In diesem Essay geht es mir im Besonderen um eine kurze Vorstellung der Biographie des großen Poeten und Schriftstellers Khalil Gibran und dann um die Analyse der Erzählung Wardé al-Hani aus der Sammlung al-arwah al-mutamarrida, in der es um das Schicksal einer zwangsverheirateten Frau geht. Der Poet besucht sie, unterhält sich mit ihr, nachdem er auch ihren ehemaligen reichen Ehemann besucht hatte, und präsentiert sie den Lesern als Opfer der autoritären Tradition der maronitischen Kirche und Kultur, die er der wahren Liebe entgegensetzt. Somit werden Liebe und Pflicht, Wahrheit und Tradition, Gott und Kirche und seelischer und materieller Reichtum in einer zweistimmigen, philosophischen Kritik des Poeten und von Wardé al-Hani an Kirche und Gesellschaft diametral gegenübergestellt.
INDICE DEL SAGGIO
Dedica
Introduzione
Parte prima: biografia e Weltanschauung dell’autore
Parte seconda: analisi interpretativa della prima parte del racconto Ward é al-Hani tratto dalla raccolta al-arwah al-mutamarrida (1908)
Conclusione: rappresentazione cartografica del racconto
Traduzione delle pagine 5-17 del racconto Ward é al-Hani, tratto dalla raccolta al-arwah al-mutamarrida (1908)
Note al testo
Bibliografia
Originale arabo delle pagine tradotte
Dedica
Dedico il presente saggio alla mia famiglia,
ai miei amatissimi bambini, a mio marito Aygun e
a tutti coloro che mi hanno sostenuta nei miei lunghi anni di studi e di ricerca.
Fonte dell ’ immagine riprodotta a pagina 3:
www.123rf.com , numero # 11144296
INTRODUZIONE
In queste pagine ci proponiamo di presentare un grande autore del calibro del libanese Khalil Gibran (1883-1931), collocandolo all’interno del panorama letterario e filosofico del primo Novecento.
Si tratta, in primo luogo, di rappresentare, a grandi linee, la biografia dell’autore e poeta di origine libanese, contestualizzandola nella situazione storica e culturale-religiosa del suo tempo. Ma, quello che maggiormente ci preme rilevare con più attenzione, è l’intreccio fra la vita interiore di Gibran e il riflesso della stessa all’interno di tutte le opere dell’autore, sebbene alcune di esse, come vedremo, rivelino un accento autobiografico più marcato rispetto ad altre.
A nostro avviso, non appare fondamentale trattare della situazione e delle problematiche delle minoranze cristiane in terra islamica, in quanto Gibran si distacca, fin dai primi anni della propria carriera artistica e spirituale, dalla situazione sociale e dal feudalesimo maronita, che non indugia ad attaccare violentemente.
Inoltre, per quanto attiene all’elaborazione della figura di Gesù ad opera di Gibran, essa rimane pur sempre molto personale, e non riflette affatto il rapporto fra i testi sacri islamici e quelli cristiani, non affronta cioè a livello dogmatico - o anche sinottico - questioni esegetiche, ma desidera coglierne lo spirito, interpretandolo con il narcisismo prettamente gibraniano, del quale avremo occasione di trattare.
Si è cercato, in questa sede, di mettere in rilievo il distacco operato, da parte del nostro autore, nei confronti del suo contesto religioso originario della chiesa maronita libanese, della quale suo nonno fu un autorevole rappresentante. L’ambiente religioso e istituzionale in cui vive, viene percepito dal giovane Gibran come oppressivo e ipocrita, e le sue finali contraddizioni di esaltazione mistico-narcisistica del sé, correlate come avremo occasione di rilevare, anche alla sua progressiva ed iterativa negazione dell’assoluta trascendenza divina, affermata dalle religioni monoteistiche, a favore di un panteismo spinoziano, lo avvicinano, dal punto di vista della concezione antropologica, all’umanesimo neoromantico, come quello dello scrittore tedesco suo contemporaneo, Hermann Hesse (1877-1961).
Nella seconda parte di questo saggio, l’obiettivo sarà quello di analizzare in dettaglio il racconto Ward é Al-Hani, incluso nel testo gibraniano del 1908, recante il titolo al-arwah al-mutamarrida, in traduzione italiana “Spiriti Ribelli”, nel quale il nostro autore sviluppa la sua critica nei confronti del matrimonio di convenienza, delle ingiustizie sociali, dell’ipocrisia del matrimonio, contrario al vero amore, ed infine al potere della Chiesa maronita libanese, che si permette di giudicare i veri credenti, bandendoli come miscredenti. Vedremo comunque che la critica dell’autore si rivolge alla Chiesa in generale, indipendentemente dal luogo e dal tempo.
La conclusione filosofica alla quale l’autore perviene, in seno alle sue riflessioni sull’istituzione del matrimonio religioso, è il dualismo intrinseco che oppone le istituzioni sociali, delle quali fa parte anche la religione, ai sentimenti del cuore dei singoli individui.
Abbiamo scelto di analizzare e tradurre parte di questo racconto facente parte della raccolta, con l’intento di voler indagare la convergenza, in Khalil Gibran, tra due tendenze culturali fondamentali: il misticismo e il laicismo veteroilluminista, che denunciano forse, come scrive il critico italiano Roberto Rossi Testa, “la difficoltà dell’autore a ricomporre in sé le culture che aveva incontrato e attraversato” (1).
Presentiamo dunque le pagine scelte in originale arabo, del racconto Ward é Al- Hani, seguite dal nostro tentativo di traduzione in lingua italiana. Alla fine del nostro lavoro abbiamo poi collocato l’apparato di note e la bibliografia, che comprende due parti: la prima riguarda le opere di Gibran da noi utilizzate per la stesura delle presenti pagine, mentre la seconda elenca i testi dei quali ci siamo avvalsi per la contestualizzazione dell’autore e per comprendere le motivazioni e gli sviluppi artistici della sua personalità alquanto complessa dal punto di vista filosofico.
In appendice riproduciamo dunque le pagine del racconto nel testo originale arabo.
PARTE PRIMA BIOGRAFIA E WELTANSCHAUUNG DELL’AUTORE
Gibran Khalil Gibran nasce il 6 dicembre 1883 nel villaggio di Bisharri, nel nord del Libano. Siamo nell’ultimo periodo della decadenza dell’Impero Ottomano, prima del suo definitivo crollo, avvenuto all’indomani della Prima Guerra Mondiale. I motivi di questo declino, che culminò nella disfatta turca del 1918, vengono spiegati dallo storico Sergio Noja (2) come riconducili generalmente ai problemi di carenza di mobilità bellica e alla vastità dei confini dell’impero. Le guerre, infatti, continuavano a consumare progressivamente le risorse finanziarie dell’impero ottomano.
Comunque “la crisi … era anche morale e culturale … il misticismo … si diffuse nel periodo della decadenza tra sempre più larghi strati della popolazione”. (3)
La situazione della classe reggente musulmano-ottomana, era alquanto contraddittoria: infatti “l’allergia teologica e di principio dell’Islam verso l’Occidente cristiano si era unita inizialmente a una coscienza di superiorità ben fondata e giustificata, la quale però sopravvisse immutata anche quando nella realtà quella superiorità non esisteva più”. (4)
Rileviamo comunque il fatto che, allo stesso tempo, “risvegliati da un secolare torpore nei rinnovati contatti con l’Europa, gli arabi iniziarono nel secolo scorso, a riprendere coscienza di se stessi.” (5)
Fu questo il movimento culturale e letterario che definiamo come nahda e all’interno del quale non vorremmo semplicisticamente collocare il nostro poeta mistico.
Nonostante la data del 1920, nella quale Gibran diviene presidente dell’associazione degli scrittori arabi in esilio, Arrabitah, non possiamo da essa dedurre il diritto di considerarlo espressione della nuova coscienza culturale e linguistica araba, in rapporto al dominio coloniale e culturale ad opera dell’Occidente.
Per questo motivo, la critica araba considera talvolta Gibran più un autore anglofono che non arabo-libanese, e questo avviene a prescindere dalla sua scelta linguistica e della sua appartenenza religiosa alla Chiesa maronita del Libano, legata all’antica chiesa di Antiochia.
Il fatto va piuttosto ascritto al suo a-politicismo - a parte i suoi deboli tentativi di denuncia sociale- e alla sua marginalizzazione progressiva, nonché alla sua mancata presa di posizione nei confronti degli eventi coloniali e del nazionalismo e antimperialismo arabo, considerato che anche la Siria e il Libano, oltre all’Egitto, furono i principali centri della rinascita e del desiderio di riaffermazione della propria individualità nazionale e politica, della quale Gibran a nostro avviso non prese parte volutamente.
Così, “nella dissoluzione dell’Impero Ottomano si erano inseriti due fattori inattesi: il sionismo e il nazionalismo” (6), due realtà delle quali uno scrittore spiritualista come Gibran non si occupò mai come vero e proprio engagement. Il suo rapporto con la propria terra natale non ha infatti alcun accento di carattere politico, bensì è una nostalgia mistica di un Oriente idealizzato e percepito come un porto sicuro per l’animo irrequieto del poeta nel mezzo dei cipressi delle montagne libanesi.
Anche sul piano letterario-filosofico, vorremmo mettere in rilievo come Gibran non prenda parte alla rinascita della lingua araba e del suo patrimonio poetico ed espressivo, in contraddizione al dato di fatto che la lingua del Corano fosse profondamente sentita da parte dei Cristiani delle terre musulmane. Comunque, Gibran rappresenta un’eccezione al culto della lingua araba da parte della nahda siro- libanese.
Infatti, come precisa lo storico italiano Noja (7), “gli arabi cristiani di Siria - laddove con Siria si intende anche il Libano - proprio perché amavano l’arabo come lingua, a prescindere da ogni legame con il Corano e la religione, erano gli unici rappresentanti di tutto ciò che era rimasto vivo nella gloriosa tradizione dell’arabismo preislamico, non legato alla religione musulmana.”
È palese che questa nostra tesi non sottenda il fatto che Gibran abbia compiuto una scelta ideologico-linguistica, optando per la lingua inglese, ma che ciò sia correlato piuttosto al fatto che egli si fosse trasferito a Boston, insieme alla famiglia, in giovane età e di conseguenza conosceva anche molto bene l’inglese, sapendosi esprimere perfettamente in questa seconda madrelingua.
Non possiamo comunque sposare la tesi dello storico Noja, quando afferma che l’ é lite intellettuale siro-libanese con Nu’aima e Gibran avrebbe fondato “una nuova cultura”. (8)
Senza voler negare l’originalità di Gibran, essa comunque non va esaltata come espressione di una nuova cultura araba o libanese, in quanto le influenze culturali e spirituali sul nostro poeta sono tra le più disparate, spaziando dall’induismo all’estremismo sciita ismailita e al cristianesimo mistico ed esoterico, e dal panteismo precristiano al neoromanticismo tedesco e alla gnosi e al manicheismo dei primi secoli del cristianesimo. Riteniamo comunque che queste influenze siano in parte inconsce e non ricercate volutamente dal poeta.
Conveniamo piuttosto con la studiosa italiana della letteratura araba Camera D’Afflitto (9), che considera la letteratura di Michael Nu’aima e di Khalil Gibran come una letteratura di emigrazione. Infatti, l’evento storico dell’emigrazione sirolibanese negli Stati Uniti, nei primi decenni del Novecento, fu comunque una caratteristica saliente della generazione del nostro poeta, all’interno della quale si colloca, senza dubbio, anche lo stesso Gibran, nonostante le sue interpretazioni metaforiche dell’esodo e del ritorno, che ritroveremo soprattutto nelle sue argomentazioni del suo capolavoro intitolato The Prophet.
Di conseguenza, “per gli arabi, il fenomeno dell’emigrazione rappresentò comunque un’ulteriore finestra aperta sulla civiltà occidentale e sulle nuove idee che l’Occidente sprigionava” (10), in quanto, come sempre nella storia, gli arabi assimilavano le culture straniere con una magnifica apertura culturale, come si era vista ad esempio in epoca abbaside.
Vediamo, dunque, come l’emigrazione metta in luce due processi convergenti, anche se di natura antitetica: da un lato, rileviamo il distacco dalla terra natale e, dall’altro, l’apertura ad una nuova cultura che, su Gibran, agisce fortemente sul piano spirituale ed artistico, anche perché, in qualità di cristiano d’Oriente, il nostro autore non concepisce l’iconoclastia islamica, cosa, questa, che gli rese possibile la sua carriera artistica, culminata nel suo apprendistato pittorico a Parigi. L’anima artistica di Gibran, crediamo sia fortemente aperta e influenzata dalla pittura occidentale, in primo luogo da quella rinascimentale. Basti pensare all’ammirazione espressa dal nostro poeta nei confronti delle opere del grande artista italiano Andrea Mantegna (1431-1506).
Gibran visse a cavallo tra due paesi e due culture, pur restando sempre all’interno del quadro di un gusto letterario improntato al romanticismo, o meglio al suo risveglio con il neoromanticismo, fondamentalmente segnato a nostro avviso dall’esperienza tedesca, più che da quella francese.
Questo fatto ci induce a sottolineare la sua affinità spirituale con l’autore tedesco Hermann Hesse (1877-1961) (11), visto che anche quest’ultimo rappresentò, all’interno del panorama letterario del suo popolo, una posizione esoterico-mistica con forti tendenze in senso sincretista e di impronta orientale, percepibili in numerosi suoi romanzi.
Dagli Stati Uniti a Parigi: Gibran rimane sempre un ricercatore narcisistico ed egotico della propria immagine ideale e ciò accentua gli aspetti di oscurità e mistero dei quali ama circondarsi non solo come scrittore e poeta-filosofo, ma anche da artista.
Un aspetto fondamentale, costante nel personaggio Gibran, è la dottrina sincretista “dove suggestioni dell’Islam mistico si incrociano con la lettura dei grandi romantici inglesi, soprattutto con quella di William Blake”, per citare le parole del critico Marco Bandino. (12)
Indagando però a un livello non più estetico, bensì filosofico-epistemologico, individuiamo come il personaggio Al-Mustafa nel The Prophet di Gibran non sia altro che il doppio dello Zarathustra del grande filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900), il filosofo dell’eterno ritorno e della volontà di potenza. (13)
Basti confrontare gli esordi dei due testi, entrambi contenenti, in senso molto diverso, il riferimento alla patria, all’esodo, al cuore e agli astri come simbologia che indica l’intero universo della natura.
“ Al-Mustafa, the chosen and the beloved, who was a dawn unto his own day, had waited twelve years in the city of Orphelese for his ship that was to return and bear him back to the isle of his birth.
And in the twelfth year, on the seventh day of Ielool, the month of reaping, he climbed the hill without the city walls and looked seaward; and he beheld his ship coming with the mist.
Then the gates of his heart were flung open, and his joy flew far the sea. And he closed his eyes and prayed in the silences of his soul ” (14).
Vediamo ora il rapporto inverso con le tematiche nietzscheane annunciate all’esordio di Also sprach Zarathustra:
“Als Zarathustra dreißig Jahre alt war, verließer seine Heimat und den See seiner Heimat und ging in das Gebirge. Hier genoss er seines Geistes und seiner Einsamkeit und wurde dessen zehn Jahre nicht müde. Endlich aber verwandelte sich sein Herz -und eines Morgens stand er mit der Morgenröte auf, trat vor die Sonne hin und sprach zu ihr also: „ Du großes Gestirn! Was wäre dein Glück, wenn du nicht die hättest, welchen du leuchtest!
Zehn Jahre kamst du hier herauf zu meiner Höhe: du würdest deines Lichtes und dieses Weges satte geworden sein, ohne mich, mein Adler und meine Schlange. “ (15)
In Khalil Gibran i due luoghi (quello di partenza e quello di destinazione) sono disposti in senso orizzontale e contrapposti l’uno all’altro e rappresentano, secondo la nostra interpretazione, due differenti livelli linguistici e culturali più prettamente filosofici.
Come scrive Joseph Sheban, esperto di Khalil Gibran negli Stati Uniti:
“Gibran schreibt zweisprachig: Arabisch für die arabische Welt und Englisch für den Westen. Es handelt sich um zwei Ebenen und eine doppelte Umwelt.“ (16)
Si è creata, a questo punto, nell’animo del nostro autore, una certa schizofrenia tra l’infanzia, della quale ha nostalgia - come dimostra la citazione da Jesus, the Son of Man, (17), in cui il poeta esalta con lacrime il suo anelare verso la sua patria originaria - e il suo presente americano.
Questa dicotomia, in Friedrich Nietzsche è invece verticale, dualistica e sfocia poi nella morte di Dio, che significa la morte del dualismo stesso e che fa sconfinare il filosofo dell’eterno ritorno nella pazzia torinese, nel momento in cui cerca di concepire l’annullamento stesso di ogni pensiero dualistico; cosa che riteniamo insopportabile per l’animo umano. A questo punto non pervenne mai il nostro Khalil Gibran, che rimane poeta e mistico, proprio perché non arriva a distruggere le coppie di contrari che governano l’intero universo e persino Dio.
“Nietzsche si decide per la fusione delle due volontà. Esige, in uno, la suprema antropomorfizzazione dell’ente e l’estrema naturalizzazione dell’uomo” (18) - e in questo consiste il suo destino interiore.
Khalil Gibran, al contrario, si colloca in un ordine epistemologico inferiore a quello del grande filosofo tedesco, che sfocia in un panteismo di ordine comunque narcisistico, in quanto rimane imprigionato in se stesso e nella sua visione del mondo che tanto assimila, pur mai uscendo da se stessa. Questo aspetto della sua personalità, a nostro avviso, si accentua ulteriormente negli anni trascorsi negli Stati Uniti, in cui la circolarità orizzontale nella quale rimane rinchiuso il suo animo, si rileva al massimo livello come pura ontologia narcisistica, la quale diviene anche fondamento dell’epistemologia del nostro autore.
A questo proposito, Sheban scrive (19):
“Die jungen Bäume aus den Bergen des Libanon, verpflanzt in alle Winde der Welt, kehren wieder nach Hause zurück und bringen Früchte mit. “
The Prophet può essere considerato un testo ancora poco emancipato dal punto di vista filosofico, in quanto incarna ancora la massima socratica dell’autoconoscenza, iscritta anche nel tempio di Apollo a Delfi, mai portata ad una concezione di alterità tra il Me e la Divinità. Ma forse Gibran non perseguiva neppure lo scopo di scrivere un’opera filosofica compatta, rimanendo volutamente allo stadio di un percorso di ricerca autobiografica.
Gibran, in verità, non giunge mai a concepire un Dio-alterità, e rimane di conseguenza un poeta antropocentrico, pur spogliando l’essenza umana di tutti i suoi aspetti più materiali e accentuando gli aspetti spirituali dell’essere umano nella sua complessità. In ciò egli si rivela del tutto platonico, concependo il corpo come prigione dell’anima.
Poi, però, in The Garden of the Prophet, il nostro autore sfocia in un panteismo di matrice narcisistica, che non solo identifica Dio con il cosmo, ma l’Io-Dio con l’universo intero, come si evince dalla seguente citazione, che forse va letta come plurale maiestatis:
“We are God, in leaf, in flore, and oftentimes in fruit.” (20)
Nuovamente desidereremmo sottolineare come Khalil Gibran non sia affatto un cristiano-maronita, come sostengono alcuni, e neppure un pensatore orientato all’Islam mistico, come affermano altri. Crediamo che egli non appartenga affatto alle religioni ortodosse del monoteismo del vicino Oriente, ma tenda invece fortemente verso un panteismo antico e primordiale che da tutto prende, ma con nulla si identifica.
Egli, di fatto, rinnega il dogmatismo storico delle religioni monoteiste e non accetta neppure una visione eterodossa iero- o metastorica, come, ad esempio, quella sciita di stampo ismailita (21).
L’unico filosofo a cui possiamo accostare Gibran è forse il grande filosofo islamico del XII secolo, vale a dire Ibn Rushd (1126-1198). Questi afferma infatti l’opposizione tra creazionismo ed eternalismo, sostenendo la tesi della materia come coeterna a Dio, cosa che, per giunta, non avrebbe, a suo avviso, impedito il fatto che Dio potesse essere causa del mondo. (22)
Per il nostro autore, non si può però parlare di ateismo, come sottolinea il critico A. T. Robinson (23). Comunque, l’identificazione di Gibran con la Chiesa Maronita è errata, in quanto il nostro poeta la critica con veemenza, e non solo per motivi sociali e per il suo autoritarismo. Basti citare l’opera “Spiriti Ribelli” (24), per capire come quanto appena affermato si palesi, ad esempio, nella figura del sacerdote in “Talamo Nuziale” (25), il quale, appena celebrato il matrimonio, rifiuta di benedire l’ucciso e la suicida e minaccia di maledire chiunque ardisca toccarli.
Di conseguenza, Robinson sbaglia nel momento in cui vede una continuità tra il nonno, prete maronita, e il poeta. Senza dubbio, il nostro autore non si sente affatto legato all’antica Chiesa Maronita di Antiochia e alla sua tradizione storico- dogmatica. È vero che Gibran conosceva, oltre a Sant’Agostino, anche le opere degli antichi teologi libanesi, ma è altrettanto indubbio che conoscesse a fondo la teologia islamica, cosa che non dimostra, però, la sua filiazione con le due religioni monoteiste a un livello più profondo di quello più squisitamente culturale.
Gibran, come avremo occasione di rilevare nella seconda parte del nostro scritto, combatte apertamente il cerimoniale esteriorista e ogni tipo di religione come establishment gerarchico ed autoritario, senza però per questo definirsi agnostico. Più che di una critica razionalistica e antidogmatica, nelle opere di Gibran si tratta di uno sfogo emozionale di rabbia contro il legame tra la Chiesa Maronita libanese e il feudalesimo che segna tutto il periodo ottomano.
Il nostro poeta percepì, infatti, la mondanità della Chiesa a contatto della quale ebbe modo di vivere, ma non rinnegò mai il simbolo religioso come percepito dall’individualità umana. Infatti, a livello soteriologico, Gibran nega la funzione delle prescrizioni liturgiche e dogmatiche di una determinata Chiesa o istituzione religiosa.
Più che sul piano religioso, Gibran argomenta infatti su quello etico-morale, cadendo comunque nell’eterodossia manichea. Stabilisce, di conseguenza, una dicotomia fra due tipologie morali, una legata alla luce, l’altra all’oscurità. Il primo tipo viene identificato in “Le ali spezzate” con la madre del poeta, Kamileh, come rileva anche Barbara Young, studentessa e biografa del poeta (26).
Sempre in senso dualistico, Gibran percepisce anche la dicotomia tra le due generazioni femminili, quella del passato e quella del presente, quando scrive:
“ La donna di ieri era una moglie felice, ma la donna di oggi è un ’ amante infelice. Nel passato camminava alla cieca nella luce, ma ora cammina ad occhi aperti al buio. ” (27)
Ci sono comunque anche altre figure femminili determinanti nella biografia di Khalil Gibran.
Una prima donna di una certa importanza è Micheline, della quale, purtroppo, si conosce ben poco, fino a giungere a dubitare persino della sua esistenza. Fondamentale per il cammino spirituale e artistico del nostro poeta fu poi Mary Haskell (o forse Mary Khoury, la quale, secondo alcuni, sarebbe una persona distinta dalla prima), che lo aiutò finanziariamente ad intraprendere i suoi studi di arte pittorica a Parigi e alla quale scrisse delle lettere e dedicò, tra l’altro, la sua opera “Ali Spezzate”.
Per accedere alla personalità di Gibran, fu invece importante la sua studentessa Barbara Young, che raccolse i manoscritti di The Garden of the Prophet per l’edizione e collaborò con lui fino alla fine della sua vita. Abbiamo già fatto riferimento alla biografia del poeta redatta dalla Young, che contiene molte idealizzazioni non pertinenti, di cui deve essere epurata mediante una continua rilettura critica (28) al fine di riuscire a ricostruire una visione realistica della figura del grande poeta.
La donna, a nostro avviso più importante per lo sviluppo poetico e spirituale, ma anche redazionale, del poeta, in quanto ne lesse e ne criticò le opere, fu Mayy Ziyadeh, che, con la sua corrispondenza (29), riesce a far esternare al poeta i suoi sentimenti più intimi. Di conseguenza, questo epistolario offre un’insolita visione della spiritualità e della ricchezza del pensiero del nostro autore. Mayy Ziyadeh, scrittrice egiziana, aveva un legame con Gibran quale corrispondente della Rabitah al-Qalamiyyah, il circolo letterario capeggiato dal nostro poeta e che si proponeva un programma riassumibile con le sue stesse parole di profeta del movimento: “ la vera letteratura mostra alla nazione il suo vero volto e fa in modo che essa desideri un volto pi ù nobile: il risveglio dell ’ aspirazione innata al vero, al bene e al bello, eliminando la radicata inclinazione al male, all ’ ingiustizia e allo squallore. ” (30)
Sicuramente Gibran aveva cara la tematica femminile, affrontata dalla scrittrice di origine palestino-libanese, che egli percepiva anche come tematica propria. Ci sono, infatti, numerosi parallelismi tra le argomentazioni di Mayy sulla condizione femminile e un racconto gibraniano come Ward é al-Hani (31), la cui omonima protagonista è costretta a un matrimonio di convenienza, che poi rinnega per affermare il valore del vero amore. Qui, come scrive il critico Roberto Rossi Testa (32), “la sua scrittura diviene un’occasione per attaccare con ogni arma a disposizione, i suoi bersagli preferiti, fra i quali, quello del matrimonio di convenienza è uno dei più ricorrenti.”
Di Mayy spesso si apprezza (33) “il fatto di essere una donna orientale, colta, protesa verso i valori dell’Occidente e soprattutto una donna intelligente.” Questi elementi furono senza dubbio quelli che colpirono anche Gibran, che amava le poesie di Mayy, inneggianti alla libertà e all’Oriente quale simbolo di estasi, passione e allo stesso tempo di disordine.
Leggendo le lettere di Gibran a lei indirizzate, partecipiamo alla loro reciproca ammirazione intellettuale, che divenne, nel tempo, un profondo sentimento di amicizia, culminato in un’esplicita dichiarazione d’amore, quando il nostro poeta scrive:
“ Bacio il palmo della vostra mano destra, poi bacio quello della mano sinistra, implorando Iddio di proteggervi e di salvaguardarvi, di colmare il vostro cuore con la sua immensa luce e di considerarvi la persona pi ù amata. ” (34)
Gibran, in questa corrispondenza, esprime anche quanto egli aneli al ritorno in Oriente, lasciando la prigione occidentale. Qui possiamo anche intravedere un parallelismo con la sua visione manichea del mondo, della morale e della divinità. Infatti, nell’operetta “Il Folle”, il nostro poeta presenta una parabola in cui figura il Dio Benigno contrapposto a quello Maligno (35), che gli uomini, a causa della loro tenebrosa ignoranza, non sono in grado di distinguere.
Vediamo, dunque, come negli ultimi anni della sua vita, Gibran giunga sempre più ad un’irrequieta “liricità visionaria” (36), come la definisce il critico Tommaso Pisanti. Sempre di più matura inoltre in lui la vocazione profetica che lo porta ad identificarsi con Al-Mustafa, con Dio stesso e con l’universo, che ne è - in senso panteistico - riflesso ed identificazione suprema. Orfalese diviene di conseguenza nella mente del nostro poeta, il simbolo di New York.
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