Il lungo percorso della storiografia del Mezzogiorno d’Italia in età moderna ebbe come centro unificatore una caratterizzazione legata al rapporto tra storia della città e rappresentazione di essa, “felicità” dello stato naturale e rovinosa scelta del male operata dalla storia umana.
L’autorappresentazione delle comunità del Regno si divise, comunque, tra rappresentazione scritta, ad uso dei gruppi dirigenti locali e napoletani, con, appunto, la storiografia, e “visibile parlare”, rivolto a tutti, tramite la monumentalità di chiese e dimore palazziate. Uno specchio, dunque, che restituiva, sia pur moltiplicata, frazionata, spesso migliorata, una stessa immagine: la città come emblema di virtù morali e civiche e immagine reale del potere o dei patriziati cittadini.
In tale contesto, il presente percorso di ricerca ha inteso analizzare e rileggere l’opera di Giacomo Cenna, la Cronica Antica della Città di Venosa, nell’ambito della più recente storiografia e nel filone della storia di città. A tal scopo, dopo aver ripercorso, nel primo capitolo, modi e forme della storiografia locale nel Regno di Napoli e nella Basilicata spagnola, con i dovuti riferimenti agli studi classici ed alle più recenti ed aggiornate letture critiche, si è cercato di ricostruire, nel secondo capitolo, l’intreccio di poteri tra feudalità, patriziato e locale Chiesa che fu alla base dell’attività di Giacomo Cenna, tipico esponente del patriziato locale e, dunque, di tali legami interistituzionali.
Nel terzo capitolo, infatti, sulla scorta della stessa opera del canonico venosino e delle poche testimonianze esterne disponibili allo stato, è stata ricostruita la sua biografia politico-culturale, con particolare attenzione ai complessi rapporti del Cenna con la famiglia feudale dei Gesualdo, cui fu intimamente legato da peculiari rapporti culturali, e con i vescovi locali, in particolare con Andrea Perbenedetti, che gli commissionò inizialmente una crono tassi episcopale e, in seguito, un’opera storiografica.
Nel quarto capitolo, analizzando il manoscritto originale della Cronica, presente nella Biblioteca nazionale di Napoli e finora noto solo per stralci pubblicati nel 1902 dall’erudito venosino Gerardo Pinto, si è ricostruita sul testo originario la metodologia e l’agire ampiamente politicizzato del Cenna che, partito da una pacifica collaborazione con il locale episcopato, mutò la propria direttiva metodologico-politica con il sopraggiungere di indicazioni più autoritarie...
INDICE
INTRODUZIONE
Capitolo Primo LA STORIOGRAFIA MODERNA NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA E IN BASILICATA
1. Storici e storiografia
2. La storiografia locale in Basilicata durante l’età moderna
Capitolo Secondo UN CASO PARADIGMATICO: VENOSA
1. Territorio e popolazione
2. Potere feudale e cultura
Capitolo Terzo IL “CASO” GIACOMO CENNA
1. Una famiglia patrizia
2. La formazione
3. Da storiografo ecclesiastico ad outsider
Capitolo Quarto LA CRONICA ANTICA DELLA CITTÀ DI VENOSA
1. Un’opera “mutilata”
2. Il contenuto della Cronica
3. Fortuna e metodologia del Cenna
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
APPENDICE
I. Il catalogo dei vescovi di Giacomo Cenna
II. I segni d’onore di Venosa
III. Annibale Cracciolo, Discorso della poesia
IV. Le accademie dei Gesualdo
INTRODUZIONE
Il lungo percorso della storiografia del Mezzogiorno d’Italia in età moderna ebbe come centro unificatore una caratterizzazione legata al rapporto tra storia della città e rappresentazione di essa, “felicità” dello stato naturale e rovinosa scelta del male operata dalla storia umana.
L’autorappresentazione delle comunità del Regno si divise, comunque, tra rappresentazione scritta, ad uso dei gruppi dirigenti locali e napoletani, con, appunto, la storiografia, e “visibile parlare”, rivolto a tutti, tramite la monumentalità di chiese e dimore palazziate. Uno specchio, dunque, che restituiva, sia pur moltiplicata, frazionata, spesso migliorata, una stessa immagine: la città come emblema di virtù morali e civiche e immagine reale del potere o dei patriziati cittadini.
In tale contesto, il presente percorso di ricerca ha inteso analizzare e rileggere l’opera di Giacomo Cenna, la Cronica Antica della Città di Venosa, nell’ambito della più recente storiografia e nel filone della storia di città. A tal scopo, dopo aver ripercorso, nel primo capitolo, modi e forme della storiografia locale nel Regno di Napoli e nella Basilicata spagnola, con i dovuti riferimenti agli studi classici ed alle più recenti ed aggiornate letture critiche, si è cercato di ricostruire, nel secondo capitolo, l’intreccio di poteri tra feudalità, patriziato e locale Chiesa che fu alla base dell’attività di Giacomo Cenna, tipico esponente del patriziato locale e, dunque, di tali legami interistituzionali.
Nel terzo capitolo, infatti, sulla scorta della stessa opera del canonico venosino e delle poche testimonianze esterne disponibili allo stato, è stata ricostruita la sua biografia politico-culturale, con particolare attenzione ai complessi rapporti del Cenna con la famiglia feudale dei Gesualdo, cui fu intimamente legato da peculiari rapporti culturali, e con i vescovi locali, in particolare con Andrea Perbenedetti, che gli commissionò inizialmente una crono tassi episcopale e, in seguito, un’opera storiografica.
Nel quarto capitolo, analizzando il manoscritto originale della Cronica, presente nella Biblioteca nazionale di Napoli e finora noto solo per stralci pubblicati nel 1902 dall’erudito venosino Gerardo Pinto, si è ricostruita sul testo originario la metodologia e l’agire ampiamente politicizzato del Cenna che, partito da una pacifica collaborazione con il locale episcopato, mutò la propria direttiva metodologico-politica con il sopraggiungere di indicazioni più autoritarie, fino a disattendere in pieno, come evidente in ampie parti della trattazione, la volontà del committente.
In apposita Appendice, infine, sono stati trascritti quei passi del manoscritto della Cronica più indicativi di metodologia e scopi politici del Cenna.
Capitolo Primo LA STORIOGRAFIA MODERNA NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA E IN BASILICATA
1. Storici e storiografia
Il giudizio di Benedetto Croce sulla storiografia in età moderna gravò a lungo come un macigno, da quando Croce liquidava il capostipite degli storiografi napoletani, Giovanni Antonio Summonte, come «aneddotico e senza critica»[1]. Eduard Fueter è della stessa opinione: per lui dopo i primi fermenti umanistici testimoniati dalle opere di Facio e del Pontano si ebbe una involuzione, sicché la storiografia successiva era, per Fueter, semplice rielaborazione retorica della cronachistica precedente[2]. Anche Sergio Bertelli ritiene che le opere degli storiografi napoletani di età moderna furono segnate da provincialismo, dall’imitazione passiva dei modelli rinascimentali e dall’uso abbondante e indiscriminato di fonti non verificate e di seconda mano[3]. Più che di storiografia si può parlare di antiquaria impolitica, non prodotto di arte storica ma frutto di una commistione di generi letterari ed espressione di una sentita identità napoletana[4].
Il proliferare di centinaia di testi descriventi questa o quella città si sviluppò, per Aurelio Musi, in quattro fasi distinte attraverso tutto l’arco dell’età moderna, da un primo momento, cinquecentesco, che serviva da propaganda al rafforzamento dei privilegi nobiliari del patriziato locale; la seconda fase, a cavallo tra Cinquecento e Seicento, funse da supporto alla creazione dell’ideale di “nazione” unita; la terza fase, seicentesca, rispecchiava la crisi della coscienza europea e non ebbe, in effetti, precise finalità politiche, mentre l’ultima fase, settecentesca, vide la storiografia al servizio della politica dell’assolutismo illuminato[5].
Giuseppe Giarrizzo, in tale ambito, ha ricostruito l’identità politica della storiografia, facendo risalire all’età di Federico II di Svevia la costruzione di uno stato, quello del Mezzogiorno d’Italia, basato sui rapporti tra la Chiesa e le autonomie locali[6]. Le prime opere storiografiche della modernità, quelle cinquecentesche, miravano a consolidare il potere monarchico, rendendo più stabile ed unita la società[7], sicché risulta evidente, per Giarrizzo, l’uso politico della storiografia, ed in ciò egli si discosta radicalmente dalla presa di posizione crociana sulla impoliticità delle opere storiche della modernità[8], in una lettura interpretativa politica che potrebbe essere confermata dalle successive opere di Summonte e di Pietro Giannone[9], mentre il diffondersi di descrizioni di città e comunità del Regno di Napoli tra fine Cinquecento e Seicento testimonierebbe la fusione avvenuta tra politica e geografia, unite sotto l’egida della storiografia[10].
Le storie e le cronache delle varie città erano, comunque, quasi sempre delle vere e proprie apologie delle maggiori famiglie nobiliari, con un ampio ricorso a fonti documentarie attestanti la fedeltà di tali dinastie al potere e la loro antichità[11], in un processo culminato nella creazione di vere e proprie archeologie[12], con le quali il patriziato tentava, tramite la committenza di tali opere storiche, di legittimare il potere di questi molteplici potentati locali e la città, d’altro canto, era ben felice di riconoscersi nella storia prestigiosa del casato del suo feudatario[13]. La storiografia locale, in questa direzione, spesso attingeva alle numerose varianti dei miti classici per nobilitare l’intera comunità, nel cui codice genetico si presupponeva che fossero state tramandate le virtù e la moralità degli antichi fondatori e antenati, gli ecisti[14], in un filone storiografico di “mitologia cittadina” sviluppatosi soprattutto tra Sei e Settecento[15].
Nel corso del Settecento, comunque, l’influsso dell’Illuminismo si fece sentire nell’attenzione che i seguaci di Genovesi prestavano più allo studio dell’economia (commercio ed agricoltura) che a quello della storia politica[16], anche se, accanto a questa storiografia impegnata nel sociale, si svilupparono anche gli interessi antiquari, sotto l’impulso dato dalle scoperte archeologiche di Ercolano e Pompei[17]: gli eruditi antiquari ponevano la propria cultura al servizio del sovrano per estendere la sua supremazia nel campo delle questioni ecclesiastiche e giudiziarie, secondo i principi del giurisdizionalismo e del regalismo allora in voga nelle corti europee[18].
I primi studi condotti sulle province del Regno furono opera di eruditi che si occuparono delle comunità del Regno sulla base di scarse ricognizioni autoptiche e delle fonti classiche, in un connubio tra storiografia e geografia, una descrizione dei luoghi studiati[19], a partire da Flavio Biondo che, avendo come altri umanisti una chiara coscienza della differenza tra l’Italia antica e quella contemporanea, usava la propria opera per descrivere la differenza tra questa e quella nazione (perché lo studioso intendeva l’Italia come un tutto unitario e non divisa in Stati e province), per comprendere meglio gli storici antichi e le trasformazioni del territorio, attuando una ricerca che era sia topografica che storica[20]. Biondo compievaanche una sintetica descrizione storica delle aree geografiche trattate nel suo libro, fornendo, quindi, la base per tutte le successive opere di descrizione del Regno di Napoli in età moderna[21].
Lo sviluppo delle opere descriventi le province del Viceregno fu dovuto in larga misura alla necessità di trovare introiti per finanziare le guerre contro gli Ottomani[22]. L’opera che faceva da apripista a queste descrizioni fu la Descrittione del Regno di Napoli di Scipione Mazzella, anche se l’opera che avrebbe fatto da modello per le storiografie seicentesche fu Il Regno di Napoli diviso in dodici province di Enrico Bacco, sunto dei dati istituzionali, storico-politici ed amministrativi di ciascuna provincia[23]: Bacco, in effetti, attuava una descrizione di ogni singola provincia con note di toponomastica, elenchi di diocesi e vescovadi, dei centri abitati e del numero dei loro abitanti, per poi passare alla parte storica vera e propria attraverso una breve descrizione storico-amministrativa e l’elenco delle locali famiglie nobili[24].
A partire da questi primi modelli ,gli esempi di opere storiografiche sul Regno di Napoli si susseguirono, dalla Descrittione del Regno di Napoli suddiviso in dodici province di Ottavio Beltrano[25] al Regno di Napoli in prospettiva di Giovan Battista Pacichelli (1703)[26] ed alla Istorica Descrizione del Regno di Napoli di Giuseppe Maria Alfano (1798)[27].
Queste descrizioni del Regno di Napoli influenzarono la storiografia locale almeno per quanto riguardava la peculiare fusione fra politica, storia e geografia attuata in questi scritti[28]: presentandosi, in effetti, come un genere minore rispetto a quello della storia “ufficiale” e “generica” si erano, di fatto, evolute, abbandonando il carattere di itinerario-cronaca per passare ad una più attenta descrizione degli aspetti sociali, economici e geografici sino a consolidarsi come un genere ben definito, dotato di caratteristiche proprie ed affermato, che si poneva quasi sempre al servizio di una rappresentazione positiva e di una autoesaltazione della città descritta[29].
2. La storiografia locale in Basilicata durante l’età moderna
Questo discorso è applicabile anche all’evoluzione storiografica della provincia di Basilicata, a partire da quella cronaca cittadina che fu il Liber Niger Pisticii, scritto nel 1567 dal dottore in utroque jure Andrea Marzio e che costituisce, appunto, uno dei primi esempi di storiografia cittadina, composta per dimostrare la continuità e l’autonomia del governo cittadino nei rapporti con il potere dominante dei Sanseverino, i quali governavano i loro estesissimi feudi indirettamente, tramite un loro rappresentante in seno al governo cittadino e, pertanto, contiene un elenco di statuti e privilegi concessi alla città[30]. In tale solco, Paolo D’Avenia compose una memoria scritta nel 1688 e poi pubblicata in appendice al sinodo Materanense del 1567 (edito a Napoli a cura di Nicolò Jeno De Coronei) ed una raccolta delle donazioni e dei privilegi fatti al monastero di Santa Maria del Casale presso Pisticci[31]. D’Avenia compose un’opera di impianto annalistico, in cui emergono chiaramente i riflessi della storia generale del Viceregno, quali la rivolta di Masaniello, la peste del 1656 e la carestia del 1673, sul microcosmo del centro ionico, oltre ad eventi di storia locale come la descrizione di un moto popolare del 1676[32].
Di consimile impostazione doveva essere l’opera storiografica, andata perduta, del dottore in utroque jure Francesco Teleo, risalente al 1578 e probabilmente recitata al momento dell’ingresso a Potenza del suo nuovo signore Alfonso de Guevara, come una sorta di captatio benevolentiae per ottenere la concessione della carta cittadina, dimostrando, quindi, come anche a Potenza la storiografia dell’età moderna fosse sempre stata fortemente legata al potere feudale locale[33].
Il patriziato locale si espresse, comunque, anche in forme stricto sensu più cronachistiche, come testimonia la cronaca della città di Matera di Eustachio Verricelli (1596), avviato dal padre a studi di medicina e divenuto dottore nel 1581 e appartenente ad una famiglia gentilizia stabilitasi a Matera nel tredicesimo secolo, che annoverava tra i suoi antenati anche un cavaliere di Rodi, Giovanni Giorgio Vercelli[34]. Queste notizie sulla sua famiglia si evincono dalle memorie familiari da lui scritte[35] ; nello stesso tornio di tempo Silvestro Gattini, sindaco di Matera nel 1577, compose una cronaca del suo tempo e un’autobiografia[36].
La storiografia ecclesiastica si espresse, com’era quasi naturale in una provincia nella quale il potere ecclesiastico era ampio, in forme ampie e piuttosto compiute, a partire dall’opera di Paolo Emilio Santoro, nato a Caserta nel 1560, arcivescovo di Cosenza e poi di Urbino, che scrisse una storia del monastero di Carbone[37]. Risale al 1635 la Cronologia di Matera di Gianfrancesco De Blasiis, arciprete della cattedrale di Matera, nato il 9 febbraio 1571 e morto il 28 settembre 1658, che si occupò di redigere le nascite, i matrimoni e le morti dei materani sui libri della cattedrale fino a 9 giorni prima della morte[38]. Il De Blasiis completò l’opera iniziata nel XV secolo da Tuccio de Scalzonibus su Giovanni di Matera e, così facendo, riportò alla luce tutte le attività svolte a Matera e dintorni dall’ordine monastico a cui appartenne Giovanni, dando un grande contributo alla ricostruzione della storia dei monasteri dei paesi dell’alta Basilicata e della valle del Bradano tra XI e XII secolo[39]. A Matera, in effetti, è particolarmente evidente l’intento di usare la storiografia come un cemento che tenesse coeso il locale patriziato che voleva impedire agli esponenti più affermati della borghesia professionale di accedere alle cariche pubbliche.
Molto forte fu anche l’influenza della chiesa locale, potente sia economicamente che politicamente, che funse da promotrice per le scrittura di storie che evidenziassero il ruolo egemonico di Matera nei confronti di Acerenza, anch’essa sede arcivescovile, che il clero materano voleva suffraganea[40] ; in tale direzione, anche il poeta Tommaso Stigliani aveva scritto una memoria riguardante le «antichità e preminenze di Matera[41] mentre, all’inizio del Settecento, il patrizio Domenico Appio compose una Cronologia historica della città Di Matera tradotta da varie scritture antiche [42] e, qualche anno dopo, il canonico Donato Venusio compose una Cronaca di Matera con appendice di notizie appartenenti alla Città di Matera raccolte da diversi autori, opera di un «dotto ecclesiastico della nostra cattedrale, assai geloso della patria, ed inteso delle antichità di essa, meritatamente occupa un posto distinto nella Biblioteca Materana co’ suoi autografi ed interessanti Mss»[43]. Venusio fu, in effetti, ufficialmente incaricato di tutelare le ragioni della diocesi di Matera nella contesa secolare con quella di Acerenza e così, per poter svolgere il suo mandato, abbandonò gli studi di astronomia, studiando da dottore in utroque jure e da teologo e raccogliendo notizie e documenti a sostegno della chiesa di Matera, per poi recarsi anche a Roma a propugnare la causa della sua città dinnanzi alla Sacra Rota. Al ritorno a Matera, si dedicò alla sua opera[44].
Altro storico di Matera fu Niccolò Domenico Nelli, canonico addottoratosi in utroque jure a Roma nel 1714 e rientrato dopo questa data a Matera, dove subentrò al Venusio nell’incarico di archiviario della Curia arcivescovile, e dove si dedicò agli studi storici riguardanti la sua città che confluirono nella Descrizione della Città di Matera, della sua origine e denominazione: de’ suoi cittadini e delle sue chiese e Monasteri sì antichi che moderni etc. raccolti da vari autori e da diversi manoscritti antichi posti in opera sino all’anno 1751. Nelli scrisse anche una Cronologia seu series Antistitum Matheranae Sedis ante unionem, et etiam postquam Matherana fuit cum Acheruntia unita, et ut fieri poterit inventi sunt etc. ab anno Domini nostri Jesu Christi 600 etc. usque ad praesntem 1769, et per U.J.D. Dominicum Nelli, Canonicum Metropolitanae Ecclesiae Matheranae collecti, ma i suoi lavori rimasero incompleti a causa della sua morte improvvisa il 19 giugno del 1772[45].
A metà tra storia cittadina, feudale ed ecclesiastica si situa, tra il 1668 e il 1673, la Istoria della città di Potenza del canonico Giuseppe Rendina[46], composta da quattro libri e che si configura, appunto, come una commistione di più generi letterari - in particolare agiografia, genealogia ed archeologia – come nelle coeve produzioni storiografiche materane. In effetti, Rendina nel primo libro descrive la fondazione della città attingendo al mito, attingendo a fonti storiche e poi manovrandole a proprio piacimento per creare una origine che di realmente storico ha ben poco, poiché faceva risalire l’origine di Potenza alla fondazione pompeiana, cui doveva invece l’origine la Potenza picena. Nel secondo libro, inoltre, tentava di legare le virtù storiche degli abitanti di Potenza alla chiesa tramite il mito, originario di Benevento, dei dodici fratelli cartaginesi martirizzati sotto l’imperatore Massimiano e dichiarati patroni della città. Nel terzo libro, poi, descriveva la storia ecclesiastica del capoluogo attraverso la figura di Gerardo (e poi un elenco dei vescovi che gli succedettero) e tramite una esposizione della cattedrale e delle chiese e dei monasteri che furono costruiti nel corso del tempo, nell’intento di dimostrare la continuità del potere ecclesiastico nella città. Nel libro quarto, proprio in tale direzione, l’autore univa storia sacra antica e storia recente, sottolineando l’importanza della città con la descrizione di eventi come la rivolta di Potenza contro Carlo d’Angiò, l’infeudazione della città ai Guevara, la venuta del duca di Nemours nel 1502 ed infine una genealogia della famiglia nobile dei Loffredo. Tale opera sarebbe, poi, stata riproposta, quasi invariata, alle soglie del Decennio napoleonico, da Emanuele Viggiano nelle sue Memorie storiche di Potenza [47].
Una figura di ecclesiastico animato da intenti consimili risulta il tricaricese Giuseppe Caravelli, autore di una cronistoria di impianto molto simile a quello rendiniano[48], così come la descrizione storica di Antonio Scarano, che, nel 1688, la inserì in epigrafe alla platea dei beni del convento di san Francesco[49]. Ancora nel 1746 Serafino Tanzi di Montescaglioso, sempre per affrontare un’ennesima annosa controversia giudiziaria (questa volta tra l’Università e il feudatario locale), scriveva una vera e propria opera storiografica, l’ Historia cronologica monasterii S. Michaelis Archangeli Montis Caveosi ad anno MLXV usque ad annum MCDLXXXIV, dopo aver riordinato l’archivio del Monastero di San Michele Arcangelo di cui era abate[50].
Un ulteriore filone, quello antiquario, è rappresentato da un centro a cavaliere tra Principato Citra e Basilicata, ossia Saponara (odierna Grumento Nova): al 1729, infatti, in pieno revival antiquario, risale l’opera di Bonifacio Pecorone, abate di Santa Maria di Loreto, cantante e musico della Real Cappella di Napoli e autore di Memorie della città di Saponara [51]. O ancora, Niccolò Ramaglia, che nel 1736 compose le sue Memorie Grumentine saponariensi, he vertevano principalmente sulla controversia bicentenaria e irrisolta tra la chiesa del suo saponarese e la diocesi di Marsico, controversia iniziata nel 1530[52]. In tale direzione antiquaria era una dissertazione epistolare di Giacomo Castelli, nato a Carbone sul finire del Seicento, magistrato e cultore di lettere ed antichità, trasferitosi a Napoli per esercitarvi l’avvocatura e componente del Consiglio della Corona dal gennaio 1759[53]. Egli era interessato anche alla archeologia, a cui è stato avviato da Giacomo Antonio Del Monaco, tanto da entrare a far parte dell’Accademia Ercolanense e da essere chiamato a far parte della Commissione che si occupava degli scavi di Ercolano e Pompei[54].
Ancora a Saponara, Francesco Saverio Roselli, completati gli studi in Medicina a Napoli, si dedicava agli studi della storia dei centri abitati della Val d’Agri, illustrando in un suo scritto (Nota su di una antica manomissione celebrata da Tommaso Sanseverino conte di Marsico e composta e distesa dal dottor Francesco Saverio Roselli di Saponara a modo di lettera al Rev. Sign. D. Giuseppe Primicerio Barrese) le condizioni dei contadini di Marsico nel XIV secolo. Scrisse, inoltre un testo in cui sosteneva che proprio la città di Marsico fosse sorta sulle rovine dell’antica Marciliana (Divisamento critico sulle varie opinioni intorno alla vera situazione ed attuale sito dell’antica città di Consilina in Lucania, in cui si discute se la città chiamata Consilina sia la stessa Consilina o se la città chiamata Marsico Nuovo sia la stessa Marciliana e la medesima Consilina).
Ad ogni modo il suo testo più importante rimane la Storia Grumentina del 1790 in cui, sulla base del rinvenimento di materiale archeologico avvenuto poco prima, ricostruiva la storia dell’antico centro lucano i cui abitanti, dopo il sacco ad opera dei Saraceni avvenuto nel IX secolo, avevano dato vita ad altri casali[55]. L’ importanza di questo scritto sta nell’aver superato la vecchia concezione secondo cui la storia locale andava intesa come cronaca e come narrazione di antiche leggende, sicché, affermava il Roselli, la confusione fatta dagli storici precedenti tra agiografia e storia non era più ammissibile se si voleva salvaguardare la scientificità di uno studio di storia[56]. La Storia Grumentina si divideva in 3 sezioni: al prima verteva sull’origine del paese; la seconda comprendeva la descrizione degli antichi monumenti e una ricostruzione dei fatti illustri che si erano svolti sul territorio e la terza parte era relativa alla fine della dominazione romana, al sacco dei Saraceni già menzionato e alla fondazione del centro nuovo di Saponara, di cui veniva pubblicato un elenco degli arcipreti tra il 954 e il 1629 e degli uomini illustri, fornendoci informazioni sulla Saponara del suo secolo[57].
La storiografia cittadina, dunque, nel XVIII secolo produsse opere più rigorosamente politiche, come quella di Alessandro Falcone di Lagonegro, dottore in utroque jure, che scriveva nel 1774 un libro dal titolo Delle notizie con discorsi istorici, e riflessivi per la città di Lagonegro (Pedio riporta l’erronea data del 1730 riferita al manoscritto)[58]. Tra le altre storie cittadine settecentesche, a Vietri Gerardo Volella scriveva nel 1746 una serie di Notizie storiche sopra Vietri di Lucania [59] mentre, nel 1789, Pasquale Giaculli di Lavello compose Antiche notizie sulla città di Lavello, o ancora, Filippo Ambrosano, che scriveva nel 1798 una Istoria civica di Bernalda [60].
Anche la provincia nel suo complesso fu descritta, a partire da La Lucania. Discorsi del 1745 di Giuseppe Antonini, avvocato e feudatario di San Biase e Regio Auditore di Basilicata e Abruzzo Ultra[61], che esaminava, in nove Discorsi, la storia antica del Cilento e del Vallo di Diano, in un percorso d’impianto erudito-periegetico e che utilizzava un metodo antiquario, pur con un risultato ben poco amalgamato di schede geografiche e dati spesso non documentati, anche se risultano essere funzionali ai fini del riconoscimento dei caratteri distintivi dei centri descritti, grazie a questa mistura da lui usata di descrizioni storiche, archeologiche e geografiche[62].
Ma Ambrosano non fu l’ultimo, cronologicamente si intende, degli storici lucani, perché l’opera finale della storiografia lucana in età moderna fu scritta da Emanuele Viggiano, canonico, nel 1805, ormai in piena età napoleonica, ovverossia le Memorie storiche di Potenza, in cui la rappresentazione storica della città era ancora fortemente influenzata da quello spirito feudale che aveva subito un duro colpo dalla rivoluzione del 1799, evento epocale che nelle pagine di Viggiano viene quasi taciuto e a cui l’autore si riferisce come ad un disastro che produsse uno scompiglio in tutto il Regno[63]. Viggiano, come detto, comunque ricopiò quasi alla lettera il Rendina[64].
Gli storici locali in età moderna provenivano per la maggior parte (più della metà di loro) dalle fila del clero mentre i rimanenti storici invece risultano essere funzionari pubblici od esponenti del governo dell’università[65]. Erano, dunque, protagonisti della cultura che avevano una formazione di base improntata alla conoscenza dei classici del pensiero latino e greco e che, quindi, attuavano un processo di riutilizzazione dell’antico, con le sue forme retoriche e stilistiche, per meglio definire l’identità dei cittadini ed il loro senso di appartenenza ad una urbs idealizzata[66]. Le opere scritte, invece, per volontà della Chiesa erano documenti a favore dei privilegi e delle consuetudini delle istituzioni ecclesiastiche[67], pur se l’influenza della Chiesa risulta evidente anche in quegli scritti che non erano di matrice ecclesiastica (o che quantomeno non erano stati concepiti come strumento di “propaganda” religiosa) ma che comunque risentivano, anche nella ricerca storico-archeologica, dell’ingerenza del potere di Roma anche nelle più remote province[68]. La rievocazione agiografica, assieme alle visitationes vescovili, tracciava, in effetti, un quadro della storia degli istituti religiosi, pur servendo soprattutto a ribadire il ruolo direttivo del clero a livello cittadino e provinciale, stabilendo, così, una sorta di legame tra esercizio del potere laico e quello del potere religioso; il legame tra storia della città e quella della diocesi si rinsaldava, dimostrando, così, che il corpo civico era legato non solo all’antichità pagana e laica, ma anche - e soprattutto - agli aspetti religiosi rappresentati dalla diocesi, dimostrando la preminenza della storia sacra su quella profana[69].
Questa partecipazione della chiesa al governo delle città si riflette anche nei testi di opere come la Cronica venosina di Giacomo Cenna o l’ Istoria potentina di Giuseppe Rendina, testi di storia cittadina ma anche di storia ecclesiastica, che utilizzarono un modello facente ricorso all’agiografia, usata per descrivere la fondazione mitica della città ad opera di un ecista e spesso fatta risalire al tempo della prima delle guerre “storicamente provate”, quella di Troia; seguiva, poi, una biografia del santo patrono, con il racconto del ritrovamento delle sue reliquie; poi ancora si ha la descrizione delle chiese cittadine e una cronologia dei vescovi fondendo la storia cittadina con quella religiosa, per creare un modello di città-chiesa con una sua sacralità politico-amministrativa distinta da quella del potere regale, ma di fatto cooperante con esso[70].
In tutte le storie della Basilicata si usavano, in effetti, miti di fondazione risalenti all’epoca greca o romana o, qualora non ci fossero dati risalenti a quel periodo, si attuava spesso una vera e propria forzatura di eventi storici minori o una “presa in prestito” di storie di altre città omonime: è il caso di Rendina, che sosteneva la tesi della fondazione pompeiana di Potenza, fondazione veritiera sì, ma nel caso di Potenza Picena[71]. Egualmente forzate erano le interpretazioni del nome di Matera come derivante dal console Metello, come sostenuto da Francesco Saverio Volpe o come derivante dal greco metéoron, nel caso di Gianfrancesco De Blasiis[72]. Gerardo Volella ipotizzava, altresì, per il nome di Vietri un’origine legata alla battaglia dei Campi Veteres, avvenuta durante la seconda guerra punica e menzionata da Livio[73]. Ad un episodio della stessa guerra, la morte di Marcello, Giacomo Cenna legava l’origine di Venosa, utilizzando uno dei personaggi meglio definiti nelle fonti (Plutarco e Valerio Massimo) e meglio descrivibile, anche se legato da un caso fortuito alla città[74] ; ancora, sempre relativamente a Venosa, Pietro Antonio Corsignani ne attribuiva la fondazione ai popoli preromani, associando il nome della città a Venilia, moglie di Dauno e madre di Turno[75].
Queste costruzioni etimologiche venivano usate per costruire o rafforzare l’identità cittadina, in tal senso legando la scrittura della storia alle esigenze della politica[76] e spesso esaltando la fedeltà dei cittadini al potere centrale anche in tempi di calamità, al contrario di quanto avveniva nella coeva produzione storiografica calabrese: molti autori, infatti, preferirono sottolineare la fedeltà delle proprie città al potere romano, piuttosto che porre l’accento sullo spirito di autonomia dei Lucani che si schierarono al tempo della seconda guerra punica con i cartaginesi contro Roma[77]. Sul finire dell’età moderna, infine, in seguito agli sconvolgimenti provocati dalla Rivoluzione Francese, si cercò, invece, nelle opere storiografiche un punto di riferimento per la costruzione di una nuova identità che tenesse conto delle nuove dinamiche politico-sociali determinate dalla Rivoluzione[78].
