitranti ad accogliere i principi di coesistenza pacifica propugnati dalla Confederazione. Ecco, sulla scorta di questa avvincente serie fantascientifica, è possibile forse cogliere meglio come in una dimensione a più soggetti che non riconoscono autorità al di sopra di sé, si crea comunque un diritto. Che sia quello delle póleis greche, le quali periodicamente si impegnavano a interrompere le ostilità in atto per celebrare i giochi olimpici; che sia quello che regola l’attuale società internazionale; che sia quello del cosmo infinito con le sue forme di vita ancora soltanto immaginate, il diritto che regola i rapporti fra pari, qualunque sia il suo nome, è diritto internazionale. Esso è il diritto che sorge comunque anche quando non vi è un terzo istituzionalizzato a dirimere le controversie. È il diritto che sorge per un senso di giustizia, di legalità altrettanto connaturato nell’essere umano quanto la malvagità e la tracotanza. In altre parole, ogni volta che si instaurano rapporti giuridici fra pari, il diritto corrispondente chiamato a regolarli possiede i caratteri del diritto internazionale.

1.7 Diritto internazionale e contratto sociale

Da quanto s’è detto sin qui, consegne che la figura del contratto sociale (Rousseau) non è modello idoneo a spiegare il momento fondativo di questo diritto così peculiare. L’idea del contratto sociale è che all’origine della coesistenza (per il fatto stesso di tale coesistenza, potrebbe dirsi) di una pluralità di soggetti vi sia uno stato di conflitto aperto (stato di natura), nel quale il più debole è sopraffatto dal più forte, similmente a ciò che accade nel regno animale, contrassegnato dalla mancanza di qualsivoglia regola morale o comportamentale. Secondo questa idea, gli esseri umani coinvolti in questo originario conflitto, che li immerge totalmente nella dimensione naturale al pari degli altri animali, riscontrando che il conflitto produce costi elevati e che a ben vedere da tanti punti di vista è assai più conveniente porvi fine e vivere in maniera per quanto possibile pacifica, avrebbero concordato la fondazione di una società civile fondata su di un accordo sul quale avrebbero acconsentito tutte le parti in conflitto. In tal modo, i partecipanti al conflitto avrebbero preso distanza rispetto allo stato di natura, istituendo qualcosa come il diritto, un meccanismo funzionale a comporre diversi interessi, sebbene in qualche modo sempre fragile, precario, e percepito, in quanto limitazione, come sovrastrutturale rispetto all’originario stato naturale il quale invece sembra sempre lì lì per infrangere i limiti e riportarci alla condizione conflittuale originaria. Oltre che a poggiare sull’idea che il diritto è in senso più proprio limitazione e sovrastruttura, cioè fenomeno derivato rispetto a una condizione bruta avvertita come più originaria e pertanto più autentica, l’idea del contratto sociale implicherebbe che esso sia stipulato soltanto fra i soggetti che vi acconsentono. In altre parole, secondo questo modello potrebbe ipotizzarsi la sussistenza, in via residuale, di un gruppo recalcitrante alla stipulazione del contratto sociale, e per il quale invece continuerebbero a vigere i bruti vincoli della legge di natura. Secondo questo modo di vedere si darebbe dunque da una parte la società internazionale, della quale farebbero parte coloro che hanno stipulato il contratto sociale (che sarebbe pertanto la Grundnorm della società internazionale) e dall’altra parte una dimensione residuale, anomica, più originaria, stadio senza forma della guerra di tutti contro tutti, dove ogni uomo è lupo per l’altro uomo e nella quale ricadrebbero le attività di coloro che rifiutano di accedere alla società internazionale e di rispettarne le norme. In questa dimensione anomica, poi sarebbe giocoforza far rientrare tutti i soggetti che, già partecipanti del contratto sociale istitutivo della società internazionale, volessero per un qualunque motivo recedere da esso.

Ora, esaminando sia la storia del diritto internazionale sia l’attuale assetto di questo ordinamento, una conclusione del genere non è affatto consentita. In particolare riguardo a quest’ultimo punto, può osservarsi infatti come i soggetti della società internazionale non possano recedere da questa società (Treves p. 15 s.). Nel momento in cui essi si affermano come soggetti internazionali (cioè quando acquistano un minimo di organizzazione interna ponendosi al contempo come soggetti sovrani, cioè indipendenti), divengono immediatamente e automaticamente destinatari delle norme internazionali, senza poter neppure – per esempio con una dichiarazione ad hoc – circoscrivere nei propri riguardi in maniera rilevante l’applicazione delle norme internazionali già esistenti. Detto altrimenti, uno Stato di nuova formazione – si pensi agli Stati sorti dalla decolonizzazione; ovvero, più recentemente, al Sud Sudan – non potrebbe accedere alla società internazionale in maniera soltanto parziale, escludendo l’applicazione di alcune norme internazionali (per esempio la norma che vieta l’uso della forza armata) nei propri riguardi. Né in generale potrebbe sottrarsi alla applicazione di norme internazionali vigenti nei propri confronti. Qualora misconoscesse l’esistenza di propri obblighi per esempio violandoli, anche se volesse in tal modo porsi al di fuori dalla comunità giuridica internazionale, vi sarebbe ricacciato dentro anche contro la propria volontà dalla protesta ovvero dalle sanzioni dello Stato o degli Stati di cui avesse violato la posizione giuridica. Se invece volesse ritirarsi dalla società internazionale, estinguendo se stesso come soggetto di tale società (ciò che potrebbe avvenire nel caso in cui un soggetto viene assorbito da un altro soggetto: si pensi al caso della Repubblica democratica tedesca, venuta meno grazie al Trattato sull’Unione del 1990 stipulato con la Repubblica federale tedesca, che ne ha inglobato il territorio e la popolazione), non per questo il soggetto estinto né la sua sostanza materiale (il popolo, il territorio, gli organi di governo) entrerebbe a far parte di una società anomica. Tutt’al contrario, il suo territorio e il suo popolo e i suoi organi, ove rimanessero in funzione, sarebbero oggetto di un potere sovrano diverso. In un’ipotesi del genere essi non sarebbero destinatari di norme giuridiche internazionali, bensì di norme nazionali interne. In altre parole, o un soggetto ha la qualità sovrana, l’indipendenza, e allora è obbligato a rispettare le norme del diritto internazionale, tanto che se non lo fa gli altri soggetti internazionali possono adottare contromisure per indurlo a rispettare i propri obblighi; oppure, se non ha la qualità sovrana, cioè se non è indipendente, è soggetto a un qualche potere statale e quindi è soggetto di diritto interno. Terzium (spazio anomico strutturalmente privo di diritto) non datur. Anche ipotesi limite come il caso dei pirati – di cui si torna a parlare grazie alle razzie perpetrate nei mari a largo dell’Etiopia e del Sudan – rientrano in uno dei due casi e non costituiscono una terza regione anomica. Essi semplicemente violano norme, interne o internazionali, a seconda del grado di potenza che riescano a conservare rispetto gli Stati che ne tentano la cattura (Arangio-Ruiz 1972, p. 168 ss.).

D’altronde, l’essere umano è già da sempre immerso nel diritto e nel linguaggio e quindi lo sforzo necessario per comprendere questa natura radicale del diritto è che, così come noi siamo già da sempre immersi nel linguaggio, benché possiamo apprenderlo, fraintenderlo, perfezionarlo, parimenti siamo già da sempre immersi nel diritto. Soltanto apparentemente diritto e linguaggio sono un posterius. Gli esseri umani sono già da sempre immersi tanto nell’uno come nell’altro ed è soltanto un affascinante mito quello di una primigenia natura selvaggia che ci vedeva immersi in una corporeità completa, senza ragione né parola, né strumenti consapevoli di calcolo né di distruzione.

Capitolo II

Soggetti del diritto internazionale.

Stati, soggetti atipici e con status problematico

2.1 “Diritto internazionale” e “ordinamento internazionale”

Come accennato, il diritto internazionale si distingue da ogni altro ordinamento giuridico per via della mancanza strutturale di meccanismi autoritativi. Non esiste un organo internazionale legislativo investito del potere di produrre le norme; non esiste un governo mondiale e neppure esiste un giudice internazionale le cui sentenze siano di per sé (cioè senza previa accettazione statale) vincolanti per le parti coinvolte in una controversia. È proprio a causa della mancanza di meccanismi autoritativi che il diritto internazionale si contrappone ai diritti nazionali tipici. È per via della mancanza di meccanismi autoritativi, inoltre, che il diritto internazionale non viene “sentito” come un “vero diritto”. L’esperienza che ciascun individuo per lo più fa del diritto in quanto prodotto statale che limita, indirizza e talora coarta certe attività umane, lo abbiamo visto, induce a dubitare che un diritto non autoritativo possa qualificarsi come fenomeno giuridico in senso proprio. Nondimeno, è proprio la mancanza strutturale di tratti autoritativi a fare del diritto internazionale il diritto che esso è, a consentire di ricondurvi fenomeni giuridici che hanno puntellalo tutta la storia umana (trattati di pace, alleanze, pratiche di legazione) anche se per lungo tempo soltanto in maniera sporadica, e a lasciar a pensare al diritto in generale come a un fenomeno ontologico e non soltanto come a un insieme di limiti avvertiti come inessenziali, destinati prima o poi a essere infranti. Il diritto, insomma, sorge non soltanto quando vi sia un sistema efficace organizzato (come all’interno dello Stato), ma anche in una comunità inorganica e “anarchica”, poiché esso sorge per corrispondere alla necessità di regolare la coesistenza di una pluralità di soggetti, quindi anche in mancanza di meccanismi autoritativi. A causa della peculiarità del diritto internazionale rispetto ai diritti statali, qualcuno (Arangio-Ruiz 2008, p. 67) si è chiesto se il diritto che regola la coesistenza fra gli Stati possa opportunamente esser chiamato “ordinamento” internazionale, e ha concluso che forse, riguardo al nostro fenomeno, è meglio limitarsi a parlare di “diritto” internazionale. In effetti, la nozione di “ordinamento” presuppone che vi sia stata una qualche entità che ha ordinato l’ordinamento, vale a dire un soggetto o potere “ordinante”, mentre nel diritto internazionale una tale entità “ordinante” non può rinvenirsi, a meno di non rintracciarla, dispersa e frantumata nei soggetti stessi del diritto internazionale (in primis gli Stati) nella misura in cui il loro comportamento produce le norme internazionali. Il termine “ordinamento” contiene un rinvio all’atto dell’ordinare, e questo può divaricarsi su due significati fondamentali. Innanzitutto “ordinare” può essere inteso come sinonimo di “comandare”, “disporre in modo autoritativo”. In questo senso e a differenza dei diritti statali, il diritto internazionale non è propriamente un ordinamento, giacché esso non promana da alcuna autorità. In un altro e secondo senso tuttavia può essere a mio avviso opportuno mantenere l’uso del termine “ordinamento” quando si tratta di qualificare i caratteri del diritto internazionale. Il concetto di “ordinare” e di “ordinamento” recano infatti con sé anche un riferimento a due tratti del diritto internazionale che è opportuno sottolineare sempre, per evitare di ricadere nel pregiudizio che il diritto internazionale non sia un vero diritto. Il termine “ordinamento” contiene da un lato il riferimento di riconduzione all’ordine come contrapposto al “disordine”. Parlare non solo di “diritto internazionale” ma anche di “ordinamento internazionale” implica mettere in evidenza che le relazioni fra gli Stati sono regolate, cioè non sono “disordinate” nonostante il tratto anarchico che caratterizza i rapporti internazionali. Dall’altro lato, una caratteristica della nozione di ordinamento è la sua compattezza, la sua intima coerenza e unitarietà. Da tali caratteri, strettamente legati a principi basilari dell’ermeneutica giuridica, scaturisce l’esigenza di un approccio sistematico che il diritto internazionale continua a richiedere nonostante la diffidenza che una visione sistematica patisce nel nostro tempo in tanti settori di attività umane. Pertanto, pur tenendo in considerazione le riserve formulate sulla opportunità di impiegare questo termine, per le ragioni indicate ritengo opportuno continuare a parlare di “ordinamento internazionale” come nozione equivalente a “diritto internazionale”.

2.2 Caratteri della società internazionale e posizione reciproca dei soggetti destinatari delle norme del diritto internazionale

Se dunque la mancanza di meccanismi autoritativi nulla toglie al carattere giuridico dell’ordinamento internazionale, va osservato che essa è direttamente legata alla natura sovrana dei soggetti destinatari delle norme internazionali. Il fatto che tali soggetti non ammettano alcuna autorità al di sopra di sé, siano cioè superiorem non recognoscentes, porta con sé che nel loro relazionarsi reciproco essi acconsentano soltanto a rapporti che si svolgono su di un piano paritario. Altrimenti formulato, questo principio è quello della sovrana eguaglianza: i soggetti sovrani si relazionano su di un piano di reciproca eguaglianza, concepita come parità. Sovrana eguaglianza come qualità essenziale dei soggetti del diritto internazionale significa al contempo sia che essi non riconoscono alcuna autorità al di sopra di sé, sia che essi si trovano gli uni rispetto agli altri in posizione di parità. Il concetto della “sovrana eguaglianza” congiunge insieme la qualità sovrana con la parità nelle posizioni giuridiche dei soggetti destinatari delle norme internazionali. Quindi, da un lato, gli Stati non riconoscono alcun potere al di sopra di sé (cioè sono sovrani nel senso che posseggono un ordinamento giuridico originario, scelgono il proprio assetto politico interno, le proprie politiche economiche, sociali, culturali ecc). Dall’altro lato, sono posti su un piano di parità reciproca. Il riferimento all’“eguaglianza” non significa naturalmente che tutti i soggetti del diritto internazionale siano “eguali” come se potessero misconoscersi le differenze di consistenza territoriale e umana, di potenza politica, militare ed economica che connotano gli Stati e gli altri soggetti internazionali gli uni rispetto agli altri. Tali differenze in diritto internazionale sono anzi così macroscopiche, da alimentare la convinzione che certi obblighi, ancorché fondamentali, di fatto poi non sussisterebbero a carico dei soggetti materialmente più forti, ovvero che la condizione di supremazia fattuale di certi soggetti rispetto ad altri determinerebbe l’inefficacia di certi obblighi consolidando così il vantaggio dei soggetti materialmente “più forti”. In realtà, il principio-cardine della sovrana eguaglianza mira a sottolineare proprio il contrario di questa deriva soltanto fattuale delle posizioni giuridiche dei soggetti internazionali. Come ogni ordinamento giuridico, anche il diritto internazionale in quanto diritto fa i conti con le disparità fattuali che caratterizzano i soggetti giuridici còlti in un determinato momento storico come singolarità concrete. Così come negli ordinamenti interni (almeno nei più avanzati) vige il principio dell’eguaglianza di tutti i soggetti di fronte alla legge, sia in senso materiale che sostanziale, così anche in diritto internazionale dalla sovrana eguaglianza scaturisce l’uguaglianza delle posizioni giuridiche dei soggetti internazionali. Ciò significa che se un certo comportamento è in grado di far scaturire conseguenze giuridiche dal punto di vista del diritto internazionale, tali conseguenze scaturiscono qualunque sia il soggetto che mette in atto quel determinato comportamento, che sia cioè uno Stato grande e influente o uno Staterello di scarsa consistenza.

Questo principio è di tale importanza da trovare consacrazione nell’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite, che può considerarsi come l’articolo più importante dell’intera Carta. Al § 1 di quest’art. 2, (dunque in posizione ancor più rilevante dei §§ 3 e 4 del medesimo articolo, in cui sono regolati rispettivamente l’obbligo di regolamento pacifico delle controversie e il divieto dell’uso della forza), si legge infatti: “[l]’Organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri”. Non vale osservare contro questa norma che però, di fatto, al Consiglio per la sicurezza siedono cinque Stati (le cinque superpotenze) con poteri maggiori di tutti gli altri membri (il potere di veto). Da una parte, occorre considerare che il potere di veto non fa che arginare continuamente la possibilità che vengano adottare misure in maniera avventata o in base ad apprezzamenti politici unidirezionali. Ciò si è dimostrato vero particolarmente durante la guerra fredda allorché il veto posto dalle potenze occidentali in determinate situazioni faceva da contraltare al veto posto in altre situazioni dall’Unione Sovietica: benché ciò in molti casi abbia prodotto l’effetto che situazioni anche assai gravi siano state lasciate sostanzialmente prive di reazione concertata, al contempo ha garantito una situazione di equilibrio e di assenza di conflitti cruenti fra i due blocchi.

Che i soggetti del diritto internazionale si trovino su un piano di parità giuridica che va al di là delle diversità fattuali di consistenza materiale è storicamente e costantemente attestato nel dato concreto, facilmente rilevabile osservando la prassi internazionale, che i soggetti internazionali, a prescindere dalla loro rilevanza politica, economica, militare, territoriale ecc., da un lato levano vive proteste nel caso in cui subiscono un comportamento internazionalmente illecito, dall’altro mettono in atto meccanismi (sia diplomatici, che politici che propriamente giuridici) al fine di ottenere il rispetto del proprio diritto violato. Si pensi per esempio alla recente vicenda che ha interessato i due militari della marina italiana ritenuti responsabili, secondo le autorità dell’India, dell’uccisione di due pescatori indiani. Nonostante vi siano evidenti disparità (per esempio sul piano economico, dell’organizzazione sociale e del welfare) fra India e Italia, questi aspetti non influiscono sulla natura paritaria delle relazioni fra i due Stati coinvolti nella vicenda. L’Italia non può costringere d’autorità (per esempio mediante un proprio ordine di scarcerazione) l’India a rilasciare i due militari; se organizzasse un raid per liberare i due militari commetterebbe un grave illecito internazionale. L’India dal canto suo è tenuta a riservare ai due cittadini italiani detenuti un certo trattamento conformemente agli standard minimi previsti dal diritto internazionale dei diritti umani. La questione, ancora in corso di risoluzione nel momento in cui scrivo, non è assorbita sul piano della maggior potenza fattuale di uno dei due Stati coinvolti, ma è oggetto di delicati contatti diplomatici, di trattative che non avrebbero senso se il diritto internazionale effettivamente fosse soltanto uno strumento a vantaggio degli Stati più forti. Ma così come i soggetti internazionali protestano vivacemente se ritengono che i propri diritti vengono violati (il che è evidente nel caso della violazione di accordi e ancor più nel caso della violazione della loro integrità territoriale), parimenti essi non tollerano indebite ingerenze da parte di altri soggetti internazionali neppure qualora tali ingerenze abbiano la natura di misure pacifiche. Per esempio se un soggetto internazionale, così come adotta leggi e regolamenti e dà potere ai propri giudici di applicare il diritto all’interno della propria giurisdizione, adottasse un atto (legislativo o amministrativo o giudiziario) con il proposito di imporlo “d’autorità” a un altro soggetto internazionale, proprio come esso farebbe nei confronti dei propri sudditi, si troverebbe di fronte agli strumenti autoritativi dell’altro Stato che, senza il proprio consenso, non lascerebbero produrre effetti giuridici ad atti adottati e decisi da soggetti e secondo procedure che esso non ammette come “giuridici” all’interno del proprio ordinamento. È questo il senso nella qualità sovrana dei soggetti internazionali che può sintetizzarsi nel loro essere superiorem non recognoscentes: i soggetti internazionali non tollerano l’imposizione di atti autoritativi all’interno della propria sfera di dominio sovrano. Le stesse attività che possono apparire come assistenza disinteressata o attività a fini umanitari, non sono internazionalmente lecite senza il consenso dello Stato. Si pensi per esempio al caso del Giappone che ha impedito ai soccorsi internazionali l’ingresso nel proprio territorio devastato dal terremoto del marzo 2011. Altro è, naturalmente, che un soggetto internazionale s’impegni o comunque acconsenta a considerare certi atti adottati al di fuori del proprio dominio riservato come produttivi di effetti giuridici al proprio interno. Ma il previo consenso prestato a tal fine è condizione indispensabile dell’efficacia extraterritoriale legittima di questi atti e mostra come il carattere di paritarietà connoti le relazioni fra soggetti sovrani. Il tratto di paritarietà è così connaturato alla soggettività internazionale che, come si vedrà, la mancanza di tale paritarietà fra soggetti determina che i loro rapporti giuridici sono regolati non dal diritto internazionale, ma dal diritto statale il quale per antonomasia, nell’attuale momento storico, rappresenta la più compiuta evoluzione dei rapporti giuridici sulla base di un assetto di tipo autoritativo.

Come si coglie dai pochi esempi fatti, la paritarietà assesta le relazioni internazionali su un piano che non si risolve su quello puramente fattuale della predominanza del più “forte”, ma lo eccede e in un certo senso lo trascende. Pur se in modo strettamente intrecciato ad altri fenomeni sociali, in generale sul piano giuridico sono contemplate regole che non funzionano in base a scelte soggettive (mosse da prudenza o avventatezza) o a meccanismi contingenti di tipo politico (sulla base di amicizia o inimicizia) o economico (orientate per esempio dalle fluttuazioni monetarie). Il diritto prescinde da questi fattori – pur condizionanti le attività umane – e richiede un’operazione di astrazione e di collocazione di soggetti e situazioni negli “schemi” costituiti dalle regole giuridiche le quali, per loro natura, se vigenti, debbono applicarsi a tutti i soggetti che si trovino e ogni volta che si trovino in quella situazione prevista dalla regola-schema.

2.3 Originarietà dell’ordinamento del soggetto internazionale

Un altro modo per dire che i soggetti del diritto internazionale sono superiorem non recognoscentes è l’affermazione che i soggetti del diritto internazionale si dànno il proprio ordinamento interno in modo originario. I soggetti del diritto internazionale sono posti su un piano di parità e non ammettono alcuna autorità al di sopra di sé in quanto dispongono il contenuto del proprio ordinamento interno in modo indipendente, senza che esso derivi – cioè sia condizionato giuridicamente, nel suo modo d’essere – dal comando di un’autorità sovraordinata. Qualora invece, pur in presenza di elementi di autonomia, un certo ordinamento giuridico è condizionato giuridicamente dall’alto, cioè esiste un organo sovrastante che impone all’ordinamento giuridico certi contenuti, allora l’ordinamento in questione non può dirsi originario. Un esempio del genere è offerto dalle Regioni italiane. Tutte le nostre Regioni godono di un’autonomia, più spiccata in certi casi (nelle Regioni a statuto speciale), meno in altri (le Regioni a statuto ordinario. Tale autonomia si estrinseca per esempio nel potere di adottare leggi regionali in alcune materie, di possedere organi propri (il Consiglio regionale, il Presidente della Regione e via dicendo) rappresentativi della comunità territoriale che incarnano e il cui orientamento può anche divergere da quello parlamentare nazionale. Nondimeno, nonostante questi elementi di autonomia, le Regioni sono tenute entro i limiti del potere sovrano dello Stato: per esempio esse sono tenute a legiferare entro i limiti loro imposti dalla Costituzione italiana e dei principi fondamentali contenuti nelle leggi dello Stato per quanto riguarda le competenze concorrenti (cfr. l’art. 117 Cost.). Qualora una Regione adottasse una legge oltrepassando questi limiti, la legge regionale potrebbe essere annullata per incompetenza (art. 127 Cost.). Per certi aspetti giuridici, dunque, la Costituzione, pur attribuendo un’ampia sfera di autonomia alle Regioni, permea il modo d’essere delle leggi regionali e in presenza di una difformità rispetto alla Costituzione o ad altre regole interne, si può arrivare, mediante meccanismi giuridici (cioè previsti da norme e messi in atto in applicazione di tali norme) a una totale eliminazione della legge regionale illegittima. Qualora invece uno Stato sovrano ritenesse che la legge di un altro Stato sovrano in qualche modo leda i propri interessi, o sia contraria a certi suoi principi avvertiti come fondamentali – per esempio i diritti fondamentali della persona umana – non potrebbe, d’autorità, mettere in atto meccanismi giuridici del proprio diritto interno per eliminare la legge straniera (potrebbe soltanto ricorrere, se mai, a strumenti e meccanismi sanzionatori del diritto internazionale). Corollario dell’originarietà degli ordinamenti dei soggetti internazionali (in modo tipico, degli Stati indipendenti) è la discontinuità giuridica fra questi ordinamenti. Se dal punto di vista interno di ciascuno Stato indipendente vi è in linea di massima un unico principio che più o meno strettamente tiene insieme tutti gli strumenti giuridici previsti dall’ordinamento e li identifica come costituenti l’ordinamento dello Stato, fra un ordinamento giuridico nazionale e un altro vi è una discontinuità per cui l’uno rispetto all’altro sono elementi fattuali e non elementi giuridici. Una discontinuità analoga traccia una separazione non colmabile fra diritto internazionale da una parte e diritti nazionali dall’altra parte (Arangio-Ruiz 1972, § 83, p. 230).

Il principio per il quale il soggetto internazionale ha un ordinamento giuridico originario significa che il soggetto internazionale si dà l’ordinamento da se stesso. Se l’ordinamento è invece giuridicamente dato (o condizionato o controllato nel suo modo d’essere) da un’autorità sovraordinata, allora tale ordinamento è una propaggine di un ordinamento più ampio che lo ricomprende e ne stabilisce i limiti di legittimità: è il caso che prima si è visto delle Regioni, ma anche dei nostri Comuni, dei Länder tedeschi, degli statuti societari e così via. In tal caso gli ordinamenti giuridici di questi enti sono permeati nel loro modo d’essere da un potere sovrastante (sovrano) che li rende ordinamenti derivati e ne è pertanto esclusa la natura di enti soggetti del diritto internazionale. Invece la presenza di un ordinamento giuridico originario segnala la presenza di un soggetto del diritto internazionale. Dato che l’ordinamento giuridico, dal punto di vista del diritto interno, in ultima analisi finisce per incidere su posizioni giuridiche di esseri umani, che l’ordinamento giuridico sia originario implica in fatto l’esistenza di un gruppo umano che ha la forza materiale di darsi da sé un proprio assetto interno e di escludere l’interferenza autoritaria ad opera di altri soggetti.

2.4 Fondamento fattuale della soggettività

Quest’ultima considerazione consente di condurre il discorso

verso la nozione di “potenza”, come taluno (Arangio-Ruiz 1972, §

24, p. 52) ama chiamare i soggetti del diritto internazionale, sottolineandone così la forza materiale di darsi da sé un ordinamento originario e di escludere di fatto l’intrusione autoritativa da parte di altri soggetti. Detto altrimenti, per poter porsi in posizione di sovrana eguaglianza e agire nell’ambito dei rapporti internazionali fra pari, i soggetti internazionali devono essere potenze, cioè devono “poter” respingere l’interferenza (pacifica o meno che sia) da parte di soggetti che si pongono in posizione di sovraordinazione, cioè devono possedere gli strumenti (politici, militari, economici) per escludere l’imposizione di poteri autoritativi da parte di altri soggetti. Tutti i soggetti internazionali per esser tali, per poter relazionarsi fra pari debbono essere “potenze”. Come già detto riguardo alla parità, ciò naturalmente non significa che tutti gli Stati hanno la medesima quantità di potenza: essi anzi, nella contingenza storica, differiscono gli uni dagli altri proprio per la diversa quantità materiale della potenza nel senso che s’è visto. Fondamentale è però un tratto qualitativo della potenza posseduta, come un suo fattore minimo che consente di acquisire la soggettività internazionale: cioè il mettere in fatto il gruppo sociale in grado di escludere poteri autoritativi sovraordinati.

Se l’esser potenza è una qualità di tutti i soggetti internazionali, la nozione di “superpotenza” invece è un concetto politico e designa la condizione dei cinque Stati membri permanenti al Consiglio per la sicurezza delle Nazioni Unite e dotati del diritto di veto (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia). Il termine “superpotenza” è una nozione politica legata alle contingenze storiche e perduranti per qualche decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Attualmente forse può dubitarsi che la Russia costituisca una “superpotenza” nel medesimo senso in cui lo era lo Stato che storicamente l’ha preceduta, l’Unione Sovietica, la quale, a seguito delle vicende collegate alla caduta del muro di Berlino, ha visto ridurre notevolmente la sua consistenza demografica, la sua influenza militare nonché la sua capacità di determinare la politica mondiale come accadeva durante la guerra fredda. Nondimeno la Russia è attualmente detentrice del potere di veto al Consiglio e quindi ancora le si applica la qualifica di superpotenza nel senso politico visto.

La qualità di potenze e di soggetti superiorem non recognoscentes che consente di identificare i soggetti del diritto internazionale nel senso che s’è visto è detta altrimenti indipendenza. In altre parole, i soggetti del diritto internazionale, in quanto si dànno da sé un proprio ordinamento in modo originario e in quanto sono in grado di escludere dalla propria sfera di dominio qualunque altro potere superiore, sono – come si sottolineava piuttosto in passato – sovrani, e cioè – per usare un termine più moderno– indipendenti. La sovranità, che dal lato interno significa originarietà dell’ordinamento giuridico, dal lato esterno significa indipendenza.

2.5 Sovranità, indipendenza e arbitrio

Come si vede da quanto appena detto, la nozione di sovranità rilevante in diritto internazionale e intimamente collegata alla qualità di soggetto di questo ordinamento giuridico così peculiare non va intesa nel senso in cui il termine sovranità era concepito all’epoca delle monarchie assolute. Durante l’assolutismo il sovrano era concepito come assoluto piuttosto dal punto di vista del diritto interno, giacché nella sua figura si concentravano in modo unitario i sommi poteri dello Stato: il potere legislativo, il comando supremo degli eserciti e il diritto di concessione della grazia, cioè l’ultima parola nell’esercizio della funzione giudiziaria. All’interno del proprio Stato il sovrano assoluto era tendenzialmente sommo arbitro, ma va altresì ricordato che gli stessi teorici dell’assolutezza del potere sovrano cercavano nella legge divina o nel diritto naturale temperamenti a tale arbitrio. Comunque voglia leggersi il fenomeno della sovranità assoluta dal punto di vista del diritto interno, occorre peraltro osservare come dal lato esterno, cioè nelle relazioni con i propri pari, già a quell’epoca il sovrano non era soggetto unico legibus solutus, ma era esposto all’alterità rappresentata dalla presenza di altri soggetti internazionali, non necessariamente sovrani assoluti all’interno del proprio Stato (si pensi per esempio alla monarchia costituzionale inglese), con i quali interagire su un piano di rapporti già regolati e tuttavia paritari, cioè il nascente diritto internazionale, in base al quale erano stipulati accordi, concluse alleanze, contestati atti ritenuti illegittimi, mantenuti contatti diplomatici e via dicendo. La qualità sovrana dei soggetti del diritto internazionale, dal lato esterno, cioè nei reciproci rapporti fra questi soggetti, non è mai stata sovranità “assoluta”, nel senso di legibus absoluta. È stata soltanto la loro potenza, sulla base di una consistenza materiale interna (ricchezza economica, forza degli eserciti, unità della popolazione ecc.), la capacità di porsi in relazione fra pari, di stringere rapporti giuridici e di pretendere il rispetto dei diritti da essi derivanti. Il fraintendimento della natura sovrana come una prerogativa segnata dall’assolutezza, dalla mancanza di limiti, sorge dalla confusione fra sovranità e libertà: la sovranità è la qualità di chi ha la capacità di escludere l’esercizio di un potere sovraordinato, ma ciò non ha nulla a che vedere con eventuali obblighi giuridici contratti mediante accordo o derivanti dal diritto non scritto, che invece sono limitazioni non di sovranità ma di libertà (cfr. assai limpidamente Arangio-Ruiz 1990, passim). Il rispetto degli obblighi internazionali non toglie nulla alla sovranità dei soggetti internazionali. È per questo che in diritto internazionale la qualità sovrana dei soggetti non significa né mancanza di vincoli giuridici né arbitrarietà. Sono gli stessi altri soggetti a ricondurre al rispetto del diritto, mediante i meccanismi propri dell’ordinamento internazionale, eventuali comportamenti illeciti per opera di un soggetto sovrano. In tal senso, come è stato autorevolmente affermato nel 1928 dalla Corte permanente di arbitrato dell’Aja nel caso dell’Isola di Palmas, “la sovranità nelle relazioni fra Stati significa indipendenza” (in UNRIAA, vol. 2, p. 838). Poco tempo dopo, nel parere del 1931 sul caso del Regime doganale fra Germania e Austria deciso dalla Corte permanente di giustizia internazionale, nella sua opinione separata il giudice Anzilotti chiariva che “l’indipendenza non è che la condizione normale degli Stati secondo il diritto internazionale. Essa può essere anche qualificata come sovranità […] se si intende con ciò che lo Stato non ha alcuna altra autorità sopra di Sé, salvo il diritto internazionale” (PCIJ, Series A./B., Fascicule No. 41, p. 57). La sovranità-indipendenza come qualità fondamentale dei soggetti del diritto internazionale non significa dunque che gli Stati possono agire in modo arbitrario e disfarsi degli obblighi internazionali secondo il proprio capriccio. La loro qualità sovrana non significa che essi non siano tenuti a rispettare norme giuridiche, e appunto il diritto internazionale rappresenta l’insieme delle norme che essi, dal lato esterno, nei loro rapporti come altri soggetti sovrani posti su di un piano di parità, hanno l’obbligo di rispettare.

Le due pronunce appena riportate (specialmente la seconda, promanante dalla Corte permanente di giustizia internazionale, vale a dire il giudice internazionale più importante nel periodo fra le due guerre mondiali), ancorché lontane nel tempo, mantengono a tutt’oggi del tutto intatta la loro attualità. Anzi, sono ancor più vere perché contengono principi che sono stati ribaditi in altri casi giurisprudenziali e da opinioni di studiosi. Dato che, rispetto agli anni trenta del novecento (quando ancora esistevano i regimi coloniali), la società internazionale si è allargata a un numero molto più ampio di soggetti, il fatto che tali principi siano stati costantemente ribaditi quali principi cardine dell’ordinamento internazionale comprova l’ampia accettazione di cui essi godono. La società internazionale si configura dunque la società dei soggetti sovrani che tuttavia non sono sovrani assoluti ma tutt’al contrario sono semplicemente indipendenti nel senso che al di sopra di sé non riconoscono altra autorità se non quella del diritto internazionale. Come si vede, pur con tutte le contraddizioni che si rinvengono nei fenomeni sociali, la società internazionale è ben lungi dal configurarsi come lo stato di natura, il mitico luogo originario senza regole da rispettare, regno di pura violenza e sopraffazione di cui aveva parlato per esempio Hobbes.

[...]

Ende der Leseprobe aus 278 Seiten

Details

Titel
Diritto internazionale per filosofi
Autor
Jahr
2013
Seiten
278
Katalognummer
V232471
ISBN (eBook)
9783656486695
ISBN (Buch)
9783656491040
Dateigröße
2503 KB
Sprache
Italienisch
Anmerkungen
Rechtsphilosophie - Völkerrecht September 2014: seconda edizione riveduta e ampliata (zweite überarbeitete und erweiterte Auflage)
Schlagworte
Völkerrecht, Rechtsphilosophie
Arbeit zitieren
Giuliana Scotto (Autor:in), 2013, Diritto internazionale per filosofi, München, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/232471

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