Capitolo Secondo UN ESEMPIO PARADIGMATICO: VENOSA
1. Territorio e popolazione
Città arcivescovile, Venosa confinava ad est con Lavello e Montemilone, a sud-est con la Terra di Palazzo; a sud-est con Maschito e Ripacandida e, infine, a nord-ovest con Rapolla. Come alcune diocesi lucane, quella venosina era alquanto limitata, comprendendo solo il centro abitato, oltre a Forenza, Maschito e Spinazzola[79].
Del resto quella del Vulture-Melfese era un’area connotata da prevalente dimensione abitativa di tipo rurale, con una maggioranza di Terre e casali, tra i quali spiccavano i centri di Melfi e, appunto, Venosa, comunque di rilevante importanza poiché toccate dalla strada di Puglia, la più importante del Regno, che da Napoli, attraverso la valle dell’Ofanto, si dirigeva verso Foggia e da lì a Bari e Lecce, all’altezza di Avellino, con una diramazione per Melfi e Venosa, non «rotabile», e che costituiva il cammino del “procaccio”. Spinazzola era, inoltre, direttamente collegata a Venosa tramite una strada che, oltrepassando la fiumara venosina, conduceva a Candela, per una lunghezza complessiva di 12 miglia[80]. Tale strada coincideva con parte del «Regio Tratturo» da Melfi a Castellaneta, che «comincia dal territorio di Spinazzola, e finisce sopra le terre di Melfi» e «incominciando dalla strada che viene da Gravina, e proprio dove detta strada si parte in due. Una delle quali rivolta a mano destra a Spinazzola, et a mano sinistra per dirittura di Melfi»[81] [82].
Su tali basi, aVenosa e nel Vulture si registrò un aumento pari al 100% tra il 1532 ed il 1595, essendo allora la popolazione di questa parte settentrionale della provincia di Basilicata, passata da 19.000 a quasi 40.000 abitanti[83].
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Tab. 1. Andamento demografico della popolazione di Venosa tra XVI e XVII secolo. Nostra elaborazione da L. GIUSTINIANI, Dizionario…, cit., pp. 33-37.
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Graf. 1. Sviluppo demografico della popolazione venosina tra il 1532 ed il 1675.
Elaborazione dalla tab. 1.
Venosa, Lavello, Melfi, del resto, ed in genere tutte le terre circostanti erano state investite in modo particolare dal flusso migratorio degli arbereshe, e ciò, insieme ad altre cause di carattere più generale, aveva contribuito a restituire compattezza e dinamicità ad una zona provata dal periodo di crisi durato fino al XV secolo[84].
Come alcune diocesi lucane, quella venosina era alquanto limitata, comprendendo solo il centro abitato, oltre a Forenza, Maschito e Spinazzola[85].
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Tab. 3. I vescovi di Venosa tra XVI e metà del XVII secolo. Nostra elaborazione da G.
CENNA, Nomina episcoporum, qui pro tempore praefuerunt Ecclesiae Venusinae, in Synodus Dioecesana Ecclesiae Venusinae ab admodum Illust(rissimo) et Reuerendis(simo) Domino D. Andrea Perbenedicto de civitate Camerini […] habita […], Neapoli, apud Lazarum Scorigium, 1615, pp. 810-816; CAV, passim.
Nel notevole (e consueto, per quanto riguarda i secoli XVI e XVII) turnover episcopale nella diocesi venosina, spiccano i lunghi episcopati di Fernando De Gerona (che consacrò la cattedrale di Sant’Andrea, eretta dal signore locale Pirro Del Balzo) ed Andrea Perbenedetti, il secondo dei quali resse la diocesi per ben ventitré anni, adeguandosi al modello del vescovo milanese Federico Borromeo, del quale era stato vicario. Tra l’altro, il modello “interventista” e giurisdizionalista del Borromeo ispirò il Perbenedetti nell’attivo culto delle reliquie e nell’attività sulle scuole della dottrina cristiana, ponendo, secondo i dettami tridentini, peculiare attenzione alla cura animarum [86]:
Donno Andrea Perbenedetto della città di Camerino fu fatto Vescovo di Venosa nell’anno 1611 del mese di marzo da Paulo V sommo Pontefice. Venne in Venosa et intrò in quella a dì 10 di maggio dell’istesso anno. Fu homo seuero e crudele contra li delinquenti, tanto di quelli suoi subditi, quanto di quelli li ueneuano commessi da Roma. Nell’anno 1629 del mese di aprile fu chiamato in Roma da Urbano VIII sommo Pontefice, e fu fatto Visitatore, e li fu dato ordine andasse in Calabria a uisitare il Vescouo di Cosenza e la sua chiesa. Dopoi uisitasse Squillace e tutta sua Diocese. Partì da Venosa a dì 24 di maggio//f.30v.// il giorno dell’Ascensione del Signore; et a uisitare detta città e Diocese ui stette mesi sette. E partito da Cosenza, ando alla uisita di Rossano e sua Diocese. Visito dopoi Squillace e sua Diocese. Ando dopoi a uisitare la citta di Nicastro. E partito da quella, ando alla citta di Bisignano. E ritornato dopoi in Venosa ui stette alcuni mesi. E dopoi dall’istesso sommo Pontefice hebbe che andasse a uisitare la citta di Lecce, Monopoli, Castellano et la citta di Bitonto. Ultimam(en)te hauendo quelle uisitate tutte con gran disgusto delli Prelati di quelle et eminentiss(im)i Cardinali protettori, ando ad instantia dell’Eccellentia del Principe di Venosa a uisitare il Vescouo di Auellino e sua Diocese, per alcune differenze che correuano tra essi. Alla fine, dopo patiti tanti stenti e fatiche, fu chiamato in Roma a dar conto di sé e della visita fatta, per la qual cosa, con molto suo disgusto, mentre pensaua hauerne qualche remunerat(io)ne, suspirado sepre, s’ammalo e passo da questa a meglior vita, dopo auer gouernato il Vescovato di Venosa anni 23, il di 12 novembre 1634[87].
2. Potere feudale e cultura
Comunque, Venosa toccava, proprio nel ventennio del mandato del Perbenedetti, il suo periodo di massimo splendore, con un’incidenza notevolissima del potere feudale dei Gesualdo[88], che attuavano una politica di laicizzazione culturale in aperto contrasto con la rigida applicazione dei decreti tridentini promossa dalla Chiesa. Del resto, notevole era stato il potere feudale nella città oraziana, fin da quando Pirro del Balzo, duca d’Andria, aveva ricevuto dalla moglie, Maria Donata Orsini, figlia di Gabriele, contessa di Montescaglioso, uno Stato ricchissimo, costituito da città e terre, fra cui Acerra, Guardialombarda, Lacedonia, Lavello e appunto Venosa, con il titolo di duca. Qui il del Balzo fece costruire il Castello (dal 1460 al 1470), distruggendo la preesistente cattedrale cittadina, che fece erigere nuovamente - in posizione significativamente decentrata rispetto all’abitato - con lavori terminati solo nel 1502[89].
Incarcerato il del Balzo, coinvolto nella congiura dei baroni del 1485, Venosa era passata al regio demanio, rimanendo città regia fino a quando Ferdinando il Cattolico la concesse a Consalvo de Cordova come premio della conquista del Regno di Napoli contro i francesi del duca di Nemours (1503), finché Luigi IV Gesualdo al titolo di conte di Conza aggiunse, nel 1561, il titolo di principe di Venosa, che trasmise al figlio Fabrizio. Primo frutto di questo fertile clima culturale era stata l’opera, a metà strada tra descrizione della città e storia cittadina, Discrittione della città di Venosa, sito e qualità di essa, scritta il 28 febbraio 1584[90] da Achille Cappellano, vicario generale del vescovo Giovanni Tommaso Sanfelice dal 1583 al 1585, primicerio e parroco di San Marco in Venosa nel 1589 e studioso di diritto sotto la guida di Scipione di Bella e di Francesco Gruosso[91]. Proprio in quell’anno, tra l’altro, Fabrizio Gesualdo entrava in Venosa per prendere possesso del feudo:
nell’anno 1584, del mese di ottobre, a tempo fe l’intrata in Venusa, per il possesso del principato l’Eccellentia di D. Fabritio Gesualdo con l’Ill.mo et R.mo Cardinale//f.24v.// suo fratello, si serui di detto baldacchino, e uolse detta università che dodici gentiluomini della città, nell’entrare di detto Principe et Ill.mo Cardinale, se ritrouassero con detto baldacchino nella porta della città vicino la piazza, et accompagnassero quelli fino alla cathedrale, dove si ferno le solennità ordinate nel pontificale, e se recitorno uarii poemi et orationi, tanto per la città dove erano eretti archi trionfali, quanto nella cathedrale, dove detti Signori e Ecc.mi dedero grata audienza a tutti coloro che recitauano. Nell’intrare della città fu spiegato detto baldacchino, e Federico Maranta all’ hora mastro giurato di detta città pigliò le redine del caualla dell Eccelentia del Principe e Gio. Andrea Costanzo all’hora erario pigliò le retine del cauallo di detto Ill.mo Cardinale. Il baldacchino il portorno il Dottore Donato Porfido, il Dottore Ascanio Cenna, il Dottor Gio. Battista Maranta, il Medico Gio. Battista Cafaro, Marco Aurelio Giustiniani, Manilio Cappellano, Gioan Francesco Barbiano, Horatio Caputi, Angelo Solimene, Roberto Piumbarolo, Bartholomeo d’ Aytardis et Augustino Fenice. E furno dodeci, perché dodeci bastoni retiene detto baldacchino[92].
Ed all’entrata del principe Fabrizio, come d’uso, il nuovo feudatario aveva soddisfatto alcune richieste del locale patriziato a proposito dell’Università:
a t(em)po l’ Eccelentia del Principe Don Fabritio Gesualdo, bona memoria piglio il possesso di detta citta con l’ Ecc(ellentissi)mo et R(euerendissi)mo Cardinale suo fratello si fe co(n)test(atio)ne tra L’m Vinersita e detto Ecc(ellentissi)mo S(igno)re che l’ officio di mastro giurato se eligesse ogn’ anno in persona di uno Nobile di detta citta e che li dodeci Eletti ch’ hanno da gouernar(e) q(ue)lla sei siano Nobili ,e, de nobilm(en)te uiuano ,e, sei altri siano del populo[93].
Carlo, figlio di Fabrizio, si era posto sulla linea di una decisa politica laica, promuovendo studi letterari e musicali. Dopo una battuta d’arresto degli studi promossi dalla famiglia dei Gesualdo a causa dell’uxoricidio compiuto dal principe nel 1590, la politica di mecenatismo gesualdiano continuò con la rifondazione, ad opera del figlio di Carlo, Emanuele, dell’Accademia letteraria dei Piacevoli - fondata da Carlo nel 1582, anche se il cronista
Giacomo Cenna riferiva come data di fondazione il 1592, erroneamente, perché Scipione de’ Monti, tra i promotori dell’Accademia, era morto nel 1583.
Emanuele Gesualdo, fautore di una politica di protezione dei letterati come «signore molto studioso» - come venne definito dal vescovo Perbenedetti dopo il loro primo incontro, avvenuto nel 1611 - si dilettava di poesia ed astrologia ed era in rapporto con lo stesso Cenna, con il quale si ritrovava quasi giornalmente per giocare a scacchi al castello[94]:
durante una delle interminabili sedute di gioco sentendosi verso il fine di marzo un caldo estremo e tale che, per la stagione del crudelissimo inverno passato, dava segno di dovere essere eccessivo et intollerante nella prossima estate, fu il [...] Principe di parer che [...] se retrouasse alcuno giovevole rimedio a fine che, pascendosi la mente di sano notrimento, avesse il corpo scampo dell’imminente pericolo. E volle che, fatta una scelta de i più eleuati ingegni de i suoi più cari e familiari, cosi della corte come di più nobili della città, douessero questi e quelli unirsi nel suo castello, dove due volte la settimana formassero una nuoua Accademia […] E perciò a dì 26 di detto mese furono tutti congregati nel castello, dove fu ufficializzata la costituzione dell’Accademia dei Rinascenti[95], così detta per significare che lo spirito poetico e creativo nasceva ancora una volta dopo la generazione dei venosini che avevano dato vita all’Accademia dei Piacevoli[96]. Proprio Cenna, che descriveva le prime sei giornate di lavoro, alle quali partecipava con il nome di accademico «Vivace», affermava che le finalità di questo circolo eterogeneo di intellettuali, nobili e militari consistevano nell’«adoprarsi in far lettioni, dispute, oppositioni, dichiarationi, ciscuno secondo la sua professione»[97]. L’Accademia finì, comunque, poi per interessarsi quasi esclusivamente di poesia, soprattutto ad opera dell’accademico «Ardito», Annibale Caracciolo, che, in qualità di segretario ed esperto di retorica e grammatica, redasse, su richiesta di Emanuele Gesualdo, un discorso sulla poetica che dovesse fungere da guida per gli altri accademici desiderosi di cimentarsi in questa arte e che, di fatto, rappresentava una summa di tutti i principi-chiave della poetica cinquecentesca e che molto probabilmente fu consegnato al Cenna, che infatti lo tramandò dettagliatamente nella cronaca[98].
Facevano parte del circolo anche due gesuiti, Lorenzo da Terlizzi e padre Anello, in un peculiare e fruttuoso interscambio tra potere feudale, patriziato urbano e locale clero[99]. La struttura dell’accademia, in effetti, con i suoi Principe, Assistenti, «Secretario», Lettori, ricalcava il modello organizzativo gesuita e, quindi, non solo nei contenuti, ma anche nella metodologia e nella struttura, si rispettavano, in unità d’intenti tra feudo e Chiesa, i dettami posttridentini[100].
Nella prima riunione del 26 marzo venivano assegnate le mansioni e spiegate le ragioni e le finalità del sodalizio, fissando come giorno di riunione il lunedì e il giovedì.
Al termine della prima giornata si stabilì che alla successiva riunione venissero presentati componimenti sulla morte del gesuita Cristoforo Clavio, astronomo e matematico, letti nella seconda giornata, dedicata, altresì, alla presentazione delle imprese, poi affisse ai muri[101]. La terza giornata, giovedì 3 aprile, in seduta pomeridiana, ebbe come argomento del giorno, su proposta del gesuita Anello, la retorica e le quattro discipline ad essa subordinate (grammatica, dialettica, arte poetica ed arte epistolare)[102], mentre la quarta giornata prevedeva una dissertazione sulla filosofia, in particolare quella greca e fu chiusa da Giacomo Cenna, che scrisse un componimento «per svegliare la Musa», su richiesta di Emanuele Gesualdo:
Ecco al vostro desir pur giungo al scopo, Ecco del carco imposto il nodo sciolgo, Benché fia vero e pure onor vi accolgo, Che sia spento carbon, presso un piropo,
Anzi aggiaccio e pavento assai più, dopo Che del vostro desir la speme tolgo Del parturir dei monti, e al fin divolgo Un negletto animale e un picciol topo
Per me fo il mio pater s’avvien pur quindi, C’al vostro altiero stil fastidioso arreco Il fallo non è mio ch’in tutto è vostro
Ben goderò di mirar voi ch’alli Indi Volando andrete, sì ch’Italo e Greco Invidia premessa del sacro inchiostro[103].
La quinta giornata, del 7 aprile 1612, si aprì con una lezione di geografia del principe Gesualdo, un compendio delle conoscenze geografiche e cartografiche del tempo comprendente un elenco delle terre conosciute, una sorta di trattato di cosmografia ed una lettura di componimenti di alcuni componenti dell’accademia, tra cui anche del Cenna, dal titolo Sopra il sudor del sangue di Nostro Signore nell’orto [104]:
Poiché nell’orto il primo padre Adamo, Ingannato dal falso e rigido angue, Per far di gloria nostra vita esangue, Stese la man nello vietato ramo,
Ecco il secondo successore d’Abramo, Che vuol dar gaudio al geno uman che langue, Ora nel orto e stilla in sudor sangue E rende il mortal pesce al divin amo.
O contrapposto amore, al arbor quello S’appressa volentier, questo alla croce, Quello il pomo a gustar, questo aloe e fiele.
E pur potea senza il mortal flagello Quel sanguigno sudor, la pena atroce Tor dal Inferno il suo popolo fidele[105].
Il sesto giorno Caracciolo aprì la seduta con un discorso sulla poetica e sulla “divinità” del furore poetico, necessaria per spiegare l’esperienza della poesia popolare, individuando il fine ultimo della poesia nel delectare, con ampi riferimenti a Petrarca, Virgilio, Dante ed Omero[106].
Nonostante tale fervore d’intenti, partito da un piano enciclopedico, l’Accademia si sarebbe, tuttavia, sciolta l’anno successivo, il 1613, quando il suo patrono e ispiratore morì in seguito ad un incidente di caccia[107]: dunque, con l’estinzione dei Gesualdo, la giurisdizione feudale di Venosa stessa passò in mano ai Ludovisi, molto più accondiscendenti nei confronti del potere ecclesiastico e, quindi molto meno disposti a proseguire la politica dei predecessori. Infatti sarebbero stati proprio i Ludovisi, unitamente al vescovo Andrea Perbenedetti, a promuovere una politica di riappropriazione del potere della Chiesa, il cui simbolo fu la commissione, fatta allo stesso Cenna, di una storia della città sub specie Ecclesiae [108].
Capitolo Terzo IL “CASO” GIACOMO CENNA
1. Una famiglia patrizia
Giacomo Cenna nacque da una delle più notevoli famiglie venosine, che poteva far risalire le sue origini fino al tredicesimo secolo, anche se certamente non poteva trarre tali origini dai Cinna di Roma, come ipotizzò lo stesso storico, né dai Cinna della tribù Horatia di Venusia, testimoniati da un bassorilievo antico[109].
Infatti il primo dei Cenna di Venosa ad essere menzionato è Berardino Cenna, vissuto al principio del tredicesimo secolo, che aveva l’abitazione nella parrocchia di Santa Maria del Palagano, vicino a quei ruderi che dai venosini contemporanei di Giacomo Cenna erano considerati i resti della casa di Orazio[110].
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Fig. 2. Notizie su una presunta origine romana della famiglia Cenna. CAV, f. 149v.
Il figlio di un tale Vincenzo Cenna, anch’egli vissuto nel tredicesimo secolo, Iacovo, fu soldato e combatté nell’esercito di Carlo d’Angiò a Benevento, il 26 febbraio 1266[111] e del quale il Cenna narrava che «per alcuni sdegni conceputi nella propria patria, e sopra tutti quelli della matrigna nella propria casa del padre, vagando molti paesi e molte parti del mondo, per terra e per mare, sempre con l’armi in mano mostrò molto saggio della sua persona»[112], scrivendo, altresì, che «detto Carlo [ d’Angiò ] con l’aiuto di tanta gente e di detto Iacovo Cenna, fracassò l’esercito di Manfredi et ammazzò quello»[113]. Il fratello di Iacovo, Marino, fu invece il primo monaco nel monastero di San Domenico[114].
Per due secoli dei Cenna si persero le tracce, poiché solo nel 1470 risulta documentata una loro cappella gentilizia nella nuova cattedrale da poco costruita, dopo che Pirro Del Balzo nel 1470, come detto, fece abbattere l’antica cattedrale per costruirvi sul suo sito il suo castello[115]. In questo periodo risulta che una Viva Cenna fu moglie del giureconsulto venosino Roberto Maranta e che donna Lucrezia Cenna sposò Marino Grosso, uno tra i più importanti esponenti del patriziato locale[116].
Durante l’epoca della guerra franco-spagnola per il predominio nell’Italia meridionale i tre fratelli Fabio, Berardino e Agostino Cenna contribuirono alle vittorie riportate sui francesi dal Gran Capitano Consalvo di Cordua, che vennero poi celebrate in un’opera della giovinezza che valse a Giacomo Cenna la cittadinanza di Barletta, il Bellum Magni Ducis, sintetizzato dal Cenna stesso come «Poema heroico della guerra fatta in questo Regno di Napoli tra la terra della Cidignola et Barletta da Consalvo di Cordua Gran Capitano per discacciare i francesi da questo Regno di Napoli, quali l’havevano posseduto per molto tempo»[117] . Il padre di Giacomo, Ascanio, fu anch’egli un buon letterato, oltre che autore di trattati giuridici sulle leggi civili e canoniche (un trattato De colore judicji ed un altro De iniuriis et famosis libellis); raccolse le consultazioni legali del giurista Roberto Maranta, ne aggiunse di sue, scrisse versi e prose in latino ed in italiano, pubblicati nel Tempio di Donna Giovanna d’Aragona, e nelle Rime di Giovanna Castriota, marchesa di Nocera, e fece parte anche dell’accademia dei Piacevoli[118] . A lui, inoltre, era da ricondurre anche un grosso volume con «seicento observationi occorse dopo il suo dottorato in Venosa»[119], nonché due carmi in latino scritti in onore del giurista Roberto Maranta e fatti inserire da Roberto Maranta iunior nell’edizione dei Consilia sive responsa editi nel 1591 a Venezia[120]:
In laudem operis excell. D. Roberti Marantae venusini, u.i.d. Celeberrimi. Ascanii Cennae venusini, u.i.d.
Carmen
Quaerebant iuvenes lites intendere tuto
Ordine, ut et finis tutior inde foret.
Omnia sub speculo perstrinxit sedulus author,
Nec minime certe, quod vereantur, abest.
Iudicii partes numerat, distinguit, et ornat,
undeque vox dicta est, pricipiumque trahat.
Discutit interdum, quaerit, dissolvit et addit
Instruit Actores, et sine labe Reos.
Exhibet ad praesens magno deprompta labore
Responsa haec, nullo demoritura die.
Et quia multiplici rerum distractio lege
Corruit, hic facili dogmate cuncta docet.
Ergo agite, o iuvenes, sic vos ostendite gratos
Ut maiora datis, promere iura queat.
Eiusdem Magnifici Ascanii
Errabant populi, sine lege, et consule privi
Qualia per sylvas, devia bruta solent.
Viribus imparibus, quaerebant vivere terris,
Nullus erat iusto, tutus in orbe locus.
Ast Deus (huic cura est hominum non parva) potentes
Excitat, ut populis iura verenda darent.
Spiritus est vitae lex, arcens impia fraeno
Pectora, et ille sum non finit esse nephas.
Hinc Draco exhibuit leges, fortisque Licurgus,
Hinc et Athenis tradidit ille Solon
Legibus exhibitis, sic legem invasit abusus,
Ut quod turpe bonum, quae bona turpe putent.
Interdum resecant, interdum legibus addunt
Vana, tamen, miseri, quam grave pondus habent.
Quin et saepe eodem cumulant contraria facto,
Nec pudent in scriptis promere vota suis.
Gaudent praeterea ducti mercede, clienti
Dicere, iusta petis, ius ubi prorsus abest.
Solus Robertus, solum hic Auriga Maranta
Vera canit, leges et sine labe docet.
Hic vere est speculum, Doctorum lumen, aberrant
Qui secus ac ductum est, sentit, et obloquitur[121].
Ascanio si dedicò, dunque, anche alla poesia celebrativa e di occasione, fondando molto della propria produzione letteraria sul petrarchismo e sull’imitazione dei classici latini[122]. Fu, inoltre, governatore a Potenza per alcuni anni e morì, probabilmente a Venosa, verso la fine del secolo, come si desume dall’assenza del suo nome tra quelli dei fondatori dell’Accademia dei Rinascenti nel 1612[123]. Il nome di Ascanio compare, inoltre, anche tra quelli dei firmatari di un atto notarile rogato dal notaio Salvatore Carella in Venosa, l’11 aprile 1580, assieme a quello del figlio Giacomo, definito subdiaconus [124].
2. La formazione
Giacomo nacque proprio a Venosa il 10 novembre 1560 da Ascanio e da una donna della famiglia Monaco[125]. Avviato dal padre alla carriera ecclesiastica, ricevette gli ordini minori il 2 aprile 1572 dal vescovo di Venosa Baldassarre Giustiniani, come egli stesso ricordava, affermando: «Fui vestito tutto di bianco con Berretta bianca, co scarpe bianche, con sottana e cappa bianche coforme il voto di sopradetta mia madre. Do poi da detto R.mo Vescovo no molto dopoi sebbi alla prima ordinatione li quattro ordini minori»[126].
Il padre incoraggiò la vocazione letteraria del figlio Giacomo e volle che «per un inverno intiero (quello del 1575) attendesse anche a poesia; et ogni sera prima e dopo cena, voleva una lettione della Poetica del nostro Venusino Horatio Flacco, e dopo alcuni altri ragionamenti mi dava alcuno soggetto che nella sequente sera havesse portato alcuno epigramma per detto soggetto; il che seguì per tutto l’inverno e parte della primavera»[127]. Ed infatti risalgono a questo periodo giovanile il poemetto già citato, il Bellum Magni Ducis, nonché il De clade illata Minervinensibus a civibus civitatis Andriae, testimonianze di una probabile attività di poeta a pagamento, che componeva su commissione delle città, nel quadro di quel fenomeno in precedenza già ampiamente trattato che fu l’autorappresentazione dei paesi, che volevano rafforzare e nobilitare il proprio senso di identità municipale tramite il ricorso ad episodi della storia, documentata o quasi mitologica che fosse. Infatti nel primo poemetto era evidente l’intento della città di Cerignola di esaltare il ruolo decisivo da essa avuto nel conflitto francospagnolo di inizio Cinquecento, quando le truppe spagnole sconfissero definitivamente le truppe francesi, dando inizio alla dominazione spagnola con l’istituzione del Viceregno di Napoli. Il poemetto rappresentava, altresì, anche un modo di sottolineare la fedeltà della città di Terra di Bari alla corona spagnola, sin dagli inizi della dominazione iberica. Si potrebbe pensare che la commissione dell’opera in questo periodo (intorno alla fine degli anni Settanta del Cinquecento) assuma una rilevanza maggiore in quanto, in questi anni, fermenti di ribellione e spinte autonomistiche incominciavano ad emergere in alcuni domini di Filippo II. Un poema che esaltasse la vittoria spagnola rappresentava, quindi, in questi anni un modo per schierarsi su posizioni filo-governative e realiste. In ogni caso, il poemetto riscosse un successo tale da indurre i signori di Barletta, città che aveva avuto un ruolo parimenti importante a quello di Cerignola nel conflitto franco-spagnolo, a conferire la loro cittadinanza al giovane poeta.
Il secondo poemetto testimonia l’attività prestata dal poeta in favore della città di Andria nel corso delle sue controversie con Minervino prima e poi con Trani. Spesso le città ricorrevano all’attività dei letterati per esaltare la propria importanza o quasi come avvocati difensori nel corso di dispute con altre università, con una pratica pratica era consueta anche tra gli ecclesiastici, come testimoniato, un secolo dopo, dal già citato caso materano di Donato Venusio.
In ogni caso risulta che il padre volle che queste prove della precoce genialità del figlio fossero stampate ma «dopoi perchè detto mio padre andò a governatore in Potenza, et io nel istesso tempo andai nelli studi di Salerno, resto detto poema [il Bellum Magni Ducis ] senza passare più avanti. Hora, dopo tanto longo tempo, essendomi di nuovo capitato tra le mani, ho voluto inserirlo in questo volume, acciò la memoria di detto poema heroico e tanta bella fatigha non si perda»[128]. Si laureò quindi in giurisprudenza a Salerno e divenne dottore in utroque jure [129].
Un’ulteriore testimonianza dell’attività giovanile del Cenna risulta la Exhortatio ad Christicolas ut armis inter se positis, adversus Turchas bellum gerant [130]. Anche se il tema dell’ Exhortatio è quello dell’esortazione, appunto, a tutti i cristiani a combattere i saraceni infedeli, sicuramente il poema risale allo stesso periodo degli altri poemi latini già citati sopra, cioè il 1575-76, anche perché al tempo della battaglia di Lepanto (1571) Giacomo aveva solo undici anni[131].
Si possono, comunque, distinguere nella produzione letteraria del Cenna due filoni: quello giovanile, costituito dai poemetti latini a carattere celebrativo, influenzati dall’umanesimo e dall’opera letteraria del proprio padre, e quello successivo, che emerge nella Cronica, influenzato dalle nuove esperienze seicentesche, come testimoniato dal fatto che l’autore non ricorse più all’uso del latino, per adoperare, invece, soltanto il volgare, sia pure infarcito di latinismi[132].
3. Da storiografo ecclesiastico adoutsider
In seguito il Cenna perfezionò gli studi a Napoli ed a Roma e, tornato a Venosa, dopo aver aperto una scuola di diritto (nella quale insegnava le Istituzioni di Giustiniano), fu nominato canonico ed arcidiacono del locale Capitolo Cattedrale[133], quindi diventando “porzionario” della ricettizia venosina.
Nella società meridionale dell’età moderna un ruolo importantissimo fu svolto dalla suddetta chiesa ricettizia, un associazione di preti del luogo che amministravano un patrimonio laicale e che erano stati eletti dai comuni o dalle famiglie importanti del luogo. Il numero dei partecipanti poteva essere limitato o illimitato ed era stabilito dagli atti di fondazione o dagli antichi statuti.
Il vicario curato, che veniva eletto dai componenti della ricettizia, svolgeva le funzioni di parroco ma la nomina non era a vita. Un altro ruolo importante era quello svolto dall’arciprete, che aveva tra l’altro il compito di affiggere davanti la sagrestia la convocazione dell’assemblea ordinaria, che si svolgeva ogni settimana; per poter procedere nella discussione dei punti all’ordine del giorno e per poter poi votare bisognava che fossero presenti almeno la metà dei porzionari, con voto segreto.
La preparazione morale, religiosa e culturale dei componenti era spesso assai scadente e non assolutamente paragonabile a quella che offrivano i concorrenti seminari. Spesso, infatti, le nomine avvenivano grazie a legami di parentela con potenti a cui importava sopratutto il proprio benessere economico e non che il porzionario avesse effettivamente una vocazione sincera; d’altronde molto spesso gli stessi chierici erano amministratori solerti e venali non meno dei loro parenti laici: difatti i sacerdoti partecipavano direttamente alla gestione del patrimonio controllato dalla ricettizia, tramite la figura del procuratore generale del Capitolo, l’ultimo sacerdote ordinato e che veniva nominato ogni anno a metà agosto e che doveva presentare il bilancio entro dicembre alla supervisione di due razionali, che avrebbero eventualmente proceduto ad approvarlo.
Altre figure importanti erano il sagrestano, che aveva il compito di riscuotere censi ed affitti, il procuratore ad lites che aveva il compito di occuparsi delle controversie giuridiche inerenti il capitolo e, infine, i procuratori deputati, con il compito di divisione degli introiti tra tutti i membri della ricettizia, ai quali tutti venivano assegnati a rotazione terreni da gestire in prima persona; e per svolgere meglio questo compito il porzionario aveva l’obbligo di residenza nel luogo natio[134].
Il Cenna si dedicò, quindi, dal 1614, su richiesta del vescovo Perbenedetti, alla compilazione della cronotassi dei vescovi della diocesi di Venosa[135] da aggiungere in calce alle costituzioni sinodali, dando vita ad un’operetta, i Nomina episcoporum, qui pro tempore praefuerunt Ecclesiae Venusinae, che fu apprezzata dal vescovo, il quale, due anni dopo, gli commissionò una storia della città. Per attingere a fonti adatte a questo suo lavoro, il Cenna ottenne il permesso di consultare l’archivio vescovile[136], tuttavia, probabilmente, incautamente portando a casa alcuni documenti. Infatti, mancando alcuni documenti dall’archivio della Cattedrale, Perbenedetti mandò i procuratori del Capitolo e gli arcipreti Angelo Spata e Giovanbattista di Santa Lucia nello studio del Cenna, riprendendosi le carte consultate:
Die septima mensis iunii 1616. Episcopus Andreas Perbenedictus inter cet(era) mandauit do(mi)no Angelo Spatae Archp(resbyte)ro et procuratoribus R(eueren)di Capituli quod quam citius sint cum do(mi)no Ioanne Babtista De Sancta Lucia, ac accedant ad studium Do(mi)ni Iacobi Cenna, in ipsoque videant si aliquae sint scripturae ipsius R(eueren)di Capituli; si quae fuerint, extrahantur, et ab ipsis procuratoribus bene conserventur; et omnia in inventario R(eueren)di Capituli reperta ponantur[137].
Il canonico se ne risentì come di un attacco contro la propria dignità di onesto studioso e, con le sue proteste, si fece nemico Perbenedetti, a cui il poeta portò rancore fino alla morte del vescovo nel 1635[138], come traspare anche dalla differenza tra le due biografie da lui scritte sul vescovo: in quella prima dell’incidente viene descritto in termini positivi (tant’è che Cenna esalta il suo impegno in molte opere benefiche e gli augura anche una lunga vita) in quella successiva viene dipinto come «homo seuero e crudele»[139].
Conseguenza dell’incidente fu anche la destituzione del Cenna dall’incarico di arcidiacono da parte del vescovo Perbenedetti. Invano egli tentò, in seguito, di rientrare nelle grazie dei due successori di Perbenedetti (Frigerio per un solo anno e Conturla dal 1636 al 1640), dedicando loro poemi in latino ed in volgare inclusi nella Cronica nella sezione relativa ai vescovi di Venosa[140]. In realtà, sembrerebbe che due sonetti riportati dla Cenna come da lui scritti in onore di Frigerio e Conturla, oltre ad altri tre sempre allegati alla Cronica, sono da attribuire ad altri autori, anche se il letterato venosino li ha spacciati per propri per esaltare la sua abilità poetica[141]. Che, inoltre, il Cenna avesse quest’acrimonia nei confronti di altri “colleghi” appare evidente da un episodio avvenuto proprio in occasione delle celebrazioni per l’ingresso in diocesi del Frigerio:
E perche un Pedante forrastiero che staua in spinazola s’ hauea uantato di questo Ill(ustrissi)mo Vescouo uoler ouationi, e di fare uoler Epigramme in lode di quello, accio fusse co(n)culcata l’ Arroganza di q(ue)sta Bestia Pedante, Io D. Jacouo Cenna ordinai che ad ogni Arco Triumphale se incitasse l’ uso delli infitti sonetti[142].
Eppure, nonostante tanto impegno, i prelati non presero in considerazione la richiesta di reintegra a porzionario, come risulta evidente dalle parole dispregiative e sarcastiche con le quali il Cenna descrisse anche i successori di Perbenedetti; in particolare, di Conturla si annotava che:
attese sempre a darsi buon tempo, non usceua mai di casa, ma solo attendeua a magnare, e bere e dormire, ch’era introdotto il prouerbio di esso, per qualsiuoglia negotio: Fati uuoi. Finche ammalatosi grauemente, per consulta dei medici, doue recarsi in Napoli, dove nel monasterio dei Buoni fratelli fini sua uita a di due di maggio 1640[143].
Questa sua annotazione sulla morte del vescovo Conturla è, peraltro, l’ultima testimonianza scritta dal Cenna, che, non menzionandone il successore, deve essere senz’altro morto poco dopo, anche perché ormai ottantenne[144].
Capitolo Quarto LACRONICA ANTICA DELLA CITTÀ DI VENOSA
1. Un’opera “mutilata”
Il manoscritto che contiene quanto scritto dal Cenna è andato perduto: il volume conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, sotto il titolo Cronica Antica della città di Venosa, è una copia degli inizi del Settecento: alcuni interventi sul manoscritto, scritti con una grafia diversa da quella che caratterizza la maggior parte di esso, sono attribuibili verosimilmente alla mano del canonico Giacinto Bove, che vi apportò quindi alcune modifiche, come, ad esempio, l’aggiunta alla biografia del vescovo Frigerio.
Esso, comunque, si presenta come un’opera di fatto “mutilata”, poiché, oltre a numerose pagine interne, sono andate perdute sia la parte iniziale che la parte finale del volume. All’inizio dell’opera, infatti, doveva esservi quantomeno una dedica al committente originario della cronaca, cioè il già più volte citato Perbenedetti. Inoltre la descrizione davvero concisa della città fa presupporre che vi dovessero essere dei fogli iniziali contenenti una relazione geografico-storica su Venosa e sulla sua importanza che giustificasse la concisione delle pagine del primo capitolo a noi giunte. Parti del manoscritto che presentano mutilazioni dovute al tempo sono presenti in quasi tutti i capitoli del libro, come un’interruzione improvvisa nella narrazione è riscontrabile nel capitolo autobiografico[145], che si interrompe all’improvviso con la narrazione del suo viaggio a Salerno per motivi di studio.
Ovviamente tra il manoscritto conservato a Napoli e quello pubblicato da Gerardo Pinto nel 1902 si riscontrano numerose differenze: in primis Pinto effettuò numerosissimi tagli in più capitoli, modificando, inoltre, l’ordine originario dei capitoli e nemmeno utilizzando precisi raggruppamenti tematici, aumentando ulteriormente il senso di trovarsi di fronte ad un’opera incompiuta e scritta senza una sia pur sommaria idea di quale avrebbe dovuto essere il risultato finale. Infatti la prima impressione che lo scritto di Cenna – come edito nel 1902 - trasmette è quello di un coacervo confuso di notizie prese da opere di autori precedenti, in particolare Achille Cappellano, dal mito e della storia, ma senza il rigore scientifico dello storico di professione: difatti molto spesso si riscontrano errori nelle date riguardanti eventi storici spesso non marginali, anche se puntualmente corretti da Pinto nel 1902.
Un’altra significativa differenza tra il manoscritto di Cenna e l’edizione a cura di Pinto consiste nel fatto che lo studioso spesso deliberatamente decise di tagliare alcune parti integranti del testo scritto dal Cenna, soprattutto nelle poesie, per lo più in latino, composte dal canonico e dai componenti dell’Accademia dei Piacevoli e dei Rinascenti, giustificando questa sua operazione con il fatto che tali sonetti non aggiungessero nulla alla cronaca. Inoltre spesso è riscontrabile il fatto che Pinto suddividesse in due parti un unico capitolo originario, collocando poi una delle due parti in un capitolo diverso del manoscritto del Cenna con cui il testo dimezzato da Pinto ha poco in comune[146].
Le parti del manoscritto tagliate da Pinto nel 1902 sono le liriche epicooccasionali (Bellum Magni Ducis [147] ; Factum post Victoriam Magni Ducis 4; De clade illata Minervinensibus a civibus civitatis Andriae [148] ; De Pinellorum liberalitate qua in maxima annonae caritate in urbe Baroli magnificentissime usi sunt [149] ; Exhortatio ad Christicolas ut armis inter se positis, adversus Turchas bellum gerant [150] ), i versi in lode di Frigerio e Conturla[151], il Discorso della poesia di Annibale Caracciolo[152], la cronaca sulle Accademie venosine (con la descrizione delle prime sei giornate di riunione dell’Accademia dei Rinascenti[153] e molte notizie riguardanti l’Accademia dei Piacevoli[154] ).
La Cronica Antica della città di Venosa (anche se il titolo non sembra originale) risulta, dunque, così composta[155] [156] [157]:
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Tab. 4. Le sezioni del manoscritto della Cronica Antica della Città di Venosa.
2. Il contenuto della Cronica
Il primo capitolo[158], le cui pagine iniziali sono andate perdute, si apre con una descrizione dell’antichità di Venosa che si può dedurre dai suoi grandi e bei palazzi e dalle case antichissime aventi croci risalenti all’età precristiana. Queste case, tra cui vi era quella cosiddetta del poeta Orazio, si trovano vicino alle mura delle città. Cenna si lamenta, inoltre, per lo stato in cui versano molti monumenti e statue risalenti al grandioso passato classico della città, iniziando, quindi, una disquisizione sulla storia venosina, partendo dalla distruzione ad opera dei romani per aver partecipato contro Roma nelle guerre sannitiche, condotta commiserando il maldestro tentativo delle città lucane e apule di contrastare un impero universale - certamente nell’ottica consueta, in campo storiografico in età spagnola, della difesa della fedeltà al potere centrale.
Cenna riferiva che Romani e Sanniti avevano un’origine comune, come testimoniava l’episodio del ratto delle Sabine; ipotizzava, quindi, che Venosa fosse stata fondata da coloni greci portati da Diomede, poi abitata dai Sabini ed infine dai Romani. Dopo la sottomissione a Roma fu ad essa fedelissima, comportandosi valorosamente nel corso delle guerre puniche, ospitando a proprie spese numerosi contingenti romani per anni ed aiutandoli nelle battaglie contro Annibale. Mentre molte delle trenta colonie romane in Italia si rifiutarono di appoggiare economicamente e militarmente Roma nel momento del bisogno, Venosa si comportò sempre irreprensibilmente, come dimostrava il fatto che alla città si dovesse la salvezza del console Marco
Varrone e dei pochi soldati superstiti della disatrosa battaglia di Canne del 216 a.C., oltre gli sbandati dell’esercito romano che vagavano nelle campagne vicine.
Dalla descrizione storica, poi, il canonico venosino passa a quella geografica della città, molto insistendo non solo sul classico topos della feracità, ma anche su elementi di protoindustrialità come l’estrazione dello zolfo e l’industria pastorale e vitivinicola. Nel solco di questa esaltazione degli elementi originari della terra venosina, il Cenna si rifece sicuramente ad una platea dei beni del Capitolo cattedrale, come comprovato anche dal fatto che registri l’esatta compassa tura (certamente compiuta dagli agrimensori incaricati dal Capitolo) del contado, riportando la cifra di 1.400 carra[159].
Nel secondo capitolo[160] si discuteva dell’origine del nome di Venosa, presentando, in uno sfoggio erudito non inconsueto alla storiografia del tempo, le varietà etimologiche dei nomi cittadini, per poi focalizzarsi sull’etimologia di diverse città pugliesi, soprattutto Foggia ed Altamura, anche se il manoscritto si presenta mutilo proprio quando il Cenna descriveva le possibili derivazioni del nome della propria città.
Segue, quindi, una descrizione delle mura della città e di come i romani usassero consacrare agli dei, o meglio, ai numi tutelari, le mura delle città da loro fondate: a testimonianza di ciò viene citato un passo di Plinio e il racconto virgiliano di Enea che, fuggendo da Troia in fiamme, portò con se i numi tutelari della città, portandoli poi in un tempio della dea Vesta a Roma, una volta fondata la città. Il Cenna credeva che un ruolo di primo piano per quanto riguardava la fondazione di Venosa, l’avesse avuto Elio Restitutiano, persona potente e ricchissima che, a ricordo della consacrazione delle mura, fece erigere un’epigrafe sotto la quale, secondo la tradizione, si trovava il tesoro del Lucullo ricordato nell’iscrizione marmorea suddetta, che non fu mai, comunque, ritrovato, in quanto non si sapeva dove si trovava la pietra scritta al di sotto della quale riposava il tesoro.[161]
Nel terzo capitolo[162] si discuteva, iniziando l’argomentazione voluta dal committente, delle chiese presenti in Venosa, sulla base delle quali si poteva dedurre l’antichità della città, in particolare della Cattedrale, edificata da Pirro del Balzo nell’anno 1470, dopo che egli decise di distruggere il vecchio duomo, che si trovava nella piazza grande, per edificare il suo castello; allora Pirro promise al vescovo Nicola Geronimo Porfido di costruire un altro duomo ma, poiché, procrastinava ad oltranza il momento di inizio della costruzione fu minacciato di scomunica da parte del vescovo. La chiesa fu infine costruita nel posto migliore della città, ma risultò mancante del campanile e dell’intonaco.
Questa cattedrale ebbe da sempre la dignità vescovile e comprendeva Forenza, Spinazzola e Maschito. Segue, poi, una descrizione interna della cattedrale ed una lunga descrizione delle innumerevoli reliquie presenti in essa, certamente tratta da visite pastorali effettuate dai vescovi contemporanei allo storiografo, che, ancora, si dilungava a descrivere le cappelle di santi, vescovi e famiglie illustri della città.
Il quarto capitolo[163] riguarda la cronotassi dei vescovi di Venosa, desunta dai Nomina dello stesso Cenna ed ampliata, dal primo vescovo, in ordine temporale, fra Filippo, vescovo di Venosa nell’anno 238, agli altri 43 vescovi fino ad arrivare all’ultimo, Gaspare Conturla, che fu vescovo dal 1636 al 1640. Nel principio del capitolo, comunque, come excusatio non petita, il Cenna giustificava l’incompletezza della lista adducendo come spiegazione la mancanza di notizie su molti vescovi non riportati nell’elenco, che probabilmente furono anche persone molto importanti, causata dalle molte guerre che in passato avevano colpito la città. Il canonico, quindi, affermava di aver riportato i nomi (ed eventualmente anche i cognomi e le loro città di origine) dei vescovi di cui si avessero notizie nei documenti dell’archivio della cattedrale, in alcuni atti antichi e in documenti conservati nei due monasteri femminili della città.
Questo discorso introduttivo giustificava i salti temporali che a volte egli compie e che, in alcuni casi, riguardano più secoli, tra il nome di un vescovo e quello del suo successore. Comunque, questo capitolo sarebbe stato steso inizialmente nell’anno 1614, quando i Nomina furono commissionati al
Cenna dal Perbenedetti come appendice al suo Synodus. Successivamente Cenna lo rifece per la Cronica, aggiungendovi correzioni, come quella del vescovo Giovanni vissuto al tempo di Totila e non di Attila (una svista di più di un secolo) come aveva riportato monsignor Pietro Rodolfo ed aggiunte come quelle dei nomi di Frigerio e Conturla, che, ovviamente, non erano ancora diventati vescovi al tempo della prima stesura di questo capitolo, così come anche la parte finale relativa alla morte del Perbenedetti (1634).
Il quinto capitolo, piuttosto breve, riguarda le tre chiese di San Domenico, San Francesco e Sant’Agostino[164]. La prima conteneva una croce d’argento che, portata a Napoli al tempo di re Alfonso di Aragona per essere fusa e diventare pezzo d’artiglieria a causa della penuria di metalli dovuta alle molte guerre che minacciavano il Regno di Napoli, non si riuscì a sciogliere. Per questo miracolo la croce fu rimandata a Venosa in questa chiesa, che fu fatta edificare da Pirro del Balzo e che presentava, al tempo del Cenna, cappelle, un organo ed un campanile che fu oggetto di diversi interventi di restauro, dopo aver subito danni in seguito a numerose calamità naturali. Il monastero annesso aveva molte celle per i padri, giardini e cisterne d’acqua, nonché molte vigne e terreni fertili.
La seconda chiesa, anch’essa con monastero annesso, possedeva al tempo di Cenna territori, vigne e giardini di gelsi, nonché reliquie quali il cilicio di san Francesco e un frammento della croce. Era presente anche una cappella eretta dal canonico Manilio Cappellano nel 1584, un altra dei Piumbaroli ed un’ altra fatta erigere da Muzio Mazzeo. Due confraternite erano presenti in questa chiesa.
La terza chiesa aveva anch’essa terre, vigne, giardini e due confraternite. Era presente anche una pietra con inciso il giglio di Francia, testimonianza tangibile dell’occupazione angioina del Mezzogiorno di pochi secoli prima. Quivi era inoltre venerata una reliquia, un crocifisso, che, quando crollò il soffitto della chiesa anche sulla trave a cui era appeso il crocifisso, ne uscì miracolosamente intatto.
Il sesto capitolo riguarda l’argomento politico della storia delle dominazioni che si succedettero nell’arco temporale dal 1266 al 1621[165], per poi focalizzarsi, proprio a scopo di completezza, su una descrizione del Regno di Napoli, desunta esplicitamente dalla descrizione del Beltrano, cui segue poi una breve esposizione delle dominazioni succedutesi dal tempo della caduta dell’impero romano sino all’inizio della dominazione spagnola. Viene poi descritto il simbolo araldico del Regno, desunta, negli assi portanti, dalla Historia della Città, e Regno di Napoli del Summonte, per quanto concerne la capitale e dal Beltrano ed altri descrittori per le arme delle dodici province[166].
A causa di una mutilazione, la sezione successiva risulta particolarmente oscura: essa inizia con una descrizione della città di Pisa in Grecia, l’antica Olimpia, per poi passare ad un’esposizione della storia dei giochi olimpici, una breve biografia di Attalo, la citazione di Orfeo e Giove, la guerra tra Pompeo e Cesare, Virgilio e Terenzio.
L’ottavo capitolo è brevissimo e si occupa della chiese intra moenia della città di Venosa. Alcune di esse, quattro, furono costruite dai bizantini, come testimoniano i nomi dei santi a cui sono dedicate (Basilio, Demetrio, Elena, Venere). Vi erano poi altre sei chiese parrocchiali: quelle dei santi Antonio, Andrea, Nicola della Donnabella, unita poi a quella di Santo Cosmo, Nicola della Campanella, Nicola de Iudicibus e Marco. Vi erano, poi, altre due chiese non parrocchiali: quelle di Santo Michele Arcangelo e di Sant’Anna madre di Maria[167]. Il nono capitolo era, in tale alveo, dedicato ai santi nati o martirizzati a Venosa[168] e, in questa direzione, il Cenna riportava in extenso la Passio dei dodici santi martiri, ricavata dall’archivio vescovile di Potenza[169], che egli doveva possedere fin dall’epoca del governatorato del padre Ascanio.
Proseguendo in tale esposizione periegetica, il Cenna elencava, poi, le chiese diroccate presenti nel territorio esterno alle mura cittadine e gli oratori[170]: Santa Maria in Pasquale; Santo Ciriaco (successivamente denominato Chirico); San Pietro dell’Olivento; San Pantaleo; San Trifone; San Sebastiano; Santa Maria della Scala; Santa Maria della Pace; Santa Maria di Montalbo; Santa Marina (appartenente all’ordine dei Cavalieri di Malta); Sant’Antonio (fatta demolire nel 1553 perché poteva essere d’intralcio all’opera di fortificazione di Venosa); Santa Vergine della Grazia (chiesa che fu costruita nel 1624 in seguito ad un miracolo della Madonna che fece avere al popolo la pioggia); Santa Maria in Castello; San Rocco; di San Leonardo; Maddalena (diroccata già al tempo di Cenna); SS. Trinità; San Clemente (anticamente convento di frati ed anch’essa a quel tempo diroccata); Santa Maria in Elice; Sant’Oronzo (diroccata anch’essa); San Lorenzo; San Pietro del Piano; Santo Stefano; Santo Nicola della Strada Reale. Inoltre viene menzionato nel capitolo un luogo distante tre miglia e mezzo da Venosa, denominato “Santo Sciorsio”, perché anticamente lì si trovava il monastero di San Giorgio e, infine, elencati cinque oratori cittadini.
Il dodicesimo capitolo[171] ha per filo conduttore gli acquedotti e le fontane della città, sottolineando per l’ennesima volta l’antichità e l’importanza della città in base alle caratteristiche naturali già affrontate in principio d’argomentazione e soffermandosi, certamente in base alla Descrizione del Cappellano, sugli abbondanti corsi d’acqua del territorio circostante a Venosa. Inoltre il Cenna narrava una leggenda sulle origini dei tre nomi con cui era denominato l’attuale Monte Caruso (situato tra gli attuali comuni di Avigliano e Filiano), secondo cui tre spedizioni di venosini partirono alla ricerca di acque da portare in città: la prima, giunta alle fonti sull’attuale Monte Caruso, vide un toro che si abbeverava e perciò denominò il monte, Acquatoro; la seconda, giunta alle fonti, sentì cantare un uccello volgarmente denominato “cucco” e perciò il monte assunse il nome di Monte Cucco; la terza vide che il monte era brullo come la testa di un uomo calvo e perciò lo chiamò Monte Caruso, che fu poi la denominazione che soppiantò le altre due. Seguiva, poi, un elenco delle fontane cittadine: la fontana di Messer Oto, risalente al 1313-14; quella di San Marco; quella fatta costruire dal duca di Venosa Pirro del Balzo; quelle dette volgarmente “romanesca” e di “Canalicchio”, anche se il Cenna concludeva il capitolo elencando ben 69 altre fontane presenti nel contado, ancora una volta certamente basandosi, data la completezza dell’informazione, su una platea.
Il tredicesimo capitolo, brevissimo, ha per argomento lo stemma araldico della città di Venosa: in un campo d’oro si trova un Basilisco con un piede appoggiato alla gola e la coda che finisce a forma di coda di serpente. La città si attribuì come proprio simbolo questo animale metà uccello e metà rettile in tempi tutto sommato abbastanza recenti perché al tempo della dominazione romana il simbolo di Venosa era la dea Venere, a cui la città fu dedicata. Il basilisco fu adottato dopo che, secondo un’antica leggenda, ne venne ucciso uno che dimorava nella chiesa di San Giovanni Battista. Seguono svariate descrizioni della bestia mitica dovute tutte ad autori classici come Galeno, Senocrate, Eliano, Plinio, Aristotele, Plutarco e di come veniva denominato e rappresentato dai greci e dagli egizi, concludendo che il basilisco non sarebbe altro che il caradrio, un uccello leggendario che aveva il potere di decretare la morte o la salvezza per gli infermi[172].
I quattro capitoli successivi introducevano una sezione più propriamente storico-politica, riguardante le prerogative della nobiltà di Venosa[173], per poi continuare con riferimenti alle guerre ed ai privilegi concessi all’Università Venosina in un arco temporale di 127 anni (dal primo del 1298 all’ultimo del 1425), i 2 concessi dai re Alfonso e Ferdinando della dinastia aragonese nel biennio 1458-1459 e l’unico concesso dal duca di Venosa Pirro del Balzo nel 1458[174].
Il diciottesimo capitolo, anch’esso brevissimo, ma significativo per i “segni d’onore” cittadini, riguarda la battaglia di Lepanto del 1571, con una descrizione (tratta dal Summonte quasi parola per parola) della battaglia navale e del ruolo che in essa vi svolsero cinquanta tra venosini, e altri abitanti di paesi vicini al comando del capitano Silvio Maranta, che si distinse per impeto guerresco nella battaglia e fece in tempo a ritornare in Italia, dove morì tra le braccia di suo figlio, da cui fu poi portato a Venosa e lì seppellito nella cattedrale. Cenna riferisce, altresì, che il valore del capitano fu lodato addirittura da don Giovanni D’Austria[175].
A questo punto, quasi come un’aggiunta posteriore, nel f. 112 si ha un semplice abbozzo di un’autobiografia incompiuta dell’autore, probabilmente inserita a questo punto poiché l’autore aveva premura di evidenziare la propria fedeltà al sovrano, narrando della sua nascita, della sua ordinazione sacerdotale, dei suoi studi e delle sua prime composizioni poetiche, ma a questo punto il testo si interrompe bruscamente, inserendo, successivamente un testo in latino che tratta delle guerre in Italia al tempo di re Ferdinando d’Aragona e del capitano Consalvo de Cordoba, il cosiddetto Bellum Magni Ducis [176], seguito da un altro poemetto, il seguito del precedente, intitolato appunto Factum post victoriam Magni Ducis, che riguardava la fine della presenza francese nel Mezzogiorno[177]. Di seguito, alcuni poemetti minori dello stesso Cenna, prove giovanili, come detto, che il canonico volle trascrivere affinchè non andassero perduti: un poemetto molto breve dal titolo De Pinellorum liberalitate, qua in maxima annonae charitate in urbem Baroli magnificentissime usi sunt [178] ; il De clade illata Minervinensibus a civibus civitatis Andriae, che molto probabilmente Cenna scrisse su commissione della città d’Andria per difenderla nelle sue controversie con le città di Minervino e Trani[179] ; un sonetto di esortazione in latino alle potenze della cristianità affinché superassero le loro discordie interne per unirsi nella lotta contro il comune nemico ottomano[180].
Il venticinquesimo capitolo riguarda gli uomini venosini che si distinsero nel campo delle lettere, da Orazio ad altre glorie letterarie della città: Eustachio, Luigi Tansillo, Orazio Solimele, Horatio de Gervasio, Antonello Truono, Pandolfo Tumasino, Gioanne Balbo, Bartolomeo Vita, Francisco Grosso, Melchiorre di Simone, Bartolomeo Maranta, Roberto Maranta, Geronimo e Angelo Speraindeo, Silvio Maranta, Scipione di Bella ed infine anche Ascanio Cenna, padre dello stesso Giacomo[181]. In questa carrellata di uomini illustri non mancano i “dottori” in legge e gli uomini di guerra[182], mentre, quasi a chiudere il cerchio, il ventisettesimo capitolo consiste in una brevissima trattazione delle undici famiglie nobili antiche di Venosa[183].
Il ventottesimo capitolo[184] è tutto dedicato a quella prima esperienza di circolo letterario a Venosa che fu l’Accademia dei Piacevoli, istituita nel 1512 da Scipione de Monti, capitano della milizia a cavallo e cultore di letteratura, che la istituì su suggerimento del padre stesso di Giacomo, Ascanio, che prese il nome di accademico Grave. In totale diciassette tra uomini uomini di legge, dottori e teologi vi facevano parte e si riunivano tutti i giorni nello studio di Achille Cappellano. Viene, poi, riportato per intero un sonetto risalente a quei giorni di cui nessuno all’inizio seppe l’autore, in quanto era stato lasciato all’ingresso: in seguito si scoprì che esso era opera di Manilio Cappellano, che, infatti, fu chiamato accademico Incognito. Fu fatto scrivere un sonetto di risposta dall’accademico Bidello, alias Orazio Caputi e il Principe de’ Monti ordinò, poi, che ognuno dei componenti si cimentasse in una risposta al sonetto dell’Incognito, anche se Cenna informa che non poté prenderne visione perché dovette recarsi a studiare nella città di Salerno. Viene, poi, riportato il testo di un’esortazione fatta dal Principe dell’accademia Scipione de’ Monti ai componenti l’accademia di dedicarsi agli studi di poesia, arricchita da numerose citazioni di classici greci e latini, con la risposta dell’accademico Grave, il padre di Giacomo. Infine vengono riportati nel capitolo un discorso sulla poesia e una dissertazione sui classici.
Il capitolo conclusivo, peraltro il più lungo[185], è tutto dedicato all’esperienza di rifondazione dell’accademia letteraria venosina, avvenuta vent’anni dopo la prima, cioè nel 1612, su iniziativa del principe Emanuele Gesualdo.
3. Fortuna e metodologia del Cenna
Morto il Cenna, tutto l’insieme dei suoi scritti fu raccolto dal religioso Giacinto Bove, alla cui morte tali carte passarono alla famiglia Sozzi[186], che concesse la consultazione al vescovo Pietro Antonio Corsignani, il quale non lo utilizzò molto nella stesura dei suoi Monumenta Historica Selecta, pubblicati come integrazione storica alle costituzioni sinodali del 1728. Le carte Cenna passarono, poi, nelle mani di Eustachio Caracciolo che le usò per la stesura del suo Dictionarium universale totius Regni Neapolitani [187].
Seguì da allora un lungo periodo di oblio per l’opera del Cenna che, solo oltre un secolo dopo (nel 1870) venne riportata alla luce da Scipione Volpicella, il quale esaminò diligentemente il manoscritto, copiando i poemetti latini, di difficile lettura a causa del carattere con cui furono vergati dall’autore46 e scrisse anche una relazione sullo stato di conservazione del manoscritto e sul suo contenuto:
Codice cartaceo in folio di carte numerate 202, lacerate in gran parte e rappezzate, legato in pergamena. Esso è monco al principio ed alla fine. Contiene, come si legge in una carta, precedente alle numerate, una Cronica antica della città di Venosa. Trattasi dell’antichità di Venosa nelle carte (1-16); delle chiese della città (17-24); dei vescovi venosini (25-39); delle tre chiese di San Domenico, S. Francesco e S. Agostino (40-43); dei dominatori delle contrade del Reame di Napoli dal 1266 al 1621 (43-49); di molti particolari del sopraccennato Reame e delle provincie di quello (50-59); delle chiese parrocchiali di Venosa (60-61); dei santi martirizzati e dei santi nati in Venosa (62-67); con la leggenda: Vita et passio duodecim fratrum ex archivo cathedralis ecclesiae civitatis Potentiae (67-71); delle chiese diroccate fuori Venosa e degli oratorii (72-77); degli acquidutti e fontane dentro e fuori la città(78-84); dell’arme del Basalisco di Venosa (85-87); delle prerogative della nobiltà di Venosa (87-91); delle cacce, delle famiglie nobili e dei privilegi della città (92-96); delle guerre degli antichi venosini contra i Romani (97-107); della guerra di Ferrante d’Aragona contra i Francesi nei dintorni di Venosa (108-109); della battaglia di Lepanto nel 1571, ove intervennero più che cinquanta del battaglione di Venosa sotto il loro capitano Silvio Maranta (110-111); di Giacomo Cenna nato nel 1560 d’Ascanio, e canonico di Venosa, autore di questo libro (112), il quale vi trascrive il poemetto latino intitolato Bellum Magni Ducis (113-121); un altro intitolato Factum post victoriam Magni Ducis (121-124); un terzo de pinellorum liberalitate, qua in maxima annonae charitate in urbem Baroli magnificentissime usi sunt (121-125); un quarto de clade illata Minervinensibus a civibus civitatis Andriae (126-132); ed exhortatio ad christicolas ut, armis inter se positis, adversus Turchas bellum gerant; al cui piè si legge: Finis. D. Iacobus Cenna Venusinus I.U.D. Arch. et canonicus eiusdem Cathedralis Ecclesiae (133); degli uomini di lettere di Venosa (134-143); dei dottori di leggi, medici, notari ed armigeri di quella città (144-153); delle famiglie antiche e nobili venosine (154-156); dell’Accademia dei Piacevoli, istituita al 1592 da Scipione de’ Monti (157-170); e di quella dei Rinascenti, istituita al 1612 dal principe di Venosa Emanuele Gesualdo (171-202), l’una e l’altra in Venosa, con molti componimenti in prosa ed in versi latini e italiani letti in quelle accademie. Importante è questo Codice non pure per le molte notizie riguardanti Venosa, ma ancora pei latini poemetti o metriche storie, appartenenti ai successi di Puglia dei primi anni del secolo XVI, che il Cenna ci ha conservato[188].
Poco dopo, all’inizio del XX secolo (1902), l’erudito venosino Gerardo Pinto attuò un processo di selezione dei dati raccolti nel manoscritto, privilegiando la parte riguardante la storia più recente di Venosa, perché integra e molto precisa riguardo a nomi, fatti e notizie che difficilmente si potevano trovare in altre fonti, quella riportante i nomi delle famiglie antiche della città, dei letterati e dei soldati famosi venosini e quella descrivente la due accademie a lui contemporanee[189]. Il Pinto decise di omettere la parte relativa alla storia antica di Venosa, perché meno pregevole ed importante ed anche perché risultava mancante di alcuni brani[190], oltre al fatto che le informazioni raccolte in questa sezione si potevano facilmente desumere dagli scritti di storia di altri autori venosini. L’opera venne definita da Pinto come un semplice “ammasso” di notizie, pieno di «gonfiezze retoriche e di patetiche digressioni; inoltre spesso vi è il ricorso a frasi tratte dal lessico popolare»[191]. Il lavoro effettuato da Pinto avvenne sotto la supervisione ed il beneplacito, nonché l’interessamento, di Giustino Fortunato, come testimonia la lettera scritta da Pinto a Fortunato in data 3 novembre 1899:
Stimatissimo Amico, era mio desiderio riordinare in certo modo la Cronaca Venosina del Cenna, che, molti anni or sono, trovandomi per i miei studi in Napoli, potetti copiare in quella Biblioteca Nazionale. Premurato gentilmente da Voi, che con tanto zelo attendete alla divulgazione dei patrii ricordi, mi sono accinto a questo lavoro, che a Voi stesso offro, nel solo intento di far cosa grata e conforme pure al desiderio vostro. Pubblicando il libro, era necessario presentarlo ai cortesi lettori con una prefazione qualunque; nella quale ò voluto brevemente far cenno della famiglia dell’Autore, della sua vita, ed infine della sua opera, spigolando, come meglio ò potuto, per lo più nell’istesso suo manoscritto. Vi prego quindi voler accogliere il poco, che vi presento, con quella bontà e gentilezza d’animo che Voi spiegate in tutti i nobili propositi; fiducioso « che se non l’opra il buon volere mi vaglia » come diceva il Tansillo, a rendervela più accetta e gradita. Ossequiandosi con sincero affetto, mi dico V.ro obblig.mo e dev.mo Gerardo Pinto[192].
In realtà, se pure di un coacervo si tratta, almeno a prima vista, l’opera del Cenna risulta, come detto, altamente politicizzata. La commissione dell’opera da parte di Perbenedetti, infatti, fu fatta per supportare una politica di ripristino del potere ecclesiastico e della sua influenza sulla comunità e sui signori feudali, quei Gesualdo che avevano perseguito una politica di autonomia nei confronti dei dettami della Controriforma[193]. Con l’estinzione della famiglia Gesualdo ed il passaggio dei poteri feudali ai Ludovisi, il vescovo Perbenedetti decise di incrementare il potere di cui disponeva avviando un’opera di costruzione di cappelle, oltre ad incaricare Cenna di redigere la lista dei vescovi, per redigere un testo di cronaca storico-ecclesiastica. Storia della città e storia della diocesi si intrecciavano, anche perché le storie ecclesiastiche miravano a ricomporre la storia interna degli ordini e a giustificare la presenza ed il ruolo direttivo dello spazio sacro ed erano, inoltre, testimonianze tangibili della vitalità del potere della Chiesa[194].
Sin dalle prime pagine della cronaca si nota come Cenna insista sul decoro urbano di Venosa, sottolineando la grandezza e la bellezza dei palazzi edificati nella città, espressione tangibile e materiale della potenza di Università, chiesa e potere feudale[195]. Anzi, rifacendosi al topos della conservazione delle patrie memorie, Cenna legò l’autorappresentazione attraverso la descrizione dei monumenti della sua città alla necessità, da parte degli stessi poteri locali, di preservare i resti tangibili dell’antichità che avrebbero potuto conferire prestigio alla città, resti che spesso si trovavano in uno stato di degrado, come testimoniato dalle parole dello stesso Cenna[196]:
Considerando quelli, di continuo vi faccio un lagho di lacrime, scorgendo tante belle statue, tante bellissime pietre, tanti superbissimi sepolchri intagliati di varie e diverse scritture, e quelle essere state spezzate e diminuite che a pena si scorgono pezzi nelli moderni edifici[197].
In questa condanna dell’incuria in cui versavano molti monumenti cittadini è implicita anche la condanna alla nobiltà cittadina filo-spagnola ed assente dalla città ed è velata l’apologia della Chiesa che si configurava come l’unico autorevole e potente custode della città; infatti, più che sui palazzi nobiliari l’autore si soffermava sulle chiese e sulle cappelle[198].
Elemento fondante del potere della chiesa erano, infatti, gli edifici sacri e le reliquie di santi e martiri e ciò deve essere stato ben intuito da Perbenedetti quando affidò al Cenna la stesura di un’opera che esaltasse, tramite la descrizione storica, il ruolo della Chiesa nella conservazione dei luoghi sacri, delle gesta degli uomini illustri e degli uomini di fede[199]. Tale rappresentazione eroico-laica di Venosa avrebbe dovuto, per una sua felice riuscita, essere condotta, peraltro, senza attriti tra storico e committente, cosa che non avvenne e che determinò l’aborto di un’opera che rimase allo stato di abbozzo, «mal digerito coacervo di descrizione, storia e biografia»[200].
L’opera venne, infatti, sbozzata, per così dire, come una summa di tutte queste forme storiografiche, secondo un modello storico-descrittivo che l’autore, in quanto accademico-poeta e letterato, doveva sicuramente conoscere, e cioè quello di Strabone e di Summonte[201]. Cenna, dunque, disattese le aspettative di Perbenedetti fin dall’impostazione della sua opera, che tendeva a divenire discorso giustificativo non tanto della Chiesa, come avrebbe voluto Perbenedetti, ma della intera comunità laica, con un forte richiamo al passato come origine e perno della costituzione presente e tronco su cui si innestava il sentimento di fedeltà monarchica della città[202]: infatti, i topoi dell’antichità e della fedeltà al potere sono altra parte fondamentale della autorappresentazione cittadina nell’opera di Cenna, come testimoniato dal riferimento a grazie e privilegi, sopratutto nobiliari[203].
Nella rappresentazione apologetica del Cenna è possibile cogliere uno sviluppo in due direzioni: quella velatamente polemica, interna alla città, incentrata sulle patrie memorie e quella apologetica, quasi giudiziaria per l’accumulo notevole di prove, imperniata sulla descrizione di edifici e rappresentazioni tangibili[204].
Quello che è evidente è che quella del Cenna non può essere considerata né come una Istoria né come una Cronaca, quanto piuttosto come una raccolta di memorie a cui manca il concetto di svolgimento dei fatti[205]. Per questi motivi la Cronaca si configura come un testo che non è in grado di offrire un’immagine in sé e per sé della città, ma come una rappresentazione in cui era stato tentato di effettuare un connubio tra fonti religiose e sentimento civico, connubio non riuscito, peraltro, in quanto gli intenti di celebrazione laica della sua “piccola patria” furono preponderanti su quelli volti ad elogiare le istituzioni ecclesiastiche della città[206].
L’operazione che Cenna fece, dunque, fu quella di ricostruire la forma della urbs ideale, salvando dall’oblio i patrii fasti[207], con ampio ricorso al mito, che era il gemello della storia più antica di una comunità, e che spesso si fondeva con quest’ultima[208]. Una cosiddetta “Mitistoria”, questa, che faceva parte della mentalità e della formazione della classe dirigente colta dell’epoca, anche perché essa si dimostrava il terreno più utile sul quale esercitare un uso delle fonti che facesse salire alla ribalta della narrazione l’importanza di una qualsivoglia comunità[209]. La storia mitica della città formava con quella verificabile un insieme che dimostrava come fosse stata sempre costante, sin dai tempi più remoti, la grandezza degli eroi cittadini e come fosse sempre stata mantenuta fieramente una certa autonomia, rispettosa tuttavia del potere centrale ma che aveva consentito alla città, fin dai tempi della dominazione romana, repubblicana prima ed imperiale poi, di non ridursi ad uno stato di semplice sudditanza[210].
Proprio in riferimento al periodo di dominazione romana Cenna scrisse un’ampia parte della sua argomentazione-narrazione, una sorta di discorso apologetico con protagonista principale il console Claudio Marcello, il quale era per Cenna la prova vivente della «antiquità della città di Venosa», gloria cittadina, benché con la storia della città avesse ben poco a che fare (in effetti la storia della città è legata molto tenuemente a Marcello), e vir illustris [211] in quanto la tomba di Marcello (o quantomeno quella che era indicata come tale) era ben visibile tra i monumenti venosini, vicina al perimetro della città: essa era un sepolcro del quale resta solo il nucleo in opus cementicium, considerato fin dai tempi di Cappellano come il luogo di sepoltura del console caduto nei pressi di Venosa mentre con il collega Tito Quinzio Crispino si apprestava ad attaccare i cartaginesi[212].
Nel narrare la vicenda di Marcello l’autore menzionava esplicitamente il testo da lui studiato ed usato come fonte: si trattava della Vita di Marcello (facente parte della più vasta opera delle Vite parallele) di Plutarco, autore molto apprezzato dagli studiosi di storia del tempo e anche allora facilmente reperibile; Cenna non mancava inoltre di citare anche Valerio Massimo per dare maggiore completezza al proprio racconto, anche se in realtà usava quasi esclusivamente Plutarco, riportando quasi in maniera letterale passi della vita di Marcello, facendo quasi una parafrasi della traduzione che aveva sottomano[213].
La biografia di Marcello frutto del lavoro dell’accademico venosino risultava nettamente divisa in due parti: una prima, decisamente caratterizzata da uno stile e da un intento cronachistico vero e proprio ,che si configurava come un ritratto idealizzato di un personaggio dalle alte qualità morali e civiche ed una seconda che si delineava come un’esaltazione del carattere eroico del fondatore e delle sue maggiori imprese[214], nella direzione di sostenere che le virtù civiche insite nel carattere del condottiero si fossero poi trasmesse anche ai suoi “discendenti” venosini[215].
L’imitazione fedele del modello schematico di Plutarco è evidente fin dall’esordio, in cui veniva tratteggiato un ritratto ideale e vagheggiato del console romano di cui venivano esaltate le qualità belliche ed intellettuali, per passare poi alla descrizione delle sue imprese guerriere volte a scacciare Annibale ed i cartaginesi invasori[216]. Risulta, tuttavia, evidente una certa fretta di arrivare al momento culmine della narrazione, quello inerente la morte in battaglia del condottiero e, nel fare ciò, tendendo ad esagerare il ruolo di certi episodi nella vita del condottiero e, al contrario, ad ometterne altri, parimenti importanti ed utili a collocare precisamente l’evento focale.
La fretta deriva senz’altro dall’intento di nobilitare la storia antica di Venosa, che partecipò ad un evento storico importantissimo come la seconda guerra punica, sia pure in modo marginale e fortuito[217]: tale partecipazione veniva poi provata grazie alla figura storicamente accertata di Marcello, le prove del cui passaggio per questa landa dell’Apulia erano visibili nei resti funerari. Ovviamente, ad un certo punto la narrazione si discosta dalla adesione passiva al testo di Plutarco per porre l’accento più sull’importanza del console Marcello, tra i più grandi generali romani dell’epoca e considerato dai suoi stessi contemporanei e connazionali come il maggiore stratega della seconda guerra punica[218]. Venosa, in questo scontro tra le due grandi figure avversarie di condottieri, si sarebbe comportata da fedelissima, ma Cenna intuì che molto spesso nella storia antica non vi era più distinzione tra vero e falso, ma molte e diverse sfumature suscettibili di diverse interpretazioni e di strumentalizzazioni politiche[219].
L’antico, sia monumentale che relativo alle fonti scritte era il segno evidente della presenza della storia nella città di Orazio, di una storia non esclusivamente religiosa ma politica e quindi laica[220]. Marcello non viene, quindi, usato come esempio di eroe. ma come modello che esalta l’importanza strategica e civile di Venosa, nel cui codice genetico di città erano rimasti impressi i valori e le virtù di quel “leggendario fondatore” assunto come l’esempio vivente e visibile di un rapporto costante di fedeltà al potere centrale, che sarebbe stato caratteristico di tutta la storia successiva della città, e di grandi doti culturali[221].
Cenna, dunque, voleva dimostrare come Venosa fosse stata scelta da Marcello come possibile campo di una battaglia che non avvenne a causa della sua morte in virtù dei suoi meriti civili; d’altronde, la città stessa si identificava nel console romano, in quanto portatore del connubio tra virtù politiche e meriti culturali[222]. Sicché Giacomo Cenna si vide quasi costretto ad impostare il discorso sulla fondazione della città intorno alla morte di Marcello, in quanto la città era troppo legata a Roma per poter ricostruire miti alternativi di fondazione[223].
Inoltre, l’impostazione cronologica delle informazioni mancava quasi del tutto nello scritto di Cenna[224], costruito più sul recupero dei moduli correnti della storiografia locale che sui canoni letterari caratteristici delle cronache in senso stretto86, come prova il focalizzarsi più sugli onori e i fasti antichi che sulla narrazione storica, comune anche ad altri storici “locali”, come testimoniano le opere dell’accademico Jacopo Antonio Ferrari, che scrisse una Apologia paradossica della città di Lecce tra il 1576 e il 1586 per confermare il primato di Lecce su Capua e Cosenza e quindi sulle altre città demaniali del regno, e del patrizio cosentino Sertorio Quattromani, che scrisse un’opera di uguale impianto tra il 1570 e il 1588, la Istoria della città di Cosenza [225] .
Anche nell’opera di Cenna si possono riscontrare alcune delle caratteristiche comuni a tutta la storiografia locale del Regno di Napoli in età moderna. Innanzitutto la narrazione, anche se attingeva a fonti che spesso presentavano elementi fiabeschi ed irreali, veniva spogliata di questi per incanalare il racconto entro binari razionali[226]. Poi si cercava una figura di personaggio esemplare che impersonasse tutte le virtù, le doti ed eventualmente anche i costumi della comunità[227].
Una volta che veniva scelta una fonte guida, nel caso di Cenna Plutarco, in caso di presenza di altre fonti sull’argomento che interessava l’autore, si citavano queste ultime ad integrare le informazioni desunte dalla fonte principale; in mancanza di esse si attuava una sorta di parafrasi, rielaborando il testo di riferimento non solo a livello stilistico ma anche a livello contenutistico, tramite la correzione e il puro confronto con altre versioni secondarie[228]. Il modus operandi di Cenna consisteva nel riportare nella sua interezza il brano relativo al contesto trattato e offrirne una parafrasi, allineandosi alla versione dell’autore epitomato, anche se certamente Cenna mostrava di rispettare il principio medievale di usare le fonti più antiche, in quanto più autorevoli.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
L’opera di Giacomo Cenna è rappresentativa di molta produzione storiografica della Basilicata in età spagnola: la Cronica, infatti, come del resto molta della storiografia del Regno di Napoli, rispecchia un intento laico e moderno di autorappresentazione nei confronti del potere centrale.
Lo stesso percorso biografico dell’autore mostra che Cenna giunse a scrivere della sua città dopo un cursus honorum consueto agli storici regnicoli e su diretto incarico del locale vescovo. Si trattava, comunque, da parte del Perbenedetti, di una mossa strategica nella propria politica di ripristino del potere del locale clero sulla comunità e sulla politica feudale dei Gesualdo. Solo ad uno sguardo superficiale, infatti, la Cronica non offre che tagli, voluti o dovuti a fraintendimento delle fonti, inserimento di autorità inventate o inesistenti, mancata ricerca di fonti primarie o scarsa verifica di quelle reperibili. Tutte queste annotazioni non riguardano in maniera esclusiva uno o più storici in particolare; si tratta, più che altro, di rilievi avanzati dagli studiosi all’indirizzo di tutta la storiografia del Regno d’età moderna. Tuttavia, queste evidenti pecche vennero compensate da una costante attenzione ad inserire il mosaico delle fonti in una narrazione continua o, quantomeno, cronologicamente uniforme, atta a non lasciare zone d’ombra nella “biografia” della comunità; da un’intenzione “patriottica” verso le antiche memorie, con uso costante e memore dell’erudizione umanistica, senza tralasciare i numerosi riferimenti a meritevoli patrizi che si facessero carico di custodire e restaurare preziose reliquie del passato[229].
Nella sua opera, come di consueto, la retorica dell’antico venne riutilizzata per rappresentare la comunità come portatrici di valori civili e morali presenti già al momento della fondazione nella figura dell’ecista[230]. Nonostante la committenza ecclesiastica, il Cenna era troppo profondamente legato alle dinamiche del locale patriziato per non identificare Venosa con l’aristocrazia, e quindi con il pactum stretto con il sovrano, come comprovato dall’uso amplissimo dell’antico “romano” per esaltare la fedeltà di Venosa al potere centrale: una tale storiografia era, quindi, portatrice di un modello conflittuale e dinamico di politica urbana, che sarebbe poi stato sostituito nel Settecento. La necessità di salvare dall’oblio i fasti patrii, così presente e diffusa nella Cronica, divenne discorso politico, riassunzione di un’antichità che non era solo modello esemplare, ma origine di tutto quello che la città aveva di peculiare. L’operazione storiografica del Cenna, quindi, si configurava pienamente come un prodotto che utilizzava erudizione e dati documentari a scopi politici ed apologetici. Il simbolo mitologico, come appare ancora una volta dall’esame delle sezioni archeologiche dell’opera cenniana, fu "pilotato" dalla committenza, che mirava ad una sua egemonia, in cui le doti morali estrapolate dal mito o dalla narrazione leggendaria diventavano doti politiche tipiche della città, sotto l’aspetto più propriamente religioso.
La stessa fluidità di genere (tra descrizione, erudizione, cronaca e storia ecclesiastica) che caratterizza la Cronica la pone all’interno del più generale carattere di dibattito tipico delle storie locali del Mezzogiorno spagnolo, che permette di calare documenti e azioni del passato nel contesto di una società in continua evoluzione, volta ad autodefinirsi tramite la rappresentazione delle proprie radici e ad evidenziare se stessa, nei confronti del potere centrale, come autonomia.
Dal percorso di studio e di ricerca emerge, dunque, un uso spregiudicato dell’antico, ricco di spunti utili per comprendere meglio l’intreccio, allusivo ma non troppo, tra esigenze erudite e ricostruzione politica, che conferirono alle scritture storiche - anche in quella «terra di dentro»[231] che fu la Basilicata moderna - un carattere politico:
Nell’ambito della solida rete dei poteri locali, il Cenna evidenziò, mostrando le aporie derivanti dal tentativo di fondere in una stessa opera storia della città patrizia e storia sacra, il fondamentale, spesso conflittuale, intreccio tra potere feudale e potere ecclesiastico nel tentativo di creare la “propria” città. Questa Venosa “ideale”, invano progettata e cercata dal potere ecclesiastico e dal potere feudale, veniva espressa in forma peculiare dall’accademico venosino, che, tuttavia, con tale opera evidenziava drammaticamente, anche per le suddette vicende biografiche, l’aporia che, di fatto, fu alla base della scarsità delle storie cittadine in Basilicata: il contrasto, insanabile e quasi mai destinato a trovare conciliazione, tra i diversi poteri locali nella costruzione della città[232].
Un’operazione, dunque, quella di Giacomo Cenna, meritevole di attenzione e di ulteriori percorsi di studio e di ricerca per ricostruire e rileggere in maniera più ampia il microcosmo politico-istituzionale venosino dell’età spagnola.[233]
APPENDICE
Il catalogo dei vescovi di Giacomo Cenna
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I segni d’onore di Venosa2
//12v.// L’Ethimologia della citta di VENOSA
Da donde shabbia pigliata la sua ethimologia la citta di VENOSA molte sono state l’ opinioni antique: Alcuni danno l’ ethimologia dalla causa efficiente, come Roma da
Romulo o Roma come si e detto di sopra, Ferandina da Ferdinando Re Mineruino da Minerua primi edificatori di quelle . Altre citta hanno pigliato il nome dalla causa materiale, nella quale orginalm(en)te alcun segno, prodigio o cosa merauigliosa seu mo(n)struosa ui si fusse ritrovata sincome Parthenope seu Napoli da una Syrena cossi detta che in quel loco fu sepolta: Altre hanno pigliato il nome dalle spetie di vittouaglie ouero qua(nti)ta di frutti che in quella citta seu terra ui si recoglino, come a dire Auellino, dalla gran qua(nti)ta di nocelle che in quel paese se ritrouano latinam(en)te dette Auellane: Salpia seu sapia, a sepiarum qua(nti)tate che seco(n)do di Stradone era una citta in Puglia uicina al Monte Gargano doue se pigliavano gran qua(nti)ta di seccie, cosi medesm(amen)te Foggia dalla gran qua(nti)ta de fosse per esser(e) stata primieram(en)te Granale di tutta Puglia . Altre citta son(o) dette per la causa formale per la lunghezza, larghezza, strettezza, …., o circolare di quelle:
2 CAV, ff. 12v-43v; 93v; 157r-165v.
Segni diacritici usati nel testo:
[…] Lettere o parti di testo mancanti o illeggibili
<.> Integrazione
[ ] Sintesi di brani del manoscritto non trascritti.
Sincome Ancona e nominata dalla sua curuuita ch(e) secondo Plinio et altri scrittori appare chiaram(en)te hauer la forma del cubito [.] E per l’ istessa causa dice Strabone esser detta Caieta a causa che //13r// che mentre tra storiografi si legge Lucullo esser(e) stato delle famiglie nobiliss(ime) da i Romani, homo ualorosiss(im)o e potentiss(im)o di Ricchezze che mentre fu questore del Populo Romano presento a quelli grandiss(im)i doni, eletto pretore gouerno con grandiss(im)a giustitia et equita tutti li populi della Africa . Mandato contra Mitridate lo supero e libero Cotta suo co(m)pagno e collega, le faculta tutte del s(ud)detto Mitridate con grandiss(im)a guerra e fame distrusse scaccia(n)do quello dal proprio regno: Da Apollonia di Ponto porto in Roma un colosso di Apolline di altezza di trenta cubiti che costo cento quara(n)ta talenti . A Pompeo et a Cicerone fe un conuito tale con tanta abundanza di uiuande che diede maraviglia e stupore al mondo doue ui spese piu di cinquecento milia talenti: hauendo lasciato stanco le cose le Rep(ubli)ca Roman[a si die]de alla priuta uita et edifico palaggi cosi belli […] librarie di piu lingue et haue(n)do fatto […] consumare le tante Ricchezze acquistate nelle […] suo fratello fu medesm(amen)te homo di grandiss(im)a ricchezza […] Lucullo suo fratello, et hebbe la protettione di quello […] Lutio Licinio Lucullo fu console di Roma di grandissima […]a, siche il s(ud)detto Aelio Restitutiano di detta fami[iglia] […] do da quelli fe fare un tale e tanto apparato di mura [… c]ose che furo di grandiss(im)a spesa e maraviglia: E […] che nelle quattro Piramide di Egitto ui si fatigo per […]i, e che la prima auesse occupato per quattro lustri […] a operarij . Et per un solo ui fossero spesi agli mille e ottocento talenti, credo di certo che all’ hora a fabbricare queste muraglie, a condurre tante pietre grossissime ad acconcio e lavorio di quelle, ui sia fatta grossissima spesa . e quantunque le parole del suddetto homo paiano sconcie, e di prima faccia non quatrino l’ intelletto, mentre la pietra doue primieramente era stata eretta non si troua in quel loco, nientedimeno si n’è lecito quelle conietturare per aggiustarle al proprio senso trouaremo senza dubbio parlare delle muraglie della citta di VENOSA e cio dimostra quel uerbo consecrauit: percioche l’ antiqui romani soleuano consecrare le muraglie della citta e nominarle sacre e sante: del che ni fa fede il dottissimo iureconsulto Martiani mentre dice in municipiis quoque muros esse sanctos: Sabinum recte respondisse Et Vulpiano dice sacra ea loca quae publico dedicata sunt: …..//14v.// per la qual cosa fu di subbito condannato a morte come inferiscono Petronio e Martiale legislatori et altri che scriueno dice(n)do fraterno primi maduerunt sanguine muri . Ne m’incresco parlare dell’ antiquo costume di Romani e delle cose occulte ne i scavi di quelli, a che effetto le muraglie delle citta da essi erano chiamate sacre <.>
E du(n)q(ue) da sapere che antiquam(en)te tutte le citta di Romani haueuano alcuno Dio per loro protettore, e, quando che era assediata la detta citta dall’inimici diffidati forsi no(n) poterla defendere con certi loro uersi e canonzoni si chiamauano i loro Dei Tutelari e per l’inuocat(io)ne di quelli teneuano di certo che detta citta no(n) si posseua pigliare, e pigliandosi teneuano cosa abbomineuole far preggione detti loro Dei <.> di cio ni fa mentione Ouidio me(n)tre dice: Euigilans nostra semper in urbe Lares <.> E per cio essi Romani ordinorno che il nome del Dio nella cui Protett(io)ne era la citta di Roma no(n) se sapesse alcuno . E per questo no(n) si accordano li scrittori, [imperc]ioche alcuni dissero fusse Gioue altri la lu[na], altri Arpocrate, et Angerona Dei del silentio, quale et le labra chiuse e signate con l’ Jndice nel[la] bocca, insegnauano la forma di celebrare quello: lo depingeuano ignudo senza bocca e senza //14v.// e senza faccia, ma tutti orecchie, e pieno d’occhij, et era dall’ antiqui adorato, et in quelle fattezze insegnava i mortali di vider molto, d’intender più che molto e di parlar poco; e spiegando con sovrani encomij le grandezze delle sue lodi, alcun disse che il silentio non fu cagione di danno giammai, et il parlare molte volte. Altri scrissero che la più difficile e la più lodevole cosa era il chiudere con sacro silentio il segreto del principe, dell’amico, del suo cuore; un altro disse che non era ignorante chi sapeva frenare la sua lingua. Agatone se tenne tre anni un sacco in bocca per imparare il silentio. Zenone sì gran savio se vantò con l’imbasciatori d’Antigono di saper tacere. Licurgo lo commentò ne i conviti. Il grande Alessandro nelle corte reali, Metello nell’eserciti, et il Senato di Roma mostrò con quanta religione l’havese, premiando l nobile fanciullo, che cossì bene inganno la madre che da lui saper voleva il decreto dei Senatori. Theofrasto temeva più una sfrenata di lingua che una sfrenata di cavallo perciocché soverchiezza in parlare fu cagione a molti di hoggi di esilio e di morte. E questo simulacro del silentio gran maraviglia diede alla Grecia madre dell’ingegni e maestra delle scientie. E fu che presso di essi era assai nascosta cosa pubblicare i loro Dei Tutelari, per la gran gelosia che di quelli tenevano. acciò non fussero stati da inimici giornalmente assediati, se havessero saputo detti Dei loro Tutelari. E per questo mentre l’antiqui cingevano le mura alle loro città, come a cosa sacra, con tutti loro eserciti solevano dire in quelle alcuni versi e canzone in lode di dette mura, consacrandole ad alcun Dio, chiamando quello in mente loro, dicendo che non era licito nominarlo per varie cause, acciò la città tutta, et l’esercito tutto non habbia paura alcuna di fuggire, ma vogliano quella e quello farli intrepidi senza paura. “E quelli tutti che contra detta città e detto esercito portano armi o saette, Voi come a protettori di quelle, vogliate con la vostra potentia divina farli dishabitare da questi lochi, e da questa regione, da questi campi, et habbiasi perciò in vostro nome devotamente consacrata questa città, l’homini di quella, e tutti li loro campi, con patto che ritrovandosi alcuna volta l’inimici nostri considerati di voi, ciò non ostante vogliateci sempre proteggere, mantenere e difendere quella. Et io come a Vicario di essa città, e come magistrato che tegno il governo di quella, per tutto il suo esercito, per tutto il suo populo, per tutte le legioni di detto esercito vi do questa fede, e vi giuro che in vostro nome vi consacro questa città e sue mura, tutto il suo esercito, tutti cittadini, vedove, pupilli et orfani, e tutte altre donne vergine e maritate, e tutti li suoi campi che in salvamento vogliateci quelli mantenere e difendere.
All’hora qualsivoglia persona che haveva a caro se facesse questo voto, interveneva al sacrificio, e vi sacrificava tre pecorelle negre, e dicevano: “O Terra, nostra madre, et o Giove nostro Iddio, che governi il tutto, io vi chiamo in testimonianza in questa consacratione et in questo sacrificio;” e all’hora che chiamavano la Terra, toccavano quella con le mani, e all’hora che chiamavano Giove, alzavano le mani al cielo, e mentre dicevano che governava il tutto, se toccavano le mani al petto. Ma i Dittatori e l’Imperatore, essi solo possevano far voto dell’esercito, e se per avventura alcuna città se ritrovava circondata da esercito inimico, e si vedeva chiaramente che quella non posseva più defendersi, e ch’erano necessitati i cittadini darla in potere di inimici, all’hora con diversità di parole e versi chiamavano fuori li Dei e dicevano: “Voi che in questa città vi ritrovate, Dij e Dee, che sete nostri Tutelari, che questa città e il suo populo havete ricevuto in vostra protettione, vi pregamo et scongiuramo, cercando da Voi licenza vogliate uscire da questa città, e lasciare i suoi luochi, e le chiese sacre, e vi partiate da quella, e la paura, e il timore levati via dalla città e suo popolo, né vogliati più dimorarvi, mentre sete stati cossì traditi, ma vogliati partirvi con me, e venirvene meco in Roma, e alle chiese e lochi sacri di quella, dove tra noi sarrete più accetti, e non solo a me ma al Populo Romano, e suoi soldati; e si sete deliberati venirvene, me lo farreti sapere, perciocché se ciò saperò, e conoscerò che farreti, farò offerire a Voi le chiese sacre et altri luoghi pij, e vi prometto fare perciò molte solennità, giochi e sacrificij” sincome di ciò parlando ni scrive Plinio(cap.II LIB.28). Anzi se legge che Enea, vedendo persa e saccheggiata la patria da inimici, mentre partì da Troia, non volse partire senza li suoi Dei, e portò quelli in un tempio della Dea Vesta nel territorio di Roma, prima che quella fusse edificata, come si è detto di sopra. Del che chiaramente se può comprendere e conoscere con questa sollennità antiquamente se consecravano le mura della città e con quanta veneratione se tenevano li Dei protettori di quelle. E si deve tenere di certo havesse usato Aelio Restitutiano nella consecratione di quelle nella città di Venosa, e perciò in memoria havesse eretto detto marmo, per essere stato persona potente e ricchissima. Anzi, per traditione di molti, hoggidì ancor si dice che in un loco di Venosa, dove si dice Ferramusa, verso Mezzogiorno, vi è un gran thesoro del suddetto Lucullo, et a’ miei tempi in casa Monsignor R.mo Lutio Maranta, all’hora vescovo di Monte Peluso, vi venne un Francese, e dimandò detto loco, e disse esservi una pietra scritta, e che di sotto di quella vi era detto thesoro di Lucullo; e guidato al loco, ritrovò detta pietra fracassata in tre pezzi, in diversi lochi trasporatata dalli aratri, quale unita, se leggevano l’istesse parole nella scrittura che teneva il Francese, ma non se potè scavare per l’incertitudine del loco di detta pietra [.]
//f.17r.// Delle Chiese della citta di VENOSA
D alle chiese dedicate alla Diuina maesta del S(igno)re Iddio se puo medesm(amen)te coinucturare l’ antiquita e nobilta di VENOSA .E si bene la chathedrale di essa ha poco tempo fu edificata da Pyrro de Balzo all’hora duca di Venosa et principe di Altamura, sincome se ritrova scritto in una pietra fuora di detta chiesa:
In anno 1470 BAUCIUS Hanc Pyrrus Illustris Dux VENUSINUM ECCLESIAM propriis sumptibus aedificavit: niente di meno il domo di detta città, era all’hora nel capo di essa, dentro la piazza grande, e volendo esso Pyrro edificarssi il castello, destrusse detta chiesa e fe’ promiss(ione) edificarne un’altra al R.mo Nicola Geronimo Porfido all’hora Vescouo di detta città e perché andava dopo procrastinando si fe’ intendere detto R.mo volerlo scomunicare, per il che detto Pyrro li uolse consegnare l’ecclesia di S.Dominico all’hora edificata da esso: alche non uolendo consentire detto uescovo giache uoleva conforme alla promessa la sua Ecclesia, in pochiss(i)mo tempo fu edificato detto domo, e per li molti trauaglij che successero dopoi ad esso Pyrro, non ui fu edificato né campanile né ui fu fatta tonica dentro detta chiesa, e la collocò nel meglio della città dove, all’hora ui era un’altra piazza, e spianò alcune ferrarie e molte potheghe. Né si dee merauigliare se all’hora detta cathedrale se ritrouaua posta nel capo di detta città, a causa che prima fusse stata cinta dalle muraglie, essa si estendeva di habitato assai più come si è detto di s.(opra). E poi per terrore di inimici che giornalm(en)te minacciauano guerre nel Regno di Napoli, considerandosi il sito di VENOSA comodiss(im)o di possere resisterea qualsivoglia gran impeto di quelli furono fatti i fossi che bisognauano e fu fortificata di artiglierie et altre cose necess(ari)e nell’anno 657. E fu fatta piazza d’arme da resistere a qualsivoglia inimico. Vi erano tre grossissime artiglierie, cioè Madamma Ferlian, il Cane et la Fica che tutte e tre se ritrovano nel forte della città di Brindisi.Detta cathedrale sempre ha tenuta e tiene dignità Vescovale, e con essa altre quattro dignità, Archidiaconale, Archipresbiteriale, Cantore e Primicerio, con altri uinti Canonici quali solo uniti di numero uintiquattro fanno il capitolo e reggono e determinano le cose capitolare, essi solo e non altri. Essa cathedrale fu cosecrata//f.18r.// adi 12 di Marzo festività del Glorioso san Gregorio da monsig(no)re Ferdinando Serone nell’anno 1502: e tiene per diocesi Forenza, Spinazola e Mascito. Vi sono in detta chiesa molti altari, viè l’altare maggiore con una superbiss(im)a custodia di palmi quindici di altezza in circa, per fattura di essa spese l’Università di Venosa d(oca)ti quaranta quattro a mastro Nicola Marciano di Bitonto oltra il uitto, stanza, e letto che ad esso e suoi descepoli administrò per mesi sei e giorni dieci cominciati dal primo d’8bre del ann.1587 per tutti li dieci di Aprile 1588. E detta custodia et il pulpito furno à requesta di Monsig(no)r R.mo Geronimo Marerio fatti a spese di essa Università di Venosa. Nell’anno dopoi 1599 stette ammalato a morte il commentatore fra Horatio Giustiniano e per la rehauuta salute, a persuasione del R.mo Sigismondo Donati all’hora vescovo di Venosa fe deaurare detta custodia dove al presente si veggono le sua armi e ui spese ducati cinquecento di zecchini, quali tutti fe’ battere in sua presenza per ornamento di detta custodia.
Nel corno sinistro di detto altare maggiore vi è la cappella delle S.me Reliquie eretta da Monsign(or)e R.mo Tusignano quale hauendo usato molta diligenza in redurre in quella grandezza l’altare maggiore, e collocatoui di sopra la custodia, levò dall’altare predetto il S.mo Sacram(ent)o doue moltie molti anni era stato ( e certo dall’edifica(tio)ne di detta cathedrale) e lo pose nell’altare maggiore. Dopoi con le pietre della cappella del dottore Ascanio Cenna fe’ abbellire detta//f.18v.//cappella. E tutte le Reliquie che se conseruano dentro una cascia nella sacrestia pose in detta cappella, e sono l’infrascritte:
Un pezzo di legno della Croce di Nostro Signore
Una spina con il Sangue della Corona di Nostro Signore
Dell’osso di s.to Bartholomeo Apostolo
Di santo Stefano Protomartire
Di santo Gioanne Battista
Di santo Stefano papa
Di santo Gregorio papa
Di santo Lutio martire
Di santoVenantio martire
Di santa Maria Maddalena
Di santa Catherina Vergine et martire
Di santa Agata Vergine et martire
Di santa Maria Egiptiaca
Di santo Vito Martire
Di santo Giulio martire
Di santo Eustachio martire
Di santo Todaro martire
Di santo Eusebio
Di santo Laurenzo martire
//f.19r.// Di santi Fabiano et Sebastiano
Di santo Marcinio vescovo
Di dieci milia martiri
Di santo Pantaleone martire
Di santo Sisto martire
Del bastone col quale fu battiso nostro signore
Di santo Agapito martire
Di cento settantaquattromilia Martiri delle cathecumbe della cattedrale di santo
Sebastiano di Roma
Di santo Bernardo Abbate
Di santo Sergio martire
Di santo Valentino martire
Di santo Dionisio
Di undici milia uergini
Della nilva di san Carlo Borromeo
Della Pianeta di san Carlo
Dell’Altare dove fu circuciso Nostro signore
Del Presepio di Nostro signore
Diverse Terre sante di Gerusalemme
Di santo Giorgio martire
Di santo Tostano martire
//f.19v.//
Di santa Agnese uergine et Martire
Di santo Valentino martire
Di santo Urbano papa
Delli martiri delle catacumine di S.to Calapodio di Roma
Di santo Chrisostamo et Lazario
Di santa Cordula Vergine et Martire
Del Palio di santo Venantio martire
Della colonna di Nostro S(igno)re Giesù Christo
Del Sepulcro di Christo, e della Beata Vergine
Della Pietra nella quale la Beata Vergine adorò nostro signore
Della Pietra del Monte dove fu tentato nostro signore
Della Pietra del Monte Calvario
Delli Pendenti della mitra di san Carlo
Del panno involto al corpo san Carlo nella sepultura
Del lenzuolo dove dormiua san Carlo Borromeo
La metà della mitra di san Carlo
Il Deto Indice di S.to Andrea Apostolo patrono di detta chiesa
Il Deto di santo Vito Martire
Un sacchetto di diuerse terre sante di Gerusalemme
Del osso di santo Bonauentura
Reliquie di santo Vitale
//f.20r.// Di Santo Antonio Abbate
Di santa Giulia Martire
Di santo Metio martire
Delle sante della legione Thebea
Di santa Marta sorella di Maria Maddalena
Della compagnia di santa Irsula
Di santa Serafia Vergine et Martire
Di Santo Thedeo martire
Della spugna che fu asciuttato il corpo di san Carlo
Della Veste di san Carlo che portava quando li fu tirata l’Archibugiata
Della Pianeta di san Carlo che portava quando celebraua messa
Della Tunacella di san Carlo
Del Cammiso di san Carlo
Dell’inforre delle calze di san Carlo
E molte altre Reliquie che no se possono leggere i loro nomi per l’antiquità.Altre ni sono state levate a tempo viveva Monsignor Mario Muro, e sono l’Infrascritte:
Una spina della corona di Nostro S.re Giesù Christo.
Un pezzo di Grasso di S.to Marco Evangelista
Un pezzo d’osso di santo Nicola
Reliquie del discepolo di santo Bernardo
Reliquie di Santi Fabiano et Sebastiano
Reliquie di Santo Attanasio
//f.20v.//
Reliquie di Santo Maurizio Martire
Reliquie della scala di santo Alessio
Reliquie di santa Irene Martire
Reliquie di santo Cassiodoro
Reliquie di Santo Vulpuagis
Reliquie de quinque pani bus hordaceis
Reliquie di san Cosmo, Damiano et Gioanne
Reliquie di san Lorenzo Martire
Un Dente del Glorios san Gio(uan)battista
Reliquie della Pietra dove sedeua la Beata Vergine mentre lattaua Nostro S.re
Reliquie di santo Paolo Apostolo
Quale tutte hauendole con le loro Bollette, acciò se potessero leggere, poste in vasi di cristalli, ordinò che „l giorno delli Santi Apostoli Simone e Giuda se facesse di dette reliquie processione solenne per la città, e se cantasse l’hinno: Sanctorum meritisinclita gaudia; e finita detta processione, in pulpito da un canonico se mostrassero dette reliquie, e se pubblicassero li nomi di quelle.
Segue appresso la cappella del Glorioso S. Venantio, quale e stata edificata da Vincenzo Pannone nell’anno 1623, come in quella se legge. E perché questo Glorioso Santo e protettore//f.21r.// di Camerino, ad istantia di Monsignor R.mo Andrea Perbenedetto di detta città, detto Vincenzo haue eretto detta cappella per uoto in una infirmità, e dedicatola a detto Glorioso Santo, e dotatola per ordine di detto R.mo di docati duoicento.
Appresso do poi a quella sta la cappella del Glorioso San Giacomo maggiore delli signori di Viglena, quale fu edificata insieme co detta chiesa, per che fa croce a l’ala sinistra di quella. Questa primieramente fu dotata dal signor Lopes di lago spagnolo, e castellano del castello di Venosa; dopoi, perché apparentò co questi Signori di Viglena med(esimamen)te Spagnoli, in sua morte restò in potere di detti Signori di Viglena, dalli quali Hoggi d’ se possede, et è dotata di molte centanara di docati, sincome si legge in una pietra eretta in detta cappella per memoria dei successori.
Sta poco distante da essa la cappella delli Martiri Felice, Audacto, Ianuario e compagni, quale fu eretta nell’anno 1601 per ordine del molto Ill.e et R.mo Andrea Perbenedetto, al presente Vescouo di Venosa, a causa che nel tempo di Monsignor Mario Muro, Vescouo di Venosa, nata una controuersia tra esso Vescovo e l’Eccelentia D. Emanuele Gesualdo, e co la città istessa, ordino detto Ecc.mo Principe se facesse l’esecutione a certi bovi di detto R.mo che pascevano le defese di detta Università; per la qual cosa detto Vescouo interdisse la città nell’anno 1609. E, morto detto Vescouo, il suddetto//f.21v.// successore ordinò che s’erigesse detta cappella a detti gloriosi Santi di Venosa, la cui festa se celebra addì 24 ottobre; e per l’assolutione de l’interditto condennò detta Uniuersità a contribuire ogn’anno quel tanto bisognasse per detta solennità, hauendo concessa quella al R.do D. Gioanne Antonio Cortese Canonico della Cathedrale e suo confessore. Dopo morto detto D. Gioanne Antonio, detta cappella se possede dal Dottore D. Fabritio Caputi Archidiacono di detta chiesa cathedrale, vi è la cappella dopoi di S. Lorenzo martire, quale fu eretta da uno dei principali del populo, Bartholomeo di Votano; hora se possede dal R.do D. Giulio di Giugno Canonico di detta chiesa. Più di basso vi era cappella del R.do D. Gioanne Milita, e perchè piacque a Monsignor R.mo Fra Pietro Tusignano levare dalle parrocchie che più non ui si battezzasse per alcuna sospittione de i Sacramenti, ordino detto R.mo che la fonte battesimale se collocasse in detta cappella, dove al presente se ritroua. Vi era un’altra cappella più di bascio eretta dalla famiglia de i Tisci, quale, mentre che in quella se celebraua, se teneuano le spalle voltate al SS. Sacramento nell’altare maggiore; ordinò detto R.mo Tusignano non piu ui si celebrasse, ma fe distruggere l’altare di quella, e ui e remasta solo la pittura et la sepoltura de i morti.//f.22r.// Nel corno destro dell’altare maggiore ui e la cappella della famiglia de i Fenici, dedicata alla Purificatione della Santissima Vergine, come in un quadro di quella si uede; vi è il jus-patronato eretto da essi patroni. Segue appresso di essa la cappella di Santo Vito, antiqua cappella di essa chiesa per la croce che fa al corno destro; detta cappella fu dotata da un Greco, che uolgarmente lo chiamavano il Grechetto, che lasciò tutta sua facultà a detta cappella per non hauer hauto figli con la moglie. Detta cappella se possede dal Capitolo. Et al tempo del R.mo Monsignor
Baldassarre Giustiniano impetrò da Gregorio XIII, ad istantia di detto Capitolo, l’altare priuilegiato in detta cappella ,come in essa si legge in una pietra. Segue l’altra cappella appresso del Dottore Scipione di Bella, la quale antiquamente era stata eretta da suoi predecessori sotto il titulo di Santa Maria di Costantinopoli.Dopoi da esso e stata leuata la cappella antiqua, e ridutta al modello moderno co belliss(im)o quadro come in quella se uede. Appresso vi è la cappella della famiglia dei Ciavalischi sotto il titulo delli tre Maggi, quale hoggi dì da essi se possede, e contribuiscono a tutte spese necessarie. Vi e anco appresso la cappella di S.Gregorio della famiglia de i Costanzi da essi eretta, come appare nel belliss(im)o quadro venuto da Venetia con l’arme di essi. Vi sono in essa tre jus patronati, l’uno lasciato dal dottore Ettore di Costanzo di docati cento, l’altro lasciato da Antonio di Costanzo//f.22v.// di docati doicento, e l’altro di docati cento lasciato dalla quondam Elionora di Costanzo. Appresso di questa segue la cappella di Santa Agatha eretta da questo nostro R.mo. Antiquam(ent)e in detto loco ui era la fonte battismale. Dopoi levata che fu da Monsignor Tusignano, come si è detto di sopra, ui fe’ una scala con un retretto dal quale se poteua uscire et intrare dal palazzo uescouale dentro la chiesa. E stato dopoi detto retretto chiuso da questo R.mo e dalla parte di dentro del Palazzo Vescouale haue eretto un oratorio con l’immagine di San Carlo Borromeo suo deuoto, nel quale oratorio in tempo d’inuerno o di qualch’altra necessità suole celebrare detto R.mo la santa messa. Altra cappella che segue e stata eretta do po la morte di mastro Gio. B(a)tt(ist)a Porfido alla quale ha lasciato docati doicento di jus-patronato. Detto maestro Gio. Btta servì in molti acconcij di detta chiesa a tempo del R.mo Vescovo Tusignano, et in ricompensa li diede l’immagine antiqua che staua nell’altare maggiore di detta chiesa a tempo del R.mo Vescouo Tusignano, et in recompensa li diede l’immagine antiqua che staua nell’altare maggiore di detta cathedrale, co’ protesta di erigere una sua cappella in detto loco, dopoi lasciò dopo sua morte che facesse il quadro c’hoggi dì vi sta, e se leuasse quello antiquo. Vi e scolpito in esso l’immagine della gloriosa Vergine, San Giuseppe et altri Santi che sono in detto quadro come da ciascuno curioso et deuoto spirto se può uidere in quello.//f.23r.// Ultimamente ui è la cappella delli Cafulli, antiquamente ben trattata dalli predecessori di detta famiglia, nella quale ui sono state lasciate molte messe dalli predecessori di essa famiglia; hoggi dì perché il mondo tutto è redotto in miseria appena vi si celebra alcuna messa, essendo che in quella al spesso ui mancano le cose necessarie in detto altare. In detta cathedrale chiesa ui erano medesmamente due cappelle, l’una di sotto la sedia pontificale, dove sta il R.mo Vescovo, a tempo se predica, eretta da Vincenzo Cenna gentilhomo di Venosa, e vi era l’immagine della Vergine Gloriosa, di Santa Maria della neve, con altre belle pitture che in essi si uedeuano, e da esso fu dotata di molte messe, come se legge nelle scritture di esso Capitolo. Hoggi dì vi è solo la sepultura di essa cappella, a causa le pietre Monsignor R.mo
Tusignano ni ornò la cappella delle Sante reliquie, come s’è detto di sopra. Di sotto al pulpito a man sinistra ui era la cappella della nobile famiglia dei Maranta, eretta da Bartholomeo Maranta medico, sotto il titulo della natiuità di nostro Signore. Detta cappella era tutta di gisso bianchissimo, le colonne di essa, e tutto il presepe dove nacque nostro Signore. Le sopradette due cappelle furno levate da Monsignor R.mo Marerio, a causa levò il choro che stava in mezzo di detta chiesa, appoggiato a dette cappelle, e lo portò dietro l’altare maggiore, dove hoggi di si uede per allargare detta chiesa, e redurla come l’altre al modello moderno.//f.23v.// Altra cappella in detta cathedrale non se ritroua, solo che al bascio del juso in corpo vi haue eretto detto R.mo un quadro di San Carlo, e vi si celebra messa giornalmente con gran deuotione del populo, dove che antiquamente ui era la cappella di Santo Basile, che solo ui si celebraua la matina della Circumcisione di nostro Signore. Il campanile di detta chiesa fu principiato da Monsignor R.mo Tusignano, quale hauendo recuperato docati tricento, che se doueuano dalla Regia Corte per la campane disfatte al tempo della fortificatione, diede principio a detto campanile, e ui pose la prima pietra nell’anno 1589, addi 17 di settembre; e prima fusse partito da Venosa, hauendo fatto dispendij nelli pedamenti di detto campanile, lasciò quello con il primo cordone più di sei palmi di sopra la terra. Venne dopoi Monsingor R.mo Fra Vincenzo Calceo ni fece di fabbrica presso altri quattro palmi. Il restante dopoi è stato fabbricato da Monsignor R.mo Andrea Perbenedetto, e nel anno 1614 addi 20 di augusto ui pose le campane, quale al presente se ritrouano, sì bene antiquamente vi erano delle altre in uso di detta cathedrale quale al tempo della forificatione di Venosa ni furno guastate per fare artigliarie, e non solo leuorno da detta chiesa, ma di molte altre dentro e fuora di detta città. Con consenso dopoi dellUniversità fè detto R.mo levare la campana dell’orilogio da S. Cosmo e la pose al sopradetto campanile, come hoggi dì ui si vede, ornato di quattro campane, una grossa e l’altre tre mediocre.//f.24r.// Nell’anno dopoi del 1620, detto R.mo Andrea Perbenedetto, auanti la porta maggiore di detta cathedrale eresse una colonna con la croce, come nella scrittura di quella se puo videre. Fè due cammare bellissime unite con l’altre del suo palagio uescouale; e nell’anno 1623, alla fine di giugno, fè erigere la colonna nella porta piccola di detta cathedrale, et alli 29 di detto mese giorno del Glorioso Apostolo S. Pietro fu da detto R.mo Vescovo con tutto il clero benedetta. Nell’anno dopoi 1625 del mese d’aprile, fè tutta detta chiesa cathedrale bianchire di fuora si deue pure auuertire che in detta chiesa cathedrale ui sono quattro cose bellissime e degne di esser viste, che in altre chiese non se ritrouano simile; la prima si è la custodia nell’altare maggiore, che di bellezza ed altezza rare se ritrouano in questo Regno di Napoli; la seconda si è l’arco che sta fondato tra le due cappelle di Santo Vito e la Purificazione, et s’estende tra l’altre due cappelle di San Giacomo e San Venanzio, cosa ueramente di gran meraviglia; la terza si è il pulpito lauorato tutto di pietra marmorea finissimo, che in pochi lochi vi si trova il simile a quello; la quarta cosa si è il baldacchino, quale si adopera il giorno del SS.mo Sacramento, mentre si fa la processione generale per la città. In questo spese l’Univesrità docati cinquecento, e nell’anno 1584, del mese di ottobre, a tempo fe l’intrata in Venusa, per il possesso del principato l’Eccellentia di D. Fabritio Gesualdo con l’Ill.mo et R.mo Cardinale//f.24v.// suo fratello, si serui di detto baldacchino, e uolse detta università che dodici gentiluomini della città, nell’entrare di detto Principe et Ill.mo Cardinale, se ritrouassero con detto baldacchino nella porta della città vicino la piazza, et accompagnassero quelli fino alla cathedrale, dove si ferno le solennità ordinate nel pontificale, e se recitorno uarii poemi et orationi, tanto per la città dove erano eretti archi trionfali, quanto nella cathedrale, dove detti Signori e Ecc.mi dedero grata audienza a tutti coloro che recitauano. Nell’intrare della città fu spiegato detto baldacchino, e Federico Maranta all’ hora mastro giurato di detta città pigliò le redine del caualla dell Eccelentia del Principe e Gio. Andrea Costanzo all’hora erario pigliò le retine del cauallo di detto Ill.mo Cardinale. Il baldacchino il portorno il Dottore Donato Porfido, il Dottore Ascanio Cenna, il Dottor Gio. Battista Maranta, il Medico Gio. Battista Cafaro, Marco Aurelio Giustiniani, Manilio Cappellano, Gioan Francesco Barbiano, Horatio
Caputi, Angelo Solimene, Roberto Piumbarolo, Bartholomeo d’ Aytardis et Augustino Fenice. E furno dodeci, perché dodeci bastoni retiene detto baldacchino.
[…]
Delli vescoui della citta di VENOSA
[…]
//f.30r.//
Donno Andrea Perbenedetto della città di Camerino fu fatto Vescovo di Venosa nell’anno 1611 del mese di marzo da Paulo V sommo Pontefice. Venne in Venosa et intrò in quella a dì 10 di maggio dell’istesso anno. Fu homo seuero e crudele contra li delinquenti, tanto di quelli suoi subditi, quanto di quelli li ueneuano commessi da Roma. Nell’anno 1629 del mese di aprile fu chiamato in Roma da Urbano VIII sommo Pontefice, e fu fatto Visitatore, e li fu dato ordine andasse in Calabria a uisitare il Vescouo di Cosenza e la sua chiesa. Dopoi uisitasse Squillace e tutta sua Diocese. Partì da Venosa a dì 24 di maggio//f.30v.// il giorno dell’Ascensione del Signore; et a uisitare detta città e Diocese ui stette mesi sette. E partito da Cosenza, ando alla uisita di Rossano e sua Diocese. Visito dopoi Squillace e sua Diocese. Ando dopoi a uisitare la citta di Nicastro. E partito da quella, ando alla citta di
Bisignano. E ritornato dopoi in Venosa ui stette alcuni mesi. E dopoi dall’istesso sommo Pontefice hebbe che andasse a uisitare la citta di Lecce, Monopoli, Castellano et la citta di Bitonto. Ultimam(en)te hauendo quelle uisitate tutte con gran disgusto delli Prelati di quelle et eminentiss(im)i Cardinali protettori, ando ad instantia dell’Eccellentia del Principe di Venosa a uisitare il Vescouo di Auellino e sua Diocese, per alcune differenze che correuano tra essi. Alla fine, dopo patiti tanti stenti e fatiche, fu chiamato in Roma a dar conto di sé e della visita fatta, per la qual cosa, con molto suo disgusto, mentre pensaua hauerne qualche remunerat(io)ne, suspirado sepre, s’ammalo e passo da questa a meglior vita, dopo auer gouernato il Vescovato di Venosa anni 23, il di 12 novembre 1634. Il di seguente fu sepellito co gran pompa funerale nella sua cathedrale nella sepoltura ch’auea sepolto suo nepote, uicino la sedia pontificale dell’altar maggiore. E detta sua morte si caggiono che essendo andato a baciare li piedi a Sua Santità, li fe quello videre duoi errori erano sati fatti al mondo: l’uno da Paulo V a farlo Vescouo di Venosa, e l’altro da esso Urbano a farlo Visitatore del Regno di Napoli.
//f.31r.//
Donno Bartholomeo Frigerio gentilhomo di Ferrara fu eletto vescouo di Venosa da
Urbano papa VIII <:> costui era can(oni)co e beneficiario nella chiesa di san Pietro di
Roma, Fu consacrato Vescouo di detta chiesa di Venosa nell’ Anno 1635 a di 23 <;> entro il giorno di s(a)to lino papa, e, martire, fu pigliato il posesso di detto Vescouato in nome di esso Vescouo del M.tte et M. R(everen)do Donno Fabritio caputi Arch(idiaco)no et Vicario
G(enera)le di detta chiesa cattedrale di Venosa il di XI di g(iugn)o dell’ istesso anno 1635
<:> venne in Ven(os)a il di .6. di set(temb)re giorno di santo Nicola, dimoro nel Palaggio
Vescouale il Venerdi et il Sabbato, la Domenica di poi ben matino, ando nella chiesa di
Cappoccini per fare l’ Ingresso Pontificale, e dopo no(n) guari con una belliss(im)a caualcata, o, co(n) tutto il Battaglione di essa citta uenne nella Porta di essa città, doue fatta la sollenita del cerimoniale e basciata la cinta, entro nella citta, e la uicino se uesti Pontificalm(en)te co(n) la Mitra, e postosi a cauallo in una Acheia co(n) il baldachino portato da 12 Gentilhuomin ico(n) tutto il clero in process(io)ne co(n) detti frati e fratarie, e, molti Archi Triumfali ni uenne alla sua cattedrale del glorioso s(an)to Andrea Apostolo, Doue p(rim)a che smontasse da cauallo nella scala della porta maggiore di quella ui furono recitati nell’ infitti uersi da un clerico co(m)posti per me D. Jacovo Cenna
Tante grandezze hà in uoi il ciel consparte
ch’ouunque scalda il sole a tondo a tondo
Ogn’uom esclama e dice die chiamarte
Specchio del Mondo//f.31v.//
Tale, è, l’Ingegno, il tuo ualore, e, il
senno ch’Alma non si ritroua in
tanto errore che no(n) co(n)senti che
chiamano a desso
Vigilante pastore
La Maesta del tuo bel uolto auanza
ogn’alma al mondo e par che
t’incorone Di gloria tal chepar che
t’incoronesei nella sembianza
Il casto Milanione
E di cuor sei cossi pudico, e, casto
ch’al mondo tutto alza la Fama i
E in cio ti fa con gioia, e, fausto
Al gran Gioanni
E dice ogn’ uno che dal ciel discese
Tua alma bella per ornar la Terra
D’ogni uirtu, e quietar l’ Impresa
D’ogni aspra guerra
Ponest(iti) nell’ anni tuoi puerili
Con su(m)mo studio fosti ben nudrit0
Di bei costumi santi, e, peregrino
Senza altro inimico
All’ intrare dipoi dell’alta etate
Cominciasti a spirar diuini odori
A Roma santa ,e, della santitate
I primi fiori
E gionto poi a questa eta perfetta
Oue co(n) chiara fama hoggi risplende
Il mondo, ha uisto, e, di uider aspetta
Cose stupende
E uedendosi poi il Mar turbato
E la Barca di Pietro in graue affanno
Dal s(an)to co(n)cistoro fussi mandato
Per riperar il danno
Guida la Barca al porto in saluamento
Che d’ Andrea glorioso il gran fauore
Non ma(n)caratti ad accapar l’ Incenso
Quando desia il suo Cuore
//f.32r.// E perche un Pedante forrastiero che staua in spinazola s’ hauea uantato di questo Ill(ustrissi)mo Vescouo uoler ouationi, e di fare uoler Epigramme in lode di quello, accio fusse co(n)culcata l’ Arroganza di q(ue)sta Bestia Pedante, Io D. Jacouo Cenna ordinai che ad ogni Arco Triumphale se incitasse l’ uso delli infitti sonetti
Nel p(rim)o Arco dell’ Ingresso della Porta di suso
O del secol no<str>o oro lucente
che nel fuoco d’ Iddio tuo
p(re)ggio affini e co(n) pensieri
eletti ,e, peregrini si esser co(n)serui
al mondo interamente
Signor ch’ al so(m)mo Iddio l’ opre e la
mente Posto ogni altro in oblioin oblio
sacri et inchini chi potra dir tuoi doni alti
e diuini scriuendo parte a la futura gente
<?>
Santi costumi, Atti, e, parole honeste
Ornano la tua uita, e, mostran fuore
Quanto l’ alma, e, gentil che senno
alloggia la speme ardente, e charita celeste
e salda e pura fede, in humil cuore
sempre in te, come in Dio, s’ aspira e
poggia <.>
2°
Se mille elette canne, e milli inchiostri
Frigio[234] gentil, del uostro alto ualore
Ornan si ben le carte, onde il furore
Fia uan, del Tempo, e, chiar’ i p(re)ggi uostri
Che potrem noi, se i bassi ingegni nostri
Bassi ca[…] al sovran uiuo splendore
Onde illustrare ancor le Notturné Ere
Mouer no(n)ssan da Terreni chiostri
Datimi uoi lo stil, l’ Ingegno, e, l’ Arte
Che piccol saggio almen di quel si scriua
Poiche dir ne pe(n)sar si possi a pieno ,
Se uedrem poi seder solo in disparte
Alma gentil che l’ egri spirti anima
Et erger sopra ogni pensier terreno <.>
//f.32v.// 3°
Al chiaro grido, a l’ Armonia celeste
Di mille lingue, e, mille dotte lire
Mentre l’ Aria s’ indora, e raggian l’ ire
Del Mare, e, Flora il Monte, e, il pian riueste
Mi sueglio et odo, e quelle ualle, e queste ,
BARTOLOMEO risuonar, e, i monti
dire con dolci uersi FRIGIO, e, poi
uscire veggio piu adorno il sol, l’ hore
piu preste <,>
La Fama al ciel uolar co(n) piume alacre
E mentre inte(n)to in lei m’affiso e dico
Chi, e, costui ? perche ai canti anch’o io ? Rispondo, din l’alte sue glorie noue,
Non puo stil di moderni, o stile antico
Vincer l’ Eterno, e amore santo, e, pio <.>
4
O d’ ogne altro pensier felice ogetto
Di questa fosca eta, serena luce
Al cui chiaro splendor l’alma traluce
E lustra l’ Alma, il cuor, e, l’ Intelletto O sol del n(ost)ro sol uia piu perfetto che co(n) bei raggi ardenti hor mi conduce oue del motor la gloria luce
Eterna, e largo premio d’ ogni eletto
Per te del secol n(ost)ro honor(e), e, gloria
Si scorge il fortunato alto uiaggio
Di gir(n)e al ciel co(n) fortunati passi <.>
Quinci perché offerirti altro no(n)
haggio Con q(ue)sti uersi mei mal
co(n)ci e bassi sol far del uostro
nome alta memoria <.>
//f.33r.// V
Archi, statue, Trofei di marmo, e, d’ Oro
S’ ergano a uoi FRIGERIO, e, il nome uostro
Albergo di uirtu, fido vescovo
Di quanti spargiam perle, Gemme, et ostro
Ecco d’ Ausonia, e, Iberia il chiaro inchiostro
Hoggi s’ inalza nel superno choro
Per far noto a lontani, e, al secol nostro
Di uoi l’ alto ualor ch’ ammiro, e honoro Ondé io che per tanti anni, e, tanti lustri
Scorsi le tante uostre opre famose
Di queste sempre inuito onde m’ inchino
E le mie Rime, al uostro, alto, e diuino
Spirto consacro, e, l’ alme e gloriose Imp(re)se honoro di uostri Aui illustri ;
6.
Chi porgera al mio stile, arte, e, dolcezza
Che del FRIGERIO sia pari al ualore
Al nostro mondo nato, al cui splendore
Esso u’ aggiunga lume co(n) chiarezza <?>
A costui diede Gioue ogni grandezza
Minerua ingegno, Cinthya casto amore
Eloquenza Mercurio, e, Phebo honore
E a piu d’ ogn’ altro Citherea bellezza <.>
Per dir come co(n) opre honeste, e, grate BARTholomeo al mo(n)do serbo intiero
Di vera gloria il preggio in q(ue)sta etate
Quante grandezze, ingegno, Amor sincero
Eloque(n)za et honor ogni beltate
Faran costui felice, et al mondo altiero <.>
//f.33v.// 7.
Ecco che pur dopo tanti, e, tanti anni
Questa VENOSA afflitta par che troue FRIGERIO che co(n) sue illustre proue
Ristora tutti con sua gloria, i, danni
Al ciel non poggia piu con tanti uanni
Mercurio il saggio, ne il Tona(n)te Gioue
Né il grido suo potente piu ci moue
A cercar di ualor sublimi scanni
Saffo, e, Corinna in dir co(n) leggiadria
Hanno chi li pareggia, e, chi l’ eccede
D’ ogni bonta, e d’ogni cortesia
E s’altro in altro il ciel grandi li diede
Per inalzar costui di signoria A questo gran Prelato, hoggi si uede <.>
8.
Fra milli bianchi cigni alti, e, canori
Che son canta(n)do intorno alle sacre acque Le uostre chiare lode, e, sommi honori , che santo, e, saggio uiue, e, illustre nacque
E come Dio fra l’ alti etherei chori
Di farlo vano al mondo si co(m)piacque
Dando solo a costui tutti i fauori
Ch’ a milli a milli al mondo mai dar piacque
Audace s’ interpone il voto augello che saluo Roma da perigli, e, noia e nel cantar non stride con suo Rostro ,
Poi tace, ma perché il tacer l’ annoia
Dice battendo l’ ali in sua nouella
FRIGERIO speccho uiua al secol nostro <.> //f.35v.//
Passò da questa uita il sopradetto Ill.mo Monsignor Bartholomeo Frigerio il dì 13 Novembre 1636. Fu sepellito nella cathedrale di Venosa il uenerdì 14 dell’istesso con molta pompa funerale: Fu pianta la sua morte da tutto il populo e con grandiss(im)o dolore da tutto il suo clero di Venosa, Forenza e Spinazzola. Fu grandiss(im)a disgratia medesm(amen)te che l’istessa sera che gionse in Venosa sua nepote Barbara Frigerio, uenuta dal paese con Ascanio Vitale suo marito e co figlij e famiglia per rallegrarsi et habitare con esso lui, l’istessa sera detto Vescouo cascò ammalato, et in sei dì finì l’ultimo di sua uita. Li sopradetti Barbara et Ascanio, prima che partissero da Venosa per il lor
Paese, li ferlo un sepulcro di Pietra con alcuni scritti li diedi che scrivessero in quello:
Frigida Frigerii tumulo stant presuli ossa
Bartholomei, ast nunc spiritus astra petit.
//f.36r.//[235]
Aggiunga ui che nella morte di detto prelato li fu trovata sopra una cinta di cilicio aspriss(im)o; dal che si può argomentare la sua Casta e S.ta Vita; benché in apparenza si mostrasse faceto, di tratti nobili e cortesi. Et osseuai io, che mi trouai p(rese)nte nel morire, un passaggio quieto, e riposato, non ricordandosi né affliggendosi della nipote e parenti: il che fu mirabile per la vicina venuta di quelli. Era assai amico di huomini da bene e letterati; faceua molte elem(osi)ne a vedoue e povere vergognose, dispensate dal suo confessore, vestiva gli nudi, et in Forenza, andai io a visitarlo, un pouero venne a chiederli l’elem(osi)ne, et ordinò che fusse vestito, e ragionaua di spesso con moltissimo sentimento.
//f.37r.// D. Gasparre Conturla genuese della Terra di Spetia fu fatto vescouo, da Urbano papa VIII,della città di Venosa. Il dì primo di aprile dell’anno 1638, Giorno sulenne del Giovedì Santo fu pigliato il possesso di detto uescouado del R.mo Valerio Speraindeo
Archiprete di detta chiesa. Adì 5 dell’Istesso Mese di Aprile 1638, lunedi primo della S.ma
Pasua di resurr(etio)ne, privatam(en)te ad hore 24 intro detto Vescovo in Venosa. E fatto oratione nella Cathedrale, et dato la benedictione al populo, se ne ritirò nel palazzo Vescovale. Detto Vescouo era stato Vicario nel uescouato di Catanzaro nella Calabria. E perché la uenuta di d. Vescouo fu cossì repentina, non ui si potè fare sollinnità alcuna, perché nesciuno pensò che in tal giorno et in tal hora, hauesse da intrare detto Vescouo in detta città et suo uescouato. E perché il Dottore D. Iacomo Cenna in lode di esso Vescouo hauea fatto alcune compositioni latine e uolgari per affiggerle avanti la cathedrale, credendo hauesse voluto fare l’ingresso solenne come l’altri, per non essere riuscito il pensiero fu necessitato a tempo andare a visitarlo e darle di proprio pugno; e sono l’infrascritte.
Nel primo Ingresso del Ill.mo et R.mo monsignor Gasparre Conturla, nono Vescouo nella città di Venusa, il Dottor Jacouo Cenna
Sorgi fuora dell’onde, e, appunta il giorno
Di duppia luce adurno
Sorgi e renasci o sol chiaro e giocundo
E fa più lieto il Mundo
Ne si misi mai piu nemica stella
Questa parte turbano serena e bella
Piu dello usato a dar Tributo al Mare
Con l’unde Ricche, si chiare
Corri Daunia co tuoi Ruscelli e pieno
D’uro e di Gemme il seno
Appurta d’ogni intorno, E si bei cristalli
Liquidar la Ninfa[…] balli
//f.37v.//
Fugga col Gielo, e, co le Nevi il Verno
E torni un Maggio eterno
Con Ruggioduse picole, onde l’Aurora
Con la Terra, orna, e, cadono Smaltino questi colli, e, queste Rive
E sian queste Serbe sempre, verde, e viue.
Lesa si ch’è, felice, è, fortunato
Giorno chiaro e Beato
Giorno fra l’altri degno di Memoria
Di Puema, e, d’Historia
Cossi fermasse il sol mentre ch’io narro
L’Glorie sue per farle eterne, il carro
Questo,e, quel lieto di, signor ch’apporta
Alla speranza morta
Di più vidersi Son Son lieta, è, gradita
Cara desiata vita
Come pioggia importuna a un fior che more
Torna ben spesso il suo vitale[..]
Vedesi può nell’Iuscitati Aspettj
Di questi[….]
Inusitata gioia e par ch’ancora
Nandia le uoci piova
E parlando tra lor co muti accenti
Ti pregon l’anni, è, i, di lieti e cortesi
Come quei che già furo oscuri,e, mesti
Primi di Rei celesti
Che vibran d’ogni intorno a mille a mille
Le Tue luci traquille
Ei hor dallo splendor del tuo bel volto
Par ch’al ciel sia ogn’ornam(en)to tolto
Lo è maggior poiche tu chiaro sole
Non di Rose e Viole
Ma di Virtu di santitate adorno
Questo humano soggiorno
E co bei Raggi di Real costumi
Di quella prima eta Raccendi i lumi
//f.38r.//
Forma no piu Indugiar di fermà il piede
Ch’ogni honor teco viede
Non lasciar piu della tua luce uiua
Nostra patria sia prima
Che queste piagge hor colme d’Atri Horrori
Te videndo apriran Ricchi Thesori
Felice dunque non lui vien concesso
Puter mirar da presso
Questi splendori, questa gran luce accesa
Senza timor d’offesa
Anzi questo più ogn’hor cotemplo,e, miro
Tanto più lieto in lei le luci giro
Cedi al mio Gen, cedi al mio Gen Fetonte
Tu del Tuo Febo in fronte
Mirar no puoi, ne puo mirar la foglia
S’ei vaggi, ei no si spoglia
Et io nel piu bel sol e luminoso
Miro senza Timor lieto e gioioso
Un pastor Venusino cinto d’Alloro
Con bionde chiome d’oro
Presso Daunia con Flauti e passi lenti
Cantaua in dolci accenti
E il ciel cucurde Risunar s’udia
Gaspar Coturla il nome eterno sia.
//f.39r.//
E perché detto Ill(ustrissi)mo e R.mo Vescouo attese sempre a darsi buon tempo, non usceva mai di casa, ma solo attendeva a magnare e bere e dormire, ch’era introdotto il proverbio di esso per qualsivoglia negotio Fati Vuoi. Costui s’ammalò in Venosa nel principio di marzo dell’anno 1640; mostrava non haure febre, ma solo era fatto macilente di faccia; con l’occhii assai intrati dentro; onde per consulta di medici fu ordinato che motasse aere et andasse in Napoli. Dovenchè il primo di aprile l’istesso anno, giorno solenne delle Palme, partì da Venosa et arrivò in salvamento in Napoli, e pigliò habitat ione in Chiaia. Da lla poi venne a governarsi nel monasterio de i Buon fratelli, dove fnì sua vita addì 2 di maggio 1640, il mercoledì ad hore 14. Fu seppellito nel Giesù Novo, dove lasciò suo corpo prima che moresse.
//f.40r// Della chiesa di san Dominico della città di VENOSA
La chiesa di san Dominico con il mon(iste)rio di padri p(re)dicatori ui e anora in detta citta doue tra l’ altre cose degne di memoria, in quella ui si ritroua una croce con l’ immagine del crocifisso tutte d’ Argento, quale per le molte guerre ch(e) si minacciavano nel Regno di Napoli, fu fatto ordine dal catholico Re et Imperatore, che tutte cose d’ Argento, e, tutte campane delle chiese di detto regno, per carestia delle monete, e, de i mi<ta>lli che bisognavano se guastassero, e, delli mitalli se ne facessero artigliarie, e delle cose d’ Argento se ne zeccassero monete, e che tutte se portassero nella citta di Napoli, Doue
Esendo detta croce portata, posta nel foro piu uolte per liquefarla mai ne essa croce, ne l’ immagine del crocifisso che in essa se ritrouaua se poté liquefare, quale miracolo uisto fu ordinato, che detta croce se rima(n)dasse a detto mon(ister)io in VENOSA per il miracolo sopradetto, Vi fu concesso per priuilegio di detto Re a detto mon(ister)io che ogn’ anno di sop(r)a li fundichi Regij del sale in uso di detto mon(ister)io li padri di esso ni partecipassero diece carra, quale privilegio per li successori di Re Alfonso, Re Ferdinando, Re Federico, Carlo Quinto, et altri suoi successori stato sempre confirmato <.>
Tiene detto monasterio molti territorij fertili, quali da in affitto ogn’ anno, molte uigne e censi, et e comodissimo di molte intratet, doue ui stanno di continuo molti padri. Detta chiesa e mon(aste)rio fu edificata da Pyrro di Balzo, all’hora Duca di Venosa. E mentre per fare il castello guastò la cathedrale di detta città, uolse in cambio di quella dare questa di
San Dominico. Al che no uolse consentire il Vescovo, ma fe’ che l’istesso tit(ol)o di S.to Andrea s’erigesse l’altra chiesa. Hoggi dì,e,ornata di belle cappelle et organo, col quale al spesso ui si fa musica, e ui concorre molta gente co molta devot(ion)e. Vi sono due cofraternita, l’una del S.mo Rosario, e l’altra del Nome di Giesù co le loro belliss(im)e cappelle.//f.40v.// Vi è un’altra belliss(im)a cappella, quale si bene era antiqua delli signori Piumbaroli, pure a tempi nostri il signor Francesco Piumbarolo vi ha fatto un belliss(im)o quatro in honore della gloriosa Vergine delli Angeli. In Venosa sono molte famiglie quale si bene non sono Gentilhuomini di quarti e cinquine, puro hanno uissuto nobilm(en)te come se puo videre in queste due famiglie di Capite et di Mazzeo, l’una della quale, cioe i Capite, fe erigere in questa chiesa la belliss(im)a e devotiss(im)a cappella della S.ma Concep(tio)ne della gloriosa Vergine. Muzio Mazzeo eresse l’altra cappella in honore della gloriosa
Vergine dell’Itria per sua deuotione, e uolse in quella fare scrivere il seguente epitaffio per memoria dei suoi gloriosi gesti: Muzius Mazzeus Venusinus(ut pronus erat ad arma ephebus) adhuc equestri militia praeditus, praeter omnium expectationem, non modo aliis se parem redditi, sed eos superauit longius. Hic in profligandis hostibus sic animi uirtutes corporis uiribus exaequavit, ut quas habuit praecipuas haud facile comprehendi poteras. Euocatus autem a Rege Philippo in Trinacriae insulam, incredibili benignitate ac munificientia susceptus et aquilifero munere equestris legionis insignitus, talem se gessit, ut non modo charus sed necessaries quidem consensus omnium dijudicaretur. Inde militarem aetatem excedens, inter familiars ac Regis emeritos condecenti annuoque stipendio super fiscalibus humanissime cooptatus est. Demum indecorum putauit alienis necessitatibus occurrisse, propriis uero salutis animae immemorem esse. Ad patriam reuersus, sacellum hoc Deiparae Virgini ex corde dicavit, et diuersorium prope additum pro tenerrio uiuens sibi delegit. Anno Domini 1597
//f.43r// Della chiesa di santo Augustino nella citta di VENOSA
La Chiesa di santo Augustino con il suo mon(ister)io ui e anco in detta citta, doue ui stanno molti padri dell’ ord(i)ne di Eremiti, quale essendo cascata molti anni sono, et il suffitto detta chiesa andato tutto a terra, parte di q(ue)llo cascò sopra un traue, nel quale ui era un „ immagine di crocifisso immezzo di detta chiesa e ui resto solo senza fracasso alcuno, qualcosa essendo da tutti stata giudicata miracolosa, l’ immagine di detto crocifisso, e, stato tenuta dopoi e si tine con grandiss(im)a deuot(io)ne e uenerat(io)ne . tiene detto mon(ister)io molte intrate di censi, molti territorij, Vigne, fuora e dentro il conuento con belli giardini . Nella chiesa ui sono due co(n)fraternità, l’ una sotto il tit(u)lo disantala Madonna de la Delibera antiquam(en)te fundata, la cui festiuita se celebra adi 2 di Giuglio in detta chiesa, il di della Visitat(io)ne della madonna e per tutto l’ ottauo di quello ui si canta Nona et il Vespro e ui si fa process(io)ne con il S(antissi)mo sacram(en)to . L’ Altra confraternita e instituita per la correggia di santa Monaca doue ui e molta deuot(io)ne .
Dentro il claustro di detto mon(ister)io ui e una pietra di finiss(i)mo marmo con l’ arme di giglij di francia tutta posta in Oro . Et in un’ altro marmo dentro detti claustri si legge
Stirps lodouicus, francor(um) Regis amicus,
Dum fueris simper, regnabis iure potentem .
Dalli quail duoi uersi e maggiorm(en)te dal marmo si puo giudicare VENOSA essere stata medesm(amen)te goduta et posseduta da Francesi, doue et ho hauuto grandiss(im)o desiderio di sapere le pretendente de i Francesi in questo Regno di napoli per il che ritrouato che sopra l’ acquisto di quello si e sparso molto sangue e speso molto oro . E si puo timere che per l’ aduenire si spargera e spendera maggiore.
[…]
//f.93v// Le Famiglie Nobile della citta di VENOSA
I Nobili di detta citta no(n) solo godeno le sopradette prerogative, ma anco a t(em)po l’ Eccelentia del Principe Don Fabritio Gesualdo, bona memoria piglio il possesso di detta citta con l’ Ecc(ellentissi)mo et R(euerendissi)mo Cardinale suo fratello si fe co(n)test(atio)ne tra L’m Vinersita e detto Ecc(ellentissi)mo S(igno)re che l’ officio di mastro giurato se eligesse ogn’ anno in persona di uno Nobile di detta citta e che li dodeci Eletti ch’ hanno da gouernar(e) q(ue)lla sei siano Nobili ,e, de nobilm(en)te uiuano ,e, sei altri siano del populo: la qual cosa dopo alcuni anni uenne in gran lite tra li populani e detti Nobili ; E uedendosi detta causa nel sacro co(n)siglio di Napoli, doue ui si spesero molte centenara di docati tra essi, Fu dal co(n)sigliero Carlo Fenice determinata in fauore de Nobili nell anno 1590 die X Decembris
[…]
III.
Annibale Caracciolo, Discorso della poesia [236]
//f.166r.//
Tutti gli scrittori sono di comune opinione che delle cose oprate prima del diluuio non si ni abbia memoria nulla, fuorche di quello che se ritruoua scritto nella sacra Genesi, e che dopo il diluuio, Gioue auesse mandato duoi aquile, dall’oriente l’una, e dall’occidente l’altra, per sapere doue era il mezzo della terra, e che elle si incontrarno nel monte
Parnasso, nel mezzo dell’Acaia, tra Locri e Focide. E cossi, in questo monte, nel mezzo del mondo, fu edificato il tempio di Diana, quale era da un drago e tre ninfe, balie di essa, guardato. Nell’altra cima del monte era il tempio di Bacco, appresso del quale ui era una uite dalle cui uue ogni disi offeriua il sacrificio a Bacco, et a questo Dio prencipe della poesia, nel mezzo di questo. Nel mezzo di questo tempio staua l’immagine di lui, e teneua nella destera la Diuinatione, e nella sinistra la Medicina, la Poesia e la Musica. Di dentro, le Sibille come ministre delli oracoli, di fuora il coro delle Muse. E perche Apollo altro non dinota solo che la uirtu solare, pero nella suprema parte era il suo loco, dal sole e dal zodiaco di sopra, per doue egli per tutto l’anno trascorre, e di sotto tenea le quattro staggioni. Apollo, presso i Greci, era tenuto dio della medicina, il che dinota la uoce greca
Apolia. Sta depinto giouane con le chiome lunghe e bionde, con l’arco e saette e con la lira in mano. Vi eranodepinte tre attioni di lui. Una e che in atto di pastore pasceua i boui del re
Admeto appresso il fiume Amfiso, dopoi che fu priuo del regimento del carro solare per auere usato uiolenza contra i Ciclopi ministri di Vulcano.//f.166v.// La seconda si e Apollo in atto di leuare la pelle del satiro Marsia, il quale era uenuto in tanta arrogantia che non la cedeua ad Apollo istesso, e del suo sangue ni corse in fiume. La terza attione di Apollo che ni era dipinta, ni era che esso Apollo tiraua l’orecchie a Mida, il quale, ignorante della musica, aueadato la sentenza in favore di Pan, et insieme il mostra il coro delle Muse. La
Diuinatione staua depinta con il liuto in man, instrumento proprio dell’Auguri, e con l’uccello sopra la testa. La Medicina staua depinta con li nerbe in mano e con li ferri nell’altra per mostrare la parte della cherugia. La Poesia e depinta con una tromba in mano, perche il poeta e un trommetta pubblico delli aftti delli eroi. La Musica e depinta con uarii instrumenti di canti e suoni. Teneua nella sinistra la lira e nella destra il plettro. Di dentro erano depinte le Sibille, quale furno donne indouine et ministre di Apollo in dar le risposte, cossi dette perche era loro concesso trarre li diuini consigli. E furno dodeci, cioe la Persica, la Libica, la Cumea, l’Eritrea, la Samia, la Cumana, l’Elispontia, la Frigia, la Tiburtina, la Eropea, la Delerica et la Egitia. Queste prodissero molte cose della uita et mortedel nostro Signore Gesu Cristo, del che ni fan fede Lattantio Firmiano e Santo Agustino. Teneuano costoro un tripode dal quale rendeuano li oracoli et alle uolte li scriueuano in fronde d’alberi. Questo tripode era ancora detto cortina, perche di illa procedeuano li oracoli certi. Dinanzi il palagio doue e la Medicina ui sta locato Esculapio che per la mano tiene Igina e
Panacea sue figliole. Detto Esculapio fu figliolo d’Apollo e di corunice e dio della medicina. Teneua nelle mani un nodoso bastone, per segno della difficulta de la scienza della medicina.//f.167r.// In quello tiene auolto un serpe, nella cui figura apparue a i Romani quando fu condotto il suo simulacro di Epidraio e cio e per segno della prudenza. Dinanzi e il cane, per simbolo della fedelta, delle quale due uirtu deue il medico essere principalmente ornato. Appresso il fonte e il lauro, ad Apollo dedicato. Nel quale dicono fusse cangiata Dafne, figliola di Peneo, da Apollo caldamente amata, et e stimata pianta solare, anzi porta con seco infiniti remedii li quali scriue Discoride. E l’antichi, dalle sue foglie messe nel foco, prendeuano segno delle cose future, perche, si faceuano strepito molto, augurauano assai bene, si non si sentiuano, dauano tristo segno. Altra raggione parue che se douesse porre sotto la protettione del dio della Medicina e della Diuinatione. Fu detto lauro da laude, perche a gl’homini degni di laude, come a poeti o a trionfanti capitani, dopo alcune signalate imprese, se li daua la corona di esso lauro. Cossi medesmamente la lira di Apollo fu quella che Mercurio ni li fe’ dono essendo stata da lui ritrouata, et in cambio di quella, Mercurio ni riceue da Apollo una uerga.//f.167v.// Per le sopradette cause, non senza raggione, si gloria tanto e si uanta la citta di Venosa e suoi cittadini. Nella principal porta di detta citta ritrouansi li soprascritti uersi in sua lode
Sic legitur priscis, antiqua Venusia, Bacco
Et clario dilecta Deo, Patria inclita Flacci,
Altrix Musarum, legumque artisque medendi,
Est vicari semper, numerosos terruit hostes.
Non senza causa dicono che Venosa sia stata madre e nutrice delle Muse, delle leggi e della medicina, percioche antiquamente le Muse furono stimate essere le dee delle scienze, le quali furno cossi dette, come uuol Plutarco e Platone, dall’inuestigatione, percioche e proprio delle scienze con diligentia ricercarne le caggioni di tutte le cose diuine et umane.
Virgilio Marone in uno epigramma esplica li nomi delle Muse e sono: Calliope, Melpomene, Talia, Tersicore, Euterpe, Erato e Clio, Urania e Pollinia. E non solo esplica li lor nomi, ma anco arti et instrumenti da lor ritrouati. A Calliope da la poesia eroica, a
Melpomene da la tragedia, a Clio da l’Istoria, a Talia da la comedia, ad Urania l’astrologia, ad Euterpe da la tibia, a Tersicore da la cetra, ad Erato la lira, e a Pollinia la rettorica alla quale tutta la uirtu uiene infusa da Apollo. E perche Oratio Flacco uenusino poeta illustro la poesia, e fu tanto fauoreuole di quella, con gran raggione se li puo tutte le sopradette cose in suo fauore attribuire. Le Muse altro non denotano eccetto che alcuni effetti o beni che dalli studii delle discipline prouengono, il che si dimostra per lor nomi, percioche Clio denota la gloria, Euterpe il diletto e piaceri che si ha da quelli, Talia uiridita et perpetuita di nome, Melpomene la suauita del canto, Tersicore tripudio et allegrezza, Erato l’amor che dalli studii si richiede, Pollinia le molte lodi, Urania la uita celeste, Calliope la suauita delle
uoci e del parlare. Le quali cose, ognuno uede quanto alle belle discipline se cofanno.//f.168r.// Le immagine delle Muse in alcune medaglie se ritrouano: Clio con una citara ouer tromba per mostrar le lodi ch’ella fa resonar de li fatti delli uomini illustri; Euterpe con due tibie; Talia con una maschera e con la mazza nodosa d’Ercole per la comedia a lei dedicata; Melpomene con un mascherone per il segno della tragedia;
Tersicore con la citara; Erato con la lira e con i longhi capelli conditrice dell’elegie; Pollinia con il barlato da una mano e con la peana nell’altra; Urania, iui con le sette, fa un cerchio, ma meglio con la sfera, perche a lei s’attribuisce l’astrologia; Calliope con un uolume perche descriue i fatti di tutti l’omini illustri. Altri la depingono Euterpe con un flauto in mano e molti instromenti ai piedi, Talia un uolume, Tersicore un’arpa, Erato un squadro, Pollinia un’aria chiara presso la bocca in segno della uoce, et una mano alzata per li gesti delli quali si serue l’oratore, Urania un globbo celeste senza l’immagine, Calliope con un libro solo. Le Muse dunque sono le dee delle scienze, sono dette sorelle e figliole di Gioue e della Memoria, percioche a coloro che uersano nelli studii delle lettere bisognano ingegno per apprendere, e memoria per conservare le cose apprese. La lor balia fu detta Eufere, perche questa mantieneli studii dell’ottime discipline, sono uergini perche li studiosi deuono essere amatori della castita del corpoe dellapurita dell’animo. La loro stanza e ne i monti, percioche lo studio requede la solitudine et un loco doue sia l’aria pura e sottile, appresso i fonti, conciosiacosache altro non sono le scienze che uiue e perpetue fonti dondeche ciascuno puo apprendere quel che conuiene fare ecio che se die fugire. Le Muse delli monti son dette Aonide, Cicheriade, Coricide, Eliconiade, Olimpiade e Pieride. Quelle delli fonti son dette Aganippide, Ippocrene, Pepgaside, Custalie, Libedride e Pimpliade. Li accademici Piaceuoli detti di sopra dissero che per niuna altra causa Venosa fu detta madre e nutrice delle Muse solo che in quella ui si scorgeua il monte Parnasso, che ui e il monte Albo, doue antiquamente ui abitauano le donne monache del ordine di San Benedetto. E sibene quello sorge nel monte dell’Acaia, tra Locri e Focide, come si e detto di sopra, questo monte di Venosa sorge tra la Lucania e la Puglia, piu di quelli fertili e populosi. Il Parnasso auea due cime, l’una detta Icorpea e l’altra Titorea. Ne l’una di quelle era il tempio di Apollo e di Diana, il qual era da un drago e tre ninfe balie d’Apollo guardato, e il tempio di Bacco, appresso al quale, scriue Sofocle che ui era una uite delle cui uue ogni di se l’offeriua il sacrificio a Bacco. Il tutto si scorge nel monte Albo di Venosa, doue sibene da’ cristiani sono annulati i falsi dei//f.168v.// et l’edificii eretti a quelli del culto diuino, sono nientedimeno percio le muraglie antiquisssime che danno segno e testimonianza che detto monte partito in due cime. In una ni si scorge il devotissimo tempio di Santa Maria di monte Albo, che l’antiqui scrittori in cio alludendo e sapendo la stanza d’Apollo e Bacco in detto monte dissero
….. antiqua Venusia, Bacco
Et clario dilecta Deo…..
Anzi li epiteti tutti, a quelli dalli antichi attribuiti, se possono a questo monte assignare con uiuaci raggioni percioche Orfeo sopra l’altri elementi Callimaco chiama detto monte Candido per le neui che spesso in esso di Autunno, Primauera e nel Inuerno si ueggono. E raggiuntando di l’altra parte del monte Parnasso, dicemo che in quello ui era l’antro Coricio dedicato al dio Pane et alle ninfe, cossi detto dal nome di una doncella di cui fa mentione
Strabone, quindi son dette le ninfe Coricidi, delle quale parla Ouidio nel primo del Metamorfosi. Vicino a detto konte Albo si puo uidere l’antro designato da detti s.ri dell’Accademia de i Piaceuoli che ui e nella uigna del dottor Ascanio Cenna, mio padre. In quella ui si puo uidere l’antro Coricio circondato da boschetti di sopra e di costo e di auanti di querce, di mirti, celsi o latri alberi bellissimi et odoriferi fiori e fronde et erbe. Nell’altra parte sinistra ui sono le uite per fare il sacrificio giornalmente al dio Bacco. In detto loco andauano le piu delle uolte le belle gentildonne e altre belle del popolo a tempi delli caldi estiui, et altri tempi a fare recreatione in detto loco. Anzi mi ricordo nel tempo della mia giouentu, nel giorno del glorioso Santo Iacouo apostolo che si fa la festiuita nella chiesa di monte Albo, da lla essere partite per godere detta fiscura di detto loco piu di diece doncelle, le piu belle di detta citta, doue tutto quel giorno ballarno e cantorno in detto loco. Alla fine del giorno, mentre uoleuano partire s’accorse una di quelle auer perso un picciolo specchio dentro dell’ acque, per questo fu necessitato il uegnarulo fatigare un pezzo per ritrouare quello e quietarla e mandarle in lor case.//f.169r.// Soleuano al spesso questi signori della Academia de i Piaceuoli fare recreatione in detto loco. Doue che di Inuerno e di Estate, di giorno e di notte, le dette grotte scaturiua acque piu fredde di un giaccio, e piu limpidissime di un cristallo. E sibene di sopra di dette grotte ui era un bellissimo boschetto, e l’altro nella parte destra, pure auanti di detta grotta ui era una quercia bellissima che daua il fresco a tutti quelli ch’andauano a fare recreatione in dette grotte. Occorse un giorno ch’essendo andato per recreatione in dette grotte, ritrouai ch’uno di detti signori Academici auea scritto nel tronco della quercia che staua dauanti detta grotta in lettere maiuscole DEA PALLAS. E di sotto di detto nome uiera una carta scritta che diceua:
Si quando per fuggir l’altri e me stesso
Fugo dalla citade e dalle genti
E ricerco alcun bosco ombroso e spesso
Due acquietar il di possa la mente,
Se quercie auiene che ritrouo in esso,
Giouene pianta in bel bosco eminente,
Nella tenera scorza intaglio fuore
Il nome che nel cuor m’ha scritto Amore.
E poi li dico con suon tristo e basso:
Cresci e porta nel ciel, pianta felice,
Il sacro nome ch’in te scritto lasso,
Poiche piu celebrarlo a me non lice
Con l’ingegno gia stanco e col stil basso,
A cui l’usata uena il ciel disdice,
C’ho posto gia in silentio il dolce canto E la cetara m’ha riuolta in pianto.
E tienti altera ch’in te l’abbia inciso,
Che ben lo puoi tener nella tua scorza.
Ch’Amor che m’ha d’ogni mio ben diuiso,
L’ha scritto nel mio cuor con maggior forza.
E benche ha spento in me il pianto e il riso,
In te non usara cossi sua forza,
Ma ti farra d’ogni altra pianta uerde
Che per fredda staggion foglie non perde.
//f.169v.//
Piacquero molto alli signori Academici li sopradetti uersi e li lodarno molto, et ordinorno che per alcuni giorni stessero in detta quercia appesi, doue concorsero molti gioueni innamorati e ciascuno in detta quercia scriueua il nome della sua innamorata, si che in breue, detta quercia fu piena di tutte le belle donne di Venosa. Alcuni di detti signori Academici dissero chein parte detta compositione era stata pigliata dal principio della terza epistola di Ouidio, doue Enone dice al suo Paris: Incisa seruant a te mea uersa phagi, e quel che segue. Fu medesmamente detto loco per detta limpidissima et freschissima acqua uisitato al spesso per molti anni dalli illustrissimi Baldassarro Giustiniano Vescouo di
Venosa et l’illustrissimo Lutio Maranta, allora Vescouo di Monte Peloso, li quali con le loro grosse famiglie et amici faceuano sontuosissimi banchetti et grossissime spese in detto loco. Un giorno questi signori Academici, standono nel sopradetto loco in converzatione, fu mosso dubio da uno di essi dicendo che nel monte Parnasso, oltra le cose dette di sopra, ui si scriue ancora che ui e il fonte Castalio, cossi detto da una ninfa che ui si attuffo in quello per non essere d’Apollo sforzata, come ni fa mentione Virgilio nel secondo della Georgica. Fu detto da questi signori che nel supradetto monte Albo ui e il fonte detto di Quattro Catene, che quello era il fonte in detto monte Parnasso per il fonte Castalio. Vi era anco il fiume Cefaso alla cui ripa era il tempio di Temi, doue Ouidio finge di esser arriuato, dopo il diluuio, Deucalione et Pirra, et da lui auer inteso cio che far douesse per la recuperatione delle gente perdute. Di questo fiume ni parla Omero nel secondo del Iliade Pindaro in piu ode degli Olympia. Questo fiume si puo dire chiamarsi l’Apellusa, con la chiesa di Santa Maria in Pasquale che sta in detto monte. Vi era anche nelle radici del monte Parnasso il castello di Dauli, molto celebre per la uiolenza usata da Tireo a Filomena, per cui sono depinti li ucelli che furno cangiati, Tireo, Ieti, Progne e Filomena, la qual fauola e scritta a lungo da Ouidio nel sesto della Metamorfosi. Scriue Pausania che le rondenelle in quel castello non ui fanno nido, come recoreuole del fatto di Tireo. Questa torre se puo dire quella delli signori Viglena.//f.170r.// Alle radici del sopradetto monte Parnasso, ui era la citta di Delfi, molto celebre per l’oracolo d’Apollo, doue concorreva tutto il mondo per le risposte, e per questo Oratio nostro Flacco lo chiamo sortilogo: quos Delphos et Apolline insignis. Voglino che fusse cossi detto da Delfi, figliolo di Nettuno. Vi fu gran ricchezza per caggione de i pretiosi doni che da diuersi re ui erano mandati per caggione de li oracoli e risposte, onde si legge che Filippo re di Macedonia ui mando pure i matoni di oro per farui l’altare, quale cose tutte poi furno saccheggiate da Galli, ma con infelice esito loro, come referisce Liuio. Tutto questo si puo attribuire alla citta di Venosa, edificata nelle radice del monte Albo, doue antiquamente concorreuano tutti i populi della Puglia e Lucania, aueuano l’oracolo nella grotta di Santa Orofina. Era citta antiquamente molto celebre e ricchissima come si e detto di sopra, che a riquesta di M. Varrone, fe’ tanti dispendii alli soldati feriti e fugiti dalla guerra di Canne del popolo romano, li fece tutti raccogliere li feriti, medicare e con uestiti, armi, cauallli e tutte comodita di dinari, essa citta di Venosa li fe’ capitare in Roma. Vi era medesmamente nella ualle di detto monte l’ippodromo, doue si celebravano li giochi Pitii in onor d’Apollo. Aueua di piu questo monte Parnasso altri monti, Citerone dal Oriente et Elicona dal Occidente. Scriue Plutarco ch’egli furno cossi detti da duoi fratelli, delli quali quanto l’uno era uerso il suo padre benigno e grato, tanto l’altro era discortese et ingrato, ne bastando a Citerone auer ucciso il padre, mentre si sforza buttare giu il fratello dal monte, facendo Elicona a lui resistenza, caddero insieme, et in quei monti dalli dei furno cangiati l’uno fertile e l’altro sassoso e sterile. L’Elicona, per la bonta del terreno, per la copia dell’albori et altri salutiferi frutti, tutti l’altri monti, furno dedicati alle Muse dalli Traci, come referisce Strabone, il quale dice ch’essi fussero stati i primi che furno imparati da le Muse. Ouidio dimmanda l’Elicona monte Virgineo, laonde e molto clebrato da Orfeo.
Nell’Elicona ui e il fonte Ippocrene, detto Agrinippide, Pegaseo e Cabellino per essere stato incauato dal Pegaso, cauallo alato qual nacque dal sangue di Medusa uccisa da Perseo. Su questo cauallo, Bellerofonte supero la Chimera e, dopo la caduta di quello in Elicona, Perseo edifico il tempio Ippocrene abitato dalle Muse.//f.170v.// Dal monte Elicona esce il fiume Permesso, molto celebre presso i poeti per essere stato deidcato ad Apollo et alle Muse. Da Esiodo chiamato Termesso. Virgilio nell’egloga X ni fa mentione. Questo fiume in Venosa puo chiamarsi il fiume del Reale. Si uegono i poeti salire per il monte Parnasso da l’una e l’altra parte e cio uiene perche nella poesia ui bisogna la natura e l’arte per uenir alla eccelentia. E pero, l’una e l’altra, guidano i poeti al coro delle Muse,che la natura tiene la girlanda di lauro e l’arte la girlanda di edere, pero e di l’una e di l’altra si soleuano i poeti incoronare, sincome ni accenna Virgilio in quei uersi
[…] Atque sine tempora hanc circum
Inter victrices hederam tibi serpere lauros.
E sincome il lauro e il simbolo dell’eternita che significa la natura, cossi l’edera che sibene di terra e s’appicca per li parieti e per li tronchi dell’alberi, dimostra l’arte che con gran fatiga e lunghi studii s’acquista. Sono per questo i poeti distinti in quattro ordini secondo Aristotele: etici, tragici, comici, lirici. Resta per questo come si e detto di sopra, che con gran raggione si e detto e sempre per l’aduenire se potra dire
[…] Antiqua Venusia, Bacco
Et clario dilecta Deo. Patria inclita Flacci
Altrix Musarum, legumque, artisque medendi.
IV.
Le accademie dei Gesualdo[237]
//157r// Dell’ Accademie della citta di Venosa
La nobiltà medesima(en)te di detta città se può conietturare dall’accademie erette in essa.
E quantunque questo nome d’accademia traha origine da una villa presso Athene, nominata cosi, dove Platone insegnava la sua filosofia, e perche questa scola fu la più celebre dell’antique, quindi e che le radunanze di molte persone di buon lettere han preso questo nome d’accademia, a somiglianza di quella. Non per questo non douemo confessare che l’accademie non sieno state erette, et hoggidi si erigano nelle più nobili e famose città che fussero al mondo, come Napoli, Roma, Siena et altre. E se nei tempi antiqui, per difetto di scrittori, non si legge che nella città di Venosa fussero erette alcune accademie, mentre erano in essa tanti eccelsi et eleuati spiriti, pure a tempo nostro nell’anno 1592 l’Ill.mo Scipione de Monti, retrouandosi con sua moglie e famiglia in detta città, capitanio della nova militia a cauallo, homo in tutte le littere, latine, vulgari, greche e spagnole perfettissimo, uedendo alcuni elevati spiriti giornalmente poetizzare, anzi istigato un giorno dal dottor Ascanio Cenna mentre l’invio l’infrascritto epigramma: Ad Ill.mum D.
Scipionem de Montibus
Ascanius Cenna Venusinus
Mons pie, musarum requies, mons floride, cujus
Et mirtum et laurum grande cacumen habet: Unde emanant fonts, quorum dulcedine vates
Sacra canunt, priscis abdita temporibus.
Sic te divorum pietas divertat ab omni
Fulgure, et optatos praestet ab inde dies!
Fac ego montano praecingar tempora mirto,
Delibemque sacras fontis angelus aquas,
Ut ualeam postac tecum traducere vitam,
Chaonidumque sacras tollere ad astra deas.//f.157v.//
Nam sine te, quemque dehiscare musa poetam
Abnegat. In te uno spem tenet omnibus amans. Ergo age, neu praecibus desis, neu iusta petenti
Obsistas: ius est hic honor atque labor.
Fu di parere erigere un giorno in detta citta di Venosa un’accademia delli piu eleuati spiriti che se ritrouauano in essa instrutti nella poesia.Et hauendo comunicato questo suo desiderio con il signor Gio. Antonio Rossano che all’hora era accasato in detta citta e con molti altri diede principio a detta accademia e la intitulo l’Accademia delli Piacevoli
Venusini e con esso aggrego l’infrascritti:
L’Ill.mo D. Scipione de Monti- Prencipe dell’Accademia
L’Ill.mo D. Camillo de Monti, detto l’accademico Cortese
Il signor Gio. Antonio Rossano, detto l’accademico Risvegliato
Il signor Marco Aurelio Giustiniano, detto l’accademico Amoroso
Il dottore di legge Ascanio Cenna, detto l’accademico Grave
Il dottore di legge Gio. Battista Maranta, detto l’accademico Pensoso
Il dottore di legge Gio. Cesare de Marinariis, detto l’accademico Infiammato
D. Loyggi Maranta, Theologo, detto l’accademico Consante
Il dottor medico Vincenzo Bruno, detto l’accademico Tirinculo
D. Achille Cappellano, Primicerio, detto l’accademico Sottile
Il signor Horatio Caputi, detto l’accademico Bidello
Il signor Manilio Cappellano, detto l’accademico Incognito.
Il signor Giustiniano d’Altruda, prof. in legge, detto l’accademico[…]
Leone Barone, detto l’accademico Indegno
Horatio de Gervasijs, detto l’accademico Povero
Pompilio Russo, detto l’accademico Esercitato
Gaspare Ciliberto, detto l’accademico Faceto.
//f.158r//
Questi signori accademici per molti mesi e giorni se intertennero con questo honorato esercitio, e faceuano ogni di congregatione nel studio del suddetto signor Primicerio D. Achille Cappellano: nientedimeno un giorno nel principio di detta loro Accademia se ritoua sotto uno scacchiero sopra una Boffetta l’infrascritto sonetto
Spirti gentil, che le labbra auete
Umide, sempre nel diuin liquore
Per cui uita retien uom, siben muore,
E non li fa temer orma di Lete,
Vorria smorzar tra uoi l’ardente sete
Ch’accende in se desio di farui onore,
E sacrarui quest’alma e questo cuore,
Per palesare al mondo quel che sete.
Ma in me raggion via piu ch’el desir puote,
Che, pria che lingua per lodarui sciolga,
La man refrena et il mio dir percuote.
Si ch’a forza conuien ch’a dietro uolga
Accio l’indegnita delle mie note
L’onor ch’a voi si deve, non ui tolga.
Questo sonetto cossi nascostamente ritrouato fu letto in presenza di tutti li signori dell’accademia e causo in essi marauiglia assai per non potersi saper l’autor chi fosse. Doue che leggendosi e perleggendosi piu uolte quello, non se potè scoprire mai che fosse stato tanto desso a ponere detto sonetto senza loro saputa. Anzi giuiuano del desiderio di quello, mentre nel suo poema se dimostraua desideroso di uoler tra essi loro aggregarsi in detta accademia. Doue che, poco di poi, auendolo posto nell’istesso loco l’infrascritto poema dedicato all’accademico nominato il Bidello
//f.158v.//
Cossi ui cinga l’oronata fronte
L’arbor d’Apollo e „l petto col sen u’ infonde
L’acque che d’Ippocrene orna le sponde E fa fiorire di Parnasso il monte.
Cossi le rime nostre, ornate e pronte,
Vadin mai sempre a i bei sospir seconde,
E doue Febo scopre, e doue asconde
Il raggio suo, sian manifeste e conte.
Come io uorrei, Bidello, a gl’amorosi Comenti uostri, almeno in proue, al segno
Che di stupor fanno tanti animi il ciglio.
Prega per me tu, di Latona il figlio, Che infonda al petto mio, quantunque indegno,
L’alti secreti tuoi a me nascosi.
Fu scouerto dalla spia e chiamato in presentia di tutti i signori accademici, il signor
Manilio Cappellano. Non puote tanto scusarsi ch’alla fine non confessarsi il tutto auer fatto inuidioso molto d’esser aggregato con essi loro in cossi nobile esercitio, offerendosi d’allora in poi esercitarsi con essi loro, a quanti dall’ill.mo Principe di essa accademia li richiede. Per la qual cosa, fu da quelli si riceuto carissimamente, e darli il nome dell’accademico Incognito, et aggregato nel numero di essi, ne fu imposto all’accademico Bidello che rispondesse all’ultimo poema scritto da detto accademico Incognito. Doue che da quello, per l’istesse conoscenze, fu inuiato l’infrascritto poema che segue //f.159r//
Risposta
Ridendo, a che piu preghi con man gionte?
Mi disse Apollo, ch’el dir uago infonde.
Colui le sue uirtu con uoi nasconde
Per farle in altro tempo al mondo conte.
Tutte le uie sa ben del sacro monte,
Conosce e tratta le chiare acque e monde
Del celebrato fonte oue s’infonde
Per dar corona all’onorato fronte.
Con atti, poi soggiunse, men festosi:
Che non preghi per te, Bidello, degno
Non d’un sol cippo, ma di lungo esiglio?
Egli ha passato, e tu non giungi al segno.
Cio detto sparue, e con occhi sdegnosi
Mi fe’ tremar, ond’ho turbato il ciglio.
Fu lodato molto il sopradetto poema da tutti signori accademici, e lodorno infinitamente l’accademico Bidello che s’era fatigato in quello. E mentre l’uno, inuidioso dell’altro, pensaua giorno e notte qualche strauagante soggetto col quale potesse comparere in cossi ornata compagnia, ecco che repentinamente un giorno furno tutti congregati nel loro solito loco e dettoli che per corriere, da poeti della citta di Bari, erano stati inuiati ad essi signori accademici molti poemi, quali furono letti e reletti in presentia loro e furno lodati di molta scienza. Et fu imposto dal Principe dell’accademia in farsi alcuna bella e dotta risposta coforme si spraua in essi.
//f.159v.//
Alla molto eccellente e uirtosa accademia de’ Piaceuoli di Venosa
Donna, che in Cipro, in mare, in terra e in cielo
Regni fra stelle, ninfe, onde e uiole,
Qual stella in ciel, che sorgi innanzi al sole,
Diurna luce e dietro oscuro uelo
Qual figlia in mar, Dea in Cipro, Apollo in Delo,
Paueggi con trofei d’eterna mole,
E focosi pensieri, atti e parole,
Qual ninfa in terra accendi, opposta al gelo
Ecco ch’una leggiadra e dotta schiera
Di piaceuoli poeti, ordendo, al segno
Del tuo nome gentil, girlande e fiori,
Or uenga in terra i pargoletti amori.
Or i lumi del ciel alza il disegno
Or a Cipro, or al mar, la mente altiera.
Quiui spiegar si uede occulti ardori
Sotto incognit stil. Quiui andature
Liete, sotto color di sorti oscure,
Tra purpuree rose e uerdi allori.
Quiui sotto pensier di nuoui amori
Antique fiamme,e sotto aspre figure
Viole dolci, amorose alte testure,
Tra piaceuoli fronde e bei lauori.
//f.160r.//
Vanne Venosa ormai, ricca e gioiosa
Di nuouo onor, di nuoue imprese, ardente,
Cangia, diua gentil, l’antico seggio,
Che del suo mal presaga, il uecchio freggio
Sospira, e se ne ua mesta e dolente,
Tratto ha uiuo ualor Cipro, in Venosa.
Venusinae accademiae quae Placidi inscribitur
Quos italis nuper libuit mihi uisere metris His ego nunc elogiis, Cypria diua loquor.
Pauca prius retuli Veneris sub numina blandae
Et modo sub Veneris, numina pauca feram Quam bene res gessit Venusini nominis ortus.
Inclitus ex Veneris nomine nomen habenda ars
Hic Albi feriunt eleuato uertice montes
Sydera, et arbori bus florida membra gerunt
Ima petra, gelidae ualles, mirteta uirescunt, Aurea mala uigent, punica grana iubent.
Hic quadri casum, referens philomela dolentem.
Hic plorat lacerum, Daulias alas Itym. Hic aliae modulantur aues, caua saxa loquunt, Vernat ager, resonant flumina, prata uirent. Hic solitae Nymphae, uarios decerpere flores, Et uaria nitidum cingere fronda caput. Puniceo crocas redimere papauere uestes, Et laetos, laeta ducere fonte, choros. Hic liquido placido labentes murmure fontes,
Undique frondiferis rupe tegente comis.
//f.160v.//
Moenia prisca fouent urbem patriosque penates,
Moenibus auxilio delubra prisca foris,
Denique, cum Cypriae Veneris ter grata uoluptas
Hic dent Veneri ter locus aptus erat
Insuper ardenti ueneranda Venusia classis Ferre tibi poterat stegmata sola Venus. Hinc rutilans tanti praefers insignia ducis Et puer in quo sit, hac duce, ludit amor. Perge hilaris coeptis adsit fortuna secundas, Ad superos actus, euehat usque tuos.
Hac placid placidum ueneranti carmine coetum Bis placidos placido pectore redde sonos.
Furno molte le risposte in Vulgare et in Latino che se rimandarno in lode dell’authore che s’era degnato scriuere in lode di questa honorata Accademia, ma perché all’hora mi ritrouai nella citta di Salerno per li studii de legge e sacri canoni non hebbi persona che hauesse hauuto pensiere di raccogliere tali belli poemi gia che non sauo alcuno mai che di essi, se ni hauesse hauuto da far accoglienza: si bene m’e capitata nelle mani un esortatione fatta dal Principe dell’Accademia a tutti s.ri Accademici che uogliano attendere giorno e notte alli studii della Poesia esortandoli a quella caldamente giache il perfetto poeta ha in se tutte altre scienze che sono nel mondo come per l’esperienza se puo uidere e l’Esortazione fu questa che segue
//f.161r.//
Conoscendo in uoi, molti eccellenti signori, quanto sia ardentissimo il desiderio di poetare, mentre uniti ui uedo tutti in questa nostra accademia, non ad altro effetto, per questo li dico che il poeta che ueramente e tale, in nome e in fatti, deue essere capace di tutte arte e scienze, percioche con quelle abonda di tanto merito e di tanta eccellenza che ingombra il mondo di altissimo stupore. Percioche non e materia umile, uaga o deletteuole o rara e graue che non sia dalla leggiadra sua penna con parole geniale uestita. Il poeta, alle cose morte, da co’suoi uersi finta uoce e uita. Nell’elegia fa sentire le querele e uedere le lacrime dell’afflitti. Ne i suoi poemi non si legge, ma si uede, il foco dell’arse citta, il sangue dell’uccisi, il filo dell’armi, l’ali de i uenti e de i caualli. Il poeta, molti anni innanzi di Platone et Aristotele et d’altri filosofi, tutti l’ammaestramenti filosofici insegno sotto alcuni uelami. Con la fauola di severissimi che nell’Inferno giudicano l’anime di tutti i morti e danno a i maluagi supplicii grauissimi, cerco il poeta destorre da i uitii le persone universalmente. Con la sete di Tantalo, dall’auaritia procuro leuare l’animo altrui. Con la fauola di Licaone, ritrarre l’omini dalle scelerate opinioni. Con la calamita di Bellerofonte, abbassare la temerita. Con la pena d’Issione, spaventare i mortali dall’inonesta operazione.
Con la fauola di Febo che sia stato pastore delli armenti di Ameto, manifesta l’incostantia dell’anima. Col raccontare che i Ciclopi fabbricassero le saette a Gioue, e che Febo li uccidesse, e che Venere fusse di spume generata, scoperse i secreti della Natura. Con le fatighe di Ercole, ad eccelse imprese infiammo. Con la ineffabilità de i campi Elisi, all’integrita della uita, alla fede, all’equita, alla religione et a tutte le uirtu alletto la merauigliosa forza del poeta[238].
[…]
Quanto ha scritto Omero, poeta greco, Virgilio, poeta comico, Oratio uostro, poeta lirico, emolti altri che sarria assai lungo a raccontarli tutti, è pieno di moralita e di documenti filosofici. Per la qual cosa, conoscendo quanto sia ardente il uostro desiderio di poetare, mentre ui scorgo riuniti insieme in questa nobile accademia, non ad altro effetto percio l’esorto tutti a perseverare in questo incominciato studio. Percioche e cosa degna d’ammirazione, uedere in questa uostra citta li nobili et ignobili, litterati et plebei, nella citta et boschi e uille, giornalmente, poetare, come che in Venosa se ritrovasse l’abitatione delle Muse e non piu nel loro Libetro. Finita dell’Ill.mo principe questa ouazione, li sopradetti signori dell’accademia se leuorno tutti in piedi e facendoli umile riuerenza, lo ingratiarno infinitamente. Dopoi, il signor Giouanni Antonio Rossano, scriuano dotato di bellissime leettere, della //f.163r.//cui persona al spesso la fedelissima citta di Napoli se seruiua in tutte le sue occorrenze, si per la Regia Maesta in Spagna, si anco in tutti altri potentati, ringratiandolo cossi in nome di tutti, cossi brevemente comincio:
Illustrissimo signore, di cui degni meriti per le sue rare e uirtuose qualita sono non solo degne da essere celebrate da tutti uiuenti, ma di singulare stupore e consolazione presso tutti i populi d’Italia, doue che non senza causa sparso e il grido per il mondo tutto dell’eroiche gesta di questa ill.ma famiglia de i Monti, onde si puo, anco senza errore, affirmare che, sincome i monti sono un principale ornamento et una speciale bellezza del mondo, cossi e non altrimenti si scorge nella famiglia di V.S. Ill.ma8.
[…]
//f.165r.//
Ch’in Venosa signor, come ognun uede,
Vadino li poeti a schiera a schiera
Marauiglia non e, poiche la uera
Delle antique sorelle e qui la sede.
Qui nacque il Flacco delle Muse erede,
Qui l’Eustachio Diuin che con sincera Nota descrisse il mondo e si non era
Dal Frezza occulta, l’opra, farria fede.
Qui nacque il buon Tansillo, siben Nola,
Priui di mirti e uerdigianti allori,
Non senza inuidia la sua gloria inuola.
Qui nacquero i Maranta, i duoi scrittori,
L’un della legge e l’altro della scola
D’Esculapio: ambi duoi canori://f.165v.//
Molti altri auria da dir ma mi consiglio
Lasciarli, giache l’opre son si pronte
Che li dara perpetua uita, e conte
Andran col tempo, a par senza periglio.
Ma, a che la fronte increspi e inarchi il ciglio,
A che fauelli del Vulturio monte,
8 Seguono una trattazione geografica e mitologica di monti noti e la presentazione di due componimenti, in risposta agli elogi fatti dal Monti alla citta di Venosa, che occupano i ff.
163r-165r.
A che del Albo e Trichitinio fonte
Due alberga finor Latona e il figlio?
Ma, a cio non resti pur marauigliati
Senti quiui cantar uillani e putti
Dirrai che metri fanno alla sicura.
Cio per arte non e, ma di natura,
Ch’auendo gia le Muse cosecrato Il loco, poetando parlam tutti.
[…]
//f.171r.//
Dell’Accademia dell’I.ll.mo et Ecc.mo Signore Don Emanuele Gesualdo, Prencipe di
Venosa, intitolata l’Accademia dei Rinascenti.
E continuata l’antiquità e nobiltà della citta di Venosa medesmamente insino al tempo dell’Eccelentia del signor Don Emanuele Gesualdo, Prencipe di quella, quale fu proprio nell’anno 1612. Retrouandomi con esso lui giornalmente a passare il tempo a giochi di schiacchi, doue che sentendosi verso il fine del mese di marzo un caldo estremo, e tale che, per la stagione del crudelissimo inuerno passato, daua segno di douere essere eccessiuo et intollerante nella prossima estate, fu il detto Prencipe di parere che, prevenendo a i tedij che da l’otij disordinati, i quali in simili intemperie da infiniti disagi accompagnati sogliono accadere, se ritrouasse alcuno giovevole rimedio a fine che, pascendosi la mente di sano nutrimento, hauesse il corpo scampo dall’imminente pericolo. E volle che, fatta una scelta de i piu eleuati ingegni de i suoi piu cari e familiari, cossi della corte come di piu nobili della citta, douessero e questi e quelli unirsi nel suo castello, doue due volte la settimana formassero una nuova accademia, acciocche in tal guisa con grato intertenimento uenessero i spiriti a sollevarsi, trattando di utile e vaghe materie, concernentea uarie scienze. E diede a ciascuno il carico conforme il proprio talento di cio che s’haueua di continuo a proporre. Peroche alcuni theologi e filosofi, altri legisti, alcuni altri in poesia dedicati si scorgevano e con questi essendone alcuni di non minore stima uniti, ordino il detto Signore si desse principio.//f.171v.// E percio a di 26 di detto mese furno tutti congregati nel castello, e distribuiti l’officij. Fu creato il principe dell’Accademia e formati l’assistenti, il secretario, il lettore, il bidello et altri conforme l’antiqui instituti. Doue dopo l’essersi posto per ordine ciascuno a sedere, parue al Prencipe che se douesse prima d’ogni altra cosa trattare dell’Accademia e del esercitio di essa; e percio egli stesso comincio in guisa di discorso summamriamente a dire da donde traha origine questo nome d’accademia, et a somiglianza di chi ha preso questo nome, sincome si è detto sopra,nel principio dell’Accademia dei Piacevoli. Soggiunse poi a ragionare di varij esercitij di littere che in essa si fanno, e come ciascuno dell’accademici doveva adoprarsi in far varie lettioni, dispute, opposizioni, dichiarazioni, ciascuno secondo la sua professione. Ma perche la prima cosa che s’aueua da fare era il formare l’impresa universale, e ciascuno la sua particolare, per questo raggiono egli come se doueua formare l’impresa, dichiarando alcune regole piu receuute dalla maggior parte dell’authori che di quelle trattano, per quanto la brevità del tempo comporto[239]. […]
Cio detto fu fatta resolutione et concluso da tutti accademici che per la segeunte congregatione, che doueua farsi nel prossimo lunedi sequente, imperocche questa prima era cominciata nel giovedi e che cossi per l’aduenire se douesse per ordine successivo in detti giorni farsi detta accademia, congregatione et unione di essi accademici. E che ciascuno di essi signori douesse produrre l’impresa sua, fatta con quelle leggi con le quale erano gia state dichiarate. E che per ordine si affliggessero nel loco di detta congregatione, accio da tutti si potessero uidere et leggere. Et fu all’istesso tempo dal lettore presentata l’impresa di
essa Accademia da farsi con un sonetto in dichiarazione. Quale essendo letto, fu dal Prencipe et da tutti altri signori accademici approbato et per ottimo acclamato et receuto. Il corpo dell’impresa si era//f.174r.// un cucullo seu follaro(follicello o filugello) da donde usciua quel farfalletto, cioe il uerme di seta, con il motto imbuet alas; et il nome imposto all’istessa Accademia si era di Rinascenti; et il sonetto che seruiua per l’istessa impresa faceua mentione di tutte le parti di essa, come che douesse dar esempio al mondo di comporre. L’impresa fu letta nel conspetto di tutti, e diceua in questa maniera:
L’animal rinascente et immortale
Che da piccolo seme in sen portato
Esce uerme gentile, o forma nato
Carcer pietoso alla sua spoglia frale,
Dedal nouello, indi poi spiegha l’ale
Per volar no, ma per poggiare ornato
Oltra i confini del mortale stato,
Schermendo della morte il fiero strale
Ecco che col bel velo onde si copre
Spesso il suo piccolo corpo, e sempre il mondo,
Serve di corpo inuece i spiri spenti.
E l’unica virtù, ch’altri discopre
Fra brevi tele del suo nobil pondo
Serve d’anima inuece ai Rinascenti.
Dopo d’essere stato letto il presente sonetto dal lettore dell’Accademia, del cui ingengno era gia stato degno parte stimato, fu per all’hora imposto fine al dilettevole esercita mento, commettendo a tutti che per la prossima giornata uenesse ciascuno all’hora determinata, adducendo seco l’impresa insieme col nome, con che nell’Accademia deue essere chiamato. E per occasione di componimento propose il lettore e diede ampio campo di poetizzare ai versificanti nella morte di Cristofaro Clavio, astrologo et matematico celebratissimo, che era stato uno delli piu dotti dell’eta nostra.//f.174v.// Venuti tutti i signori accademici coforme l’introdutto costume nel luogo destinato, prima d’ogni altro cominciamento, furno dal secretario receute le noue imprese, e con curiosa attenzione lette et ascultate, le quale per essere assai facile ad essere intese da chi non sia del gusto de sì uaga compositione a fatto degiuno, saranno da me solo scritte, e senz’altra dechiaratione referite. La primafu quella del meritassimo Principe dell’Accademia, il padre Anello Gesuita, che s’intitulaua l’accademico Segace: haueua per impresa un bracco cane che staua in atto di cercare in una campagna, con il motto contecta detegit. Il secretario dell’Accademia era Annibale Caracciolo; s’intitulaua l’accademico Ardito: haueua per impresa un Pegaso uolante, con il motto che diceua nihil inuium . Il lettore si era il signor
Don Emanuele Gesualdo, Prencipe di Uenosa; s’intitulaua l’accademico Schiuo: haueua per impresa uno elefante in un prato con un topo uicino, con il mottoche diceua nauseat intuitu.
Il primo assistente era il dottor medico Vincenzo Bruno; s’intitulaua l’accademico Turbido: haueua per impresa un fonte d’acqua turbida, con il motto che diceua interius clarior. Il secondo assistente era il dottor medico Camillo di Luca; s’intitulaua l’accademico Rauiuato: haueua per impresa un carbone acceso con alquante legne intorno, con il motto che diceua flammescet. Sequea dopoi il dottor Cesare Principe, governatore di Venosa; s’intitulaua l’accademico Rinforzato: haueua per impresa un’aquila invecchiata che batteua il becco nel sasso, con il motto frangitur ut frangat. //f.175r//Sedeua presso il sudetto il dottore Don Iacouo Cenna, Archidiacono di Venosa; s’intitulaua l’accademico Viuace: haueua per impresa il fiore della sempreuiua, con il motto semper idem. Vi staua di presso il dottor medico Pompilio Russino; s’intitulaua l’accademico Esercitato: haueua per impresa una cerua con un ceruiotto, con il mottout tuta quiescam. Sequiua dopoi il dottor Fabritio de Pilli; s’intitulaua l’accademico Oscuro: haueua per impresa depinto un cathenaccio todesco, con il motto unico nomine. Seguitaua nella parte sinistra il padre theologo fra Lorenzo di Terlizzo; s’intitulaua l’accademico Conosciuto; faceua per impresa un giglio in campo di uespri e spine, con il motto lilium inter spinas. Sequeua appresso Gio.
Antonio Cappellano, capitanio del battaglione; s’intitulaua l’accademico Pronto: haueua per impresa un arco con la pharetra carca di saette, con il motto mi riposo non es flaquega. Staua di presso il signor Iacouo Suaue; s’intitulaua l’accademico Veloce: haueua per impresa un cane leuriero che drizzaua il corso dietro una fiera, con il motto che diceua insegua. Seguiua dopoi il signor Bernardino Cenna; s’intitulaua l’accademico Ringiovenito: haueua per impresa un serpe che di noua spoglia se reuestiua, con il motto iterum aephebus.
//f.175v.//Appresso dopoi sequiua il signor Mattheo Cauaselice; s’intitulaua l’accademico Infiammato: haueua per impresa un torchio acceso combattuto da uenti, con il motto che diceua aduersis clarior. Sequeua appresso il dottor Jacouo Nigro ; s’intitulaua l’accademico
Rinfrescato: haueua per impresa una fonte con molti riui di cui l’acqua una sola sponga succiando recoglieua, con il motto non semper arescet. Appresso dopoi sequeua il signor
Andrea Mattheo di Ruggiero; s’intitulaua l’accademico Generoso: haueua per impresa uno sparuiero beccando una quaglia, con il motto nobiliora petit. Sequia dopoi il signor Mutio Monaco; s’intitulaua costui l’accademico Suegliato: haueua per impresa una leonza con i leoncini, con il motto che diceua sopitos commouet. Appresso di questo sequiua il signor Ottauio Alberti; costui s’intitulaua l’accademico Tempestoso: faceua per impresa un delfino nel mar turbato, con il motto che diceua aduersis super eminet undis. Ultimo vi sedeua il signor Paulo Sarluca; s’intitulaua costui l’accademico Vago: haueua per impresa una colomba che se rimiraua nell’acqua, con il motto gaudet intuitu.Furno dal signor Anibale Caracciolo secretario receuute tutte le suddette imprese con li motti e nomi e cognomi di quelli; e perché erano tutte pintate in carte reale, fu per ordine dell’Eccellentia del Principe dell’Accademia comandato che se ponessero nel muro affisse, con ordine come nelle precedentie dette di sopra//f.176r.// et essendo stato eseguito con Uniuersale delettamento, nell’istesso giorno, comparsero l’infrascritti sonetti, l’uno uenuto dalla gran citta di Bari, in lode dell’eccellentia del signor don Emanuele, quale era stato capo in erigere detta accademia, e l’altri, fatti dalli stessi signori accademici per la morte del padre Clauio.
All’Ecc.mo S.re don Emanuele, principe di Venosa per l’accademia ivi eretta
Nel uenusino coro,
Entro al natio splendore,
Ove riluci in glorioso onore,
Rinoui il secol d’oro,
Gran Gesualdo, mentre al giusto impero
Tranquilla pace accresci et amor uero,
Non turbidi pensieri
Nutre popol suggetto,
Né signoreggia ingiusto e uano affetto
In personaggi altieri, Ma la raggion, qual chiaro sol, gli sgombra
Dalle nubbi del senso ogni uan ombra.
Or mentre lieta pace
Si gode in bel riposo,
Doppio Anfione insemini, in glorioso
Stuolo d’erba uiuace, Perché di signoria l’imperio è l’uno,
L’altro di senno altrui sempre opportuno.
//f.176v.//
Venosa, madre antiqua
Di spiriti famosi,
D’eroichi studi, pegni gloriosi,
Mentre nutrisci amica Parti che di celeste ambrosia pasci,
All’antiquo tuo onor, lieta, rinasci.
Ode la dolce lira
Quel tuo famoso Flacco
Per tutto resonar, onde di Bacco
L’isola tutta ammira
E „l Latio che per lui d’antiqua gloria
La Grecia avanza et se ne gode e gloria.
Diuersi or son l’accenti
Da quelle prische leggi,
Canta di Mecenate egli i gran preggi
E l’aui illustri, intenti
Al ben altrui, onde la fama ha pieno
Della sua gloria, li nutrisce in seno.
Ma tu con uarie tempre
D’eroi che, trombe unite
Cantan del tuo signor lode gradite,
E gl’aui regii sempre
Ricchi d’imperi e di coron serbate Al gran Emanuel or mecenate.
//f.177r.// Sonetto del Principe dell’accademia intitolato l’accademico Segace
Fu angusto giro al tuo eleuato ingegno
Questo da Dio creato immenso mondo,
Fu lieue al tuo saper ogni gran pondo,
E breue cifra l’arenoso regno.
Fosti nouello Atlante al ciel sostegno,
Che di lui penetrasti il gran profondo
E festi noto a noi l’ampio suo tondo,
E dell’aurate stelle ogn’alto segno.
Ben è raggion che la tua mente s’orni
Di rai di gloria e di stellanti lumi,
Che uerso il ciel drizzò tutti i pensieri.
Altre grandezze or uedi et altri giorni,
Senza mutar di tempi e di costumi,
Senza girar de gl’astri or grati or fieri.
Sonetto dell’accedemico Ardito
Come nocchier da riue strane e ignote,
Citadino celeste, or Clauio riedi
Nel patrio lido, oue ti posi e siedi
Fra Cinosura e „l gelido Boote.
Quiui di mille stelle erranti e immote
Godi propinquo il lume e, lieto, uedi
Come del ciel le più riposte sedi
Aperte sono nelle tue carte e note.
//f.177.v.//
Et e raggion che di disaggi, al fine
Del camin dubbio gionto, iui ormai prendi
Dolce riposo e dormi un sonno eterno,
Mentre da mille forme alme e diuine,
Endimion beato i baci accendi,
Sopito, in grembo al grato Motor attendi.
Sonetto dell’accademico Schiuo
Mentre a noi ti ritolse invido Cloto,
Clauio famoso e, nell’eteree e belle
Stanze ti collocò, pur su le stelle
Camin prendesti a te già conto e noto;
Chè, ben sai tu, dell’alte sfere, il noto,
E l’ampi giri, e qual sian fra quelle
Le stelle a noi benigne o pur rubelle,
L’orto, l’occaso, il trepidar del moto,
E ben sei degno che l’eterne faci
Seruan di lume ai spirti in uece estinti,
Se lume desti in uita al lume loro,
E che la luna e il sol, l’argento e l’oro,
Scaccin dal uolto in nero eclisse auinti
Carbone in lutto, i loro ostri uiuaci.
Dopo che furono con universale delettamento letti et riletti tre uolte, con somma auuertenza e nella pronuntia e nelli liniamenti di periodi, dal saggio Lettore e con tutto che nel suono e nella eloquatione e nel concetto paressero più che buoni, uolle nulla di meno il Principe//f.178r.// che non prima fussero degni di perfettione giudicati, che fussero seueramente uisti et esaminati, perciò comando tosto che l’accademico Rauuiuato douesse quello del Sagace con ogni diligentia censurare et emendare, et l’accademico Schiuo defenderlo e con ogni fedelta respondere ai dubii a fine che nella sequente giornata, nel pubblico potesse farsi il giuditio. E perché l’hora era tarda, se pose fine, e fu determinato che per l’aduenire, ciascuno delli signori accademici auesse da recitare una lettione coforme la sua professione, uno per qualsiuoglia giorno dell’accademia, cominciando la prima giornata dal Principe di quella, successiuamente continuando. Quale rispose uolere comiciare i principi retorici di Aristotele nella sequente giurnata, e cossi fu concluso che nel’istesso giorno se censurasse il sonetto coforme l’ordine dato.
Et perché alcuni pedanti aueuano supplicato uoler essere ammessi nell’istessa accademia di Rinascenti, fu fatto decreto che in conto alcuno douessero essere ammessi nel consortio di essa, perochè la prattica di essi era periculusa, e bisognaua sempre uolgergli la fronte, guardando che non se ponessero ad alcuno sedere appresso. E con cio si diede fine per quel giorno a quel che l’Esercitio Accademico recercaua.
//f.178v.//
Giornata terza
Era gia l’hora destinata dell’unirsi insieme uicina et il Principe con molti di Rinascenti era all’oratione per dar principio, quando ecco gionti gl’altri che sino all’hora che di poco solliciti erano stati tacciati, cossi in un stuolo raccolti giustamente a sedere se poneua, ma il Segace che della cui ordinaria lettera haueua il peso, non restando altro da fare, uedendo netti in lui gl’occhi di circostanti uolti come colloro che stauano con attenzione desiosi che cominciasse, nella cathedra saliua uedendo ciascheduno tacer con l’idioma altino assai elegante comincio
[ Inizia un discorso in latino riguardante la retorica e le quattro discipline ad essa subordinate: Grammatica, dialettica, arte poetica e arte epistolare. Il discorso si chiude a f.181r.]
//f.181v.//
Dopoi ch’el Segace ebbe finito di dichiarare i primi termini rettorici perendo a ciascuno che si fosse detto abastanza e con fruttuosa conditione d’eleganza non rimanendo altro da fare, il Rauuiuato non aspettando altro comandamento, comicnio a leggere il sonetto composto nella morte del Clauio, se scusando prima con il Segace, laudando non poco l’autore, e disse che egli ueniua forzato dalle leggi dell’accademia ad oppugnarlo. E cio detto, diede comici mento all’opra, leggendo in questa guisa
Fu angusto giro al tuo eleuato ingegno
Questo da Dio creato immenso mondo,
Fu lieue al tuo saper ogni gran pondo,
E breue cifra l’arenoso regno.
Fosti nouello Atlante al ciel sostegno,
Che di lui penetrasti il gran profondo
E festi noto a noi l’ampio suo tondo,
E dell’aurate stelle ogn’alto segno.
Ben è raggion che la tua mente s’orni
Di rai di gloria e di stellanti lumi,
Che uerso il ciel drizzò tutti i pensieri.
Altre grandezze or uedi et altri giorni,
Senza mutar di tempi e di costumi,
Senza girar de gl’astri or grati or fieri.
Piacque sommamente all’ascoltanti per li segni che di fuora appariuano, il sonetto del
Segace, giacche un latra uolta era stato letto come di sopra. E mentre con cenni e taciti sussurri fra loro assai aperto dimostrauano il desiderio ch’aueuano d’udire le sottigliezze et l’opponimenti che in // f.182r.//contrario poteuano insorger, Fatio prima un cortese proemio del censore scusadosi che forzata mentre uiniua ad essere in disparer co piu dotto soggetto ch’esso non era, comincio il Rauuiuato a dire che come faceua a saper a ciascuno che non poco era da reprendere il gia lodato componimento.
E per la prima dispiace al censore che, censurando il primo uerso comme ua, sia di dodeci sillabe, non potendosi fare l’accorciamente a cuasa l’f sola non significa cosa alcuna. E cossi ancora quel che si dice nel secondo uerso del primo quaternario: Questo da Dio creato immenso mondo: la causa l’esser stato da Iddio creato il mondo, e principio assai noto, non essendo molto lodeuole che quel tanto che si può esprimere con poche parole, se dichi per molte, il perché dispiace assai. Il terzo uerso del primo quaternario nota non esser ben detto il nome sauer, non esser usato da professori di buona lingua, per esser vocabulo spagnolo, come anco quel nome pondo per esser il proprio del pondo la forza e non il sapere. Ne pare che colpi bene l’epiteto che si da alla cifra, nel quarto uerso del primo quaternario, della breuita, per esser il suo proprio l’oscuro enon il breue, e cossi ancora, non li pare che sia ben posta quella parola nel terzo uerso del secondo quaternario, cioè l’ampio suo tondo, a causa, parlando, l’autore, del cielo non puo dire ampio, per essere quello di figura circulare, dalla quale non si predica l’ampiezza. Dimostra anco il Censore sentire poco satisfatione leggendo il quarto uerso del secondo quaternario, perché non e ben posto il colore alle stelle, per essere corpo celeste, de „ quali non se puo dire che siano colorati, si anco che l’autore, uolendo innalzare padre Clauio l’attribuisce lodi della conoscenza dei corpi celesti, quale e cosa nota a quelli ancora ch’hanno notitia d’astrologia. Né li parue ben detto quel che dice nel primo terzetto, che la mente s’orni di rai di gloria, essendo piu stato a proposito dire che se n’ornasse l’intelletto e la uolontà, che sono quelle potenze dell’anima che acquistano merito e demerito presso Iddio e non la parte che non può acquistare ne l’uno ne l’altro, coforme l’opinione di theologi. Di piu, al Censore apparso aver molto a schiuo il terzo uerso del primo terzetto, cosi questa particella che, parendoli//f.182v.// che non faccia coerentia col senso precedente, come quella che dice altre grandezze e altri giorni , denotando per questo che non siano dette altre grandezze prima e pur nel sonetto non ui si leggano altre. Ne anco al Censore pare ben posta nel secondo uerso del secondo terzetto quella parola costui, poiche non coinnette con le lodi che il poeta uol darli dell’astrologia, essendo i costumi sottoposti al gener della prudenza, dei quali in niun modo puo predicare l’astrologia, per usar vocabulo di filosofi. Dispiace medesmamente al Censore il terzo uerso del secondo terzetto, mentre dice senza girar non ponendoci l’autore il tra senza girar, che si deue fuggire. E finalmente, nell’istesso uerso, l’epiteto di grati attribuito all’astri, ai quali non puo attribuirse cosa inanimata. E questo e quando il Censore con il suo debile ingegno ha possuto osseruare per non esser di codarda disobedientia tacciato, e si tacque. Ma l’accademico Schiuo che, con amara patientia era stato sin allora ad udire, sdegnato ormai che i compagni dimostrassero attenzione a quel dire rispondendo, disse che tutto cio era somma lode dell’autore, perche simile apologie non erano solite farsi in componimenti che esquisiti non fossero, che, per quanto toccaua a lui di rispondere aurebbe appianato ogni difficoltà in contrario apparente, cio detto comincio in tal guisa a dire secondo il carico della difesa da mano in mano, sincome la stringeua sua Eccelentia. E rispose primieramente in generale che una delle parti di chi difende e non lasciare oppositione senza difesa. E cossi come alcuna uolta si difendono alcune cose cavillosamente,cosi ancora deue cercare che ha peso di difenderle industriosamente, et primo se risponde al Censore che non merita censura il verbo fu accompagnato dal aggiunto angusto perciocche facendosi l’accorciamento restaria senza senso l’f sola, mentre non deue scriuersi con l’accorciamento, come chiaramente si uede da chi uolesse proferire tutto questo uerso: fu angusto giro al tuo eleuato ingegno, il quale uerria piu tosto ad unire in un certo modo l’ aggiunta col uerbo o che uolere fare simile accorciamento come il Petrarca LXI: cossi ei fusse io inteso e uoi contento. //f.183r.//Se risponde all’altro opponimento doue dice dispiacere al censore che dica il poeta: questo da Dio creato immenso mondo, per essere principio assai noto che dourebbe sapersi da lui per essere filosofo che da principii nouissimi si uiene poi a filosofare alle cose piu recondite che si trattino nell’istessa metafisica, oltra che per rispondere da poeta e non da filosofo, basta a dire che questo modo di dire e per la figura perifrasis. Appresso, si risponde che quel uerbo sauer non dourebbe parersistrano al Censore, per esser vocabulo spagnolo, per esser questo stigmata servitutis, essendo di tal condicione il dominio. Etiamdio, la fauella uiene a costituirsi italiana, onde non „e marauiglia, si la noua fauella ua signata col Tau di moderni giudei, e, come souerchio in questo si tralascia l’esempio del Tasso: amor pace nocchero, et altri tali.
Fu lieue al tuo sauer ogni gran pondo:
Che questo dispiaccia la Censor, perche non sia oggetto di sapere il peso, si risponde che qui non ha loco la metafora, come si uede una delle piu uaghe et usitate figure che siano nella poesia. Si biasma il poeta che dichi: E breue cifra l’arenosi regni, del che tanto piu commendarsi dourebbe quanto piu ch’accopiando l’oscurità del dire con uaghissimo artificio, fa che altri, dissipando il nobilissimo concetto che in esso dolce et industriosamente se ne da, uenga doppiamente poscia a godersi ch’egli uiene in questo uerso uagamente a demostrare che, siccome fra tutte le compositioni la piu piccola e la cifra costando solo di lettere, mentre l’altre, per breue che siano, almeno hanno alcun nome opure un sol nome contengono, che al uasto ingegno del padre Clauio fusse a guisa che una cifra, fra le compositioni la piu breue, la misura dell’arenosi regni, comparata agli altri effetti della sua mirabile quasi sopraumana scienza. Se risponde a quello che appresso uiene opposto che non sia proprio l’ampio suo tondo come l’ampiezza non fusse propria della figura circulare. Alche se risponde benissimo come si uede uscenti dal Tasso et altri autori
//f.183v.//bellissima metafora e quella quale dice il poeta: l’aurate stelle, onde non ha bisogno d’altra difesa
[Segue una difesa del quarto e del quinto verso che chiama in causa la figura retorica della metafora e che si conclude con una disquisizione teologica del Gesualdo che termina a f. 184r.]
Aueua appena taciuto l’accademico Schiuo quando, laudando tutti di accordo i poetici campioni, mostravano assai aperto il gioueuole contento che da si uago esercita mento apprendevano. Ma dimandandando il Principe si altro restaua da fare, rispose il Lettore che duoi altri sonetti rimanevano da leggersi per l’istessa occasione, composti dal Ardito e dal Schiuo che l’uno comincia
Come nocchier de riue strane et ignote. E l’altro del Schiuo, scritto medesmamente si sopra:
Mentre a noi ti ritolse inuido Cloto
Letti che furo li sopradetti duoi sonetti, parsero abbastanza buoni al Principe, sibene diceua l’Ardito che ambi duoi a quel del Schiuo cedeuano di gran pezza e, dopo molti e diuersi parlari, uolle l’Oscuro la bizzarria anco egli, del suo ingegno, dimostrare. E percio con acuta limola comincio ad andare ritrouando i uersi del Ardito, quale con argute risposte, dopo uari e piaceuoli contrasti e infine concordi dispareri, alzato in piedi snodo la sua lingua cossi parlando//f.184v.// ch’egli non attribuiua a peccato di maleuolenza il fatto, pero che, ancora andasse la rima messa in repentaglio, e simile altre parole che mossero una repentina risa a circostanti. Fece l’istesso il Torbido accademico al Schiuo, ma con assai breue fatiga li chiuse la bocca, per il che nacque decreto e fu dal Secretario fermamente scritto che, per l’innanzi, douesse ciascuno da se medesimo le sue opere difendere senz’altri procuratori ed auuocati e cossi fu concluso. Fu anco fatto decreto che in conto alcuno douessero mancare nel uenire all’ora deputata l’accademici, sotto grauissime pene, ma tal decreto non fu approbato ne sotto scritto da alcuno.
Giornata quarta
Era in tanta stima e grandezza ridotta questa gentilissima accademia, che ciascuno dei signori Rinascenti, lasciando qualsivoglia negotio, etiamdio importante, correua il giorno destinato all’ora solita ad occupare il suo loco, dato che la presentia del Ecc.mo S.D. Emanuele induceua qualsivoglia persona a tale virtuoso esercitio. Onde, ragunati tutt’insieme detti signori accademici et sedendo ciascuno a suo loco, il Turbido, a cui toccaua quel giorno la lettura, salito alla catedra in questo modo comincio a dire
[Segue un elogio in latino, ff.184v.187v., della filosofia greca dalle origini della scuola ionica, agli atomisti, ai pitagorici, ai sofisti sino a giungere ad Aristotele e Platone e all’influenza che i due filosofi ebbero sugli studi filosofici medievali, che termina con un epigramma intitolato Laus Deo]
Laus Deo
Vobis omnibus tot gratias refero
Sidera quot coelo resplendent ultiora summo
Quot concas praexas littora larga tenent
Eacus tenebroso, Manes qout torquet Auerno
Quot iudex Minos, quot Radamantus atrox,
Et quot nouo flores prata, Aquilone premuntur
Aequora quot pisces, Gargara quot segetes.
Tutto cio aueua gia ditto il Turbido et essendo da tutti particolarmente lodato, dopo alcuni dubii che da alcuni dell’accademici li uenian proposti, uedendosi gia senz’alcuna difficulta ogni cosa spedita, uolle il generoso Principe che senza piu spender tempo in parole, i comparsi componimenti si leggessero, quando il Lettore diede principio e, primieramente, diede il piglio a un sonetto che dall’accademico Ardito era stato composto nella occasione di una leggiadra donna piu che bella, che staua presente, e amiraua un pittore che faceua un ritratto del suo bel uolto, et era questo
//f.188r.//
Questa mia dea, mentre riguarda ogn’ora
Col desir uago di mirar se stessa
L’imagin sua, da man dedala espressa
Ch’idolatra d’amor, il il mondo adora,
Pensosa ammira come il fabro, allora
Che nel colpir la destra al marmo, appresso
Cener non torni alla cocente e spessa
Fiamma che spira indi inuisibil fora,
Ch’ella ben sa che non di marmo o pietra
Ma di noua gentil selua amorosa
E la materia del diuin lauoro,
L’or scintillando in me, la fiamma ascosa,
Mentre col strale Amor la fiede e spetra,
Accende del cor l’esca onde ardo e moro.
Simil a questa fu dopo letto un madrigaletto del Schiuo, per un ritratto dipinto dell’amata, et era il sequente
Questa tenera dea, donna
celeste, l’ombra del caldo raggio,
fra breue tela accolto, mentre
miro del suo diuin uolto due,
miser, soglio io trar l’ore al
uezzo del mio caldo estro,
m’appella, indi, crudel per uersar
poi piu caldamente in me
gl’incendii suoi.
E perche l’accademico Viuace era molto amato dall’eccellentia del S.D.Emmanuele, a causa giocauano giornalmente a scacchi insieme, et auendo inteso l’eccelentia sua che detto accademico si dilettaua molto in uersi latini e uolgari, essendoli imposto un giorno da detti ecc.mi sigg.ri che svegliasse la musa, prorompendo anco egli in regolari uersi e uaghi componimenti per sua scusa disse in questo modo:
//f.188v.//
Ecco al vostro desir pur giungo al scopo,
Ecco del carco imposto il nodo sciolgo,
Benche fia uero e pure onor ui accolgo
Che sia spento carbon, presso un piropo
Anzi aggiaccio e pauento assai piu, dopo
Che del uostro desir la speme tolgo
Del parturir dei monti, e al fin diuolgo
Un negletto animale e un picciol topo
Per me fo il mio pater s’auuiene pur quindi
C’al vostro altiero stil fastidioso arreco
Il fallo non e mio ch’in tutto e uostro
Ben godero di mirar uoi ch’alli Indi
Volando andrete, si ch’Italo e Greco
Inuidia premessa del sacro inchiostro.
Non fu cattiuo giudicato il gia letto sonetto, ma da tutti Signori accademici fu sommamente laudato, cossi l’altro del Ardito et il madrigale del Schiuo ma perche l’Infiammato diceua esserui assai da dire e cossi lo Suegliato parendo a tutti l’ora tarda fu solo contento del Principe che per allora sommariamente s’intendessero e cossi fu fatto con universale satisfacimiento, restando resolute le controversie opposte, doue gia dato fine, si diede a ciascuno materia a comporre per la santissima Passione del Signore che gia di prossimo con la sua sacra settimana renouaua la memoria del preziosissimo sangue sparso per l’umana salute et con detta resolutione diedero fine perche l’ora era assai tarda.
Giornata quinta // f.189r.//
[Inizia con una dissertazione geografica del Gesualdo che tratta argomenti di cartografia, di geografia generale, elencando le terre conosciute, divise per continenti, isole, regioni e provincie . Gesualdo legge anche un trattato sulla cosmografia che suscita grande ammirazione negli accademici. La lezione in volgare e non in latino come la disquisizione filosofica del giorno precedente si protrae fino al f. 192r. e si dà quindi inizio alle letture delle composizioni poetiche sulla passione di Cristo]
L’accademico Sagace Nel spargere del sangue che fe nostro signore nel orto
Come potro. Signor, con gli occhi
asciutti racontar il dolor ch’auesti
quando nell’orto orasti al padre,
rimembrando la croce oue ir doueui
per noi tutti.
Mostrasti con sudor l’orridi frutti
Dell’egra carne e, in agonia
passando, l’inimico uincesti,
rebuttando col spirto i santi dal
timor sedutti.
Indi, accio ratto il pretioso sangue
oprasse si a noi il fin promesso, in
croce ne andasti, ma col dolor uinse
il desio.
Ahi che senza patir un sguardo pio
potea saluarne dall’ingorda foce,
da quel nemico rio, da quel crudo
angue. //f.192v.//
L’accademico Veloce. Sopra il sudor del sangue di Nostro Signore nell’orto
Poiche nell’orto il primo padre Adamo,
Ingannato dal falso e rigido angue,
Per far di gloria nostra uita esangue,
Stese la man nello uietato ramo,
Ecco il secondo successor d’Abramo,
Che uol dar gaudio al geno uman che langue,
Ora nell’orto e stilla in sudor sangue
E rende il mortal pesce al diuin amo.
O contrapposto amore, al arbor quello
S’appressa uolentier, questo alla croce,
Quello il pomo a gustar, questo aloe e fiele.
E pur potea senza il mortal flagello
Quel sanguigno sudor, la pena atroce
Tor dal Inferno il suo popol fidele.
Sonetto dell’accademico Conosciuto, Al santo sepolcro di Cristo
Non e questa la tomba oue al Fattore
Del ciel le sante membra poner piacque,
Non e questo il bel loco onde ui nacque
A noi la uita eterna, a gl’altri orrore.
// f.193r.//
Questa e pur d’essa, o dolce mio Signore,
Se pieta ti sospinse a por nell’acque
Viue quel reo ch’alla tua destra
giacque
Sul monte e, in ciel, rendi oggi a Iddio l’onore.
Deh, degnati, fin tanto che l’istesso
Onor ti punga a riscaldarti il petto,
Accio entri anco io nell’acqua uiua,
E se finora l’anima fu schiua Dolersi, non conobbe il suo difetto
Come ha che uita a morte tien da presso.
L’accademico Ardito. Sopra la morte del nostro Signore Cristo
Mosso dalla pieta dell’uman gregge,
Il Padre eterno,ecco, il suo Figlio in mano
Del rio inimico diede, ahi caso strano,
Morir chi e uita e morte e il tutto regge.
Con l’istessa pietade or ni corregge
E, per dritto sentier che di lontano
Lasciato aueamo, carchi di mondano
Desir, „nci chiama alla sua santa legge.
Andiamo dunque a conquistar si degni
Frutti che, col discepolo di Piero,
„Nci porga e, pria col pianto, a capo chino,
Supplichiamoli giunti, che si degni,
Con caldi prieghi, accompagnarci al uero
Albergo del gran Dio unico e trino.
//f.193v.//
E tu Signor che dal gran mar un rio
Traesti, per condor da morte a uita
L’uomo, che con praua uoglia ha gia smarrita
La uia del buon Gesu clemente e pio,
Porgi ti prego a questo popol mio
Rimedio tal ch’al fin resti pentita
La cieca mente, e al ciel quindi partita
Goda il suo bene fuor di rar desio.
Indi uedrassi a meraviglia quanto
Gioui del buon pastor l’occhio all’inganno
Del lupo, o sia da lungi o pur da presso,
E il ciel, con suoi bei lumi, dara espresso
Segno dell’allegrezza e, in ogni
canto, La fama battera di gloria i
uanni.
L’accademico Turbido. Sopra il sepolcro di Cristo
Arca del Verbo, tomba fortunata
Di rara pietra, eccelsa e pretiosa,
U’ la celeste gemma sta nascosa
Da l’alta maesta per noi incarnata,
Fatta degna a courir chi t’ha creata,
Lascia la tua natura rigidosa E abbraccia la diuina e gloriosa
Carne del tuo Fattore immacolata.
//f.194r//
Tu al casto e uirginal uentre simile
Felice tempio glorioso e degno
Di cui non cape il ciel, sei pur capace,
In te s’inchinaranno il Battro e
l’Iile Per onorar colui che morto
in legno E in te, picciol auello,
ora sen giace.
//f.194v.//
Ah quisquis nocte in media tacitisque sub astris
Ac properas: specta haec pectora fixa cruci,
Dum aedi connexa silent, dum Cynthia crinem
Occubit, ah lacrimans ducit at atra choros
Ille pater late terras, late aequoris oras
Qui mouet omnipotens torque et astra Deus
Lamentis coelum complet, dum tempora tabo
Perfusa irriguo sanguine et ora madent
Feruens es in te lacrimi mouet ille tonantis
Natus in mollet ferrea corda Deus.
L’accademico Conosciuto. Dialogus ad Christi tumulum. Amor et Mors interloquutores
O mors cruda nimis, quem te, tam dira tulerunt
Saecula, quis Christum, caedere falce dedit
Tu mihi vim tantam, tu lethi causa fuisti
Non ego, tu Christum, sanguine sternis humo
Tu tanti regis, ceu vicari laeta superbis
Morte et me causam eligis adesse necis
Me mea uis natam subdit pro crimine morti
Mortuus heu uiuis me duce cautus amor.
L’accademico Vago. Maria Virgo lacrima ad Christi tumulum precatur Echo Fili, cur mater uescor uitalibus auris?
Hauris, si gemitus auribus ipse meos
Hos ego perforem iunctis mi nate dolores,
Res digna at miseram plaudere urna foret
//f.195r//
Et si nulla mouet pietas foedata cruore
Ora face aspiciam spes mea tuta salus.
Letti che furno e con gran attenzione delli ss. Accademici ascoltanti le sopradette compositioni vulgari e latine, furno da quelli sommamente lodate dal menentissimo Principe dell’accademia e distribuiti i censori per ciascheduna compositione, accio nella sequente se potessero censurare. Vi fu dopoi fatto intendere da parte dell’eccelentia del
S.D.Emanuele che per lunedi primo dopo la Pasqua della Ss.ma Resurretione, ciascuno delli S.ri accademici se ritrovasse nella chiesa della Ss.ma Vergine di Monte Albo, doue a tale festiuità, suole concorrere la maggior parte di omini e donne della citta, accio se censurassero dette compositioni e se seguitasse la lettura a chi toccaua.
Giornata sesta
Celebrate che furno nella chiesa della Ss.ma Vergine di Monte Albo la messa maggiore e tutte le altre messe e diuini offitii, uoleua l’eccelentia del S. Don Emanuele se preparassero le tauole dentro il cortigio di detta chiesa. Et in una di quelle sedendo con donna Marta Poliseno Fustimbergo, sua moglie, furno tutti signori accademici, dame di detta ecc.ma sig.ra et altri cortigiani della casa, seruiti come se conueniua a duoi si eccellentissimi signori. E leuati che furno dopoi le tauole di essi, ordino l’eccelentia sua che di grado in grado tutti signori accademici se sedessero, doue furno tutti seruiti di quanto fu di bisognoe magnorno con[…manca nel testo la parola successiva].// f.195v.// Leuate poi le tauole, si cominci orno molti balli lotte e giochi, e si corsero li palii che per cio erano stati destinati. Quelli finiti, si cantorno li uesperi solenni e, data fine a tutte le sopradette solennita, l’accademico Ardito, secretario di detta accademia a cui toccaua l’oppositione del nostro lirico poeta Oratio Flacco, per la poetica assignatali, leuato in piedi e fatto riuerenza a tutti circostanti comincio
Humano capiti cervice picta equinam
Iungere si uelit et uarias inducere plumas
Undique collatis membri set turrite atrum
Desinat in piscem mulier formosa superne
Spectatum admissi uisum teneatis amici?
Se collo di caualllo a capo umano
alcun pittor per suo capriccio
ggiunge quello di uarie piume
ricoprendo e, porga al capo suo
forma si strana che fra diuerse
qualita di membra abbia la coda
di diuerso pesce e la testa
accompagni un dolce aspetto di
uaga e leggiadrissima doncella, a
ueder cosa tal sendo chiamati
potreste amici retinere il Riso?
//f.196r.//
Douendo io, coforme il comandamento del menen.mo Principe de la nostra Renascente academia, dichiarare oggi il presente testo della poetica del nostro lirico Oratio Flacco venusino, lasciando da parte li abbellimenti et ornati delle parole uaghe che intorno l’eccellentia di una tal scientia diuina potrebbono leggiadramente addursi, uoglio solo scusarmi prima d’ogni altra cosa del mancamento, se tale potra dirsi, non auendo ella bisogno della mia debole e fioca voce, a palesar le sue rare lodi, non mai abbastanza cantate dalle piu sonore cetre e dai piu famosi plettri. E diro si per non dimostrarmi sconoscente di chi si nobil peso onorarmi s’e compiaciuto, ch’a me ora interuine quello che nell’istoria naturale dell’Indica terra si legge, che, uedendosi carica talora e con regali preggi adornata, conosce mirabilmente il suo onore, e se ne dimostra in uista e nell’andare superba e festosa, di modo che fra tutti gli abitanti, vi e un ambitione e gara di portare il suo re sopra il dorso.
Cossi a questo punto diro io che fra tutti cantero di nobilissime materie all’elevati ingegni di questa nostra academia, sia a me solo toccata la sorte di portar la persona regale potendosi con raggione la Poesia tale, come dell’altre scienze, piu degne e sublime chiamarse, e la sua magioranza chiaramente si scorge, tralasciando ogni altra raggione, da questo solo che merita esser diuina chiamata, poiche tutte l’altre scienze e dottrine possono col tempo apprendersi nelle scole con continui studii et esercitii, ma la Poesia uenendo ad alcuni naturalmente dallo spirito diuino, o dalle forze della mente dotata, rende uane le fatiche, i studii et con notabil scorno e perditempo di tmepo di chi vorra in essa temerariamente impiegarli senza il favore del spirito diuino che risiede nel poeta, come disse Ouidio://f.196v.// Est deus in nobis.. E chi l’antiche istorie andasse cercando ritrouaria quanto sia stata bene la sua diuinita conosciuta, essendo stato antichissimo costume dei Greci, ben da li piu teneri anni, istruire i fanciulli nelle scienze con la poetica delettazione. Essendo questo il vero fine del poeta, di insegnare e di giouare altrui con delettazione differente da l’altri che con mille garbugli confondono e fastidiscono i ceruelli desiderosi di impararare laonde, con grandissima raggione fu tenuta in stima dall’antichita tale che come referisce Tullio nell’oratione pro Archita poeta che cotendeuano insieme, i Colofonij e Chij e i Salamini et i Smirnei perche ciascuno uoleua usurparsi Homero per copatriota, oltre che Ennio calabrese fu co tanta stima d’africano che uolse dopo morto sepelire nel suo proprio sepolcro come disse il poeta[…] Racconta Plinio che ritrouando il grande Alessandro fra le spoglie di Dario, re di Persia una cassetta, doue erano stati unguenti preziosi et odoriferi serbati, discorrendo con suoi soldati in chi douesse seruirsene giache per il suo militar esercitio[..] dissutila la scorgeua. Tra i soldati chi per una cosa e chi per un’altra a seruire se disse: Concluse egli che ui si douesse dentro di quella porre l’Iliade del padre Homero del che parlando il Petrarcha dice ch’egli hebbe d’Achille no per l’Armi e per la Fortezza ma solo per l’Etcomita, ch’egli haueua meritato di cos coprire i uersi di Homero//f.197r.//
Gionto Alessandro alla famosa tomba
Del fiero Achille, sospirando di me
O fortunato te che si chiara tromba
Trouasti e chi di te, tanto altro scrisse.
L’istesso ancora nella uittoria di Thebe no uolle che si facesse oltraggio ai penati ed alla famiglia di Pindaro, stimandolo maggiore (tra) i poeti, quali[..] furono detti figlioli di Gioue, coronati al sempre di alloro come uolendo cossi significare che deuono essere tenuti cari da Principi et homini illustri che da loro stessi e no altrimenti possono le loro opre essere immortalate.Ma perche s’io uolessi badar ad addurr simili esempi saria troppo pedisso e prolisso, intrando nelle parti della poesia diro che Aristotele nella Nicomachea chiama il poeta filosofo, et che phyloniles cioe fabulare amaua Strabone e similmente nel I della Geografia dice Sapientissimi qui de Poesis quicquam eloquenti sunt, primama philosophiam Poetriam esse asserunt. Et pero, il nostro saggio poeta, la cui ombra forse qui intorno ora m’ascolta e si nei campi Elisi l’anima credo che goda di ueder risonar ne la sua parola l’esercitio poetico sotto i suoi diuini precetti appresi. Ma perche se ricerca primieramente in ciascheduna lettura il conoscere il senso e l’intenzione dell’autore si puo comprendere chiaramente ch’egli altro non uole inferire che la differenza tra poeti e versificatori, perche questo sacro nome di poeta non a tutti si conuene, ne puo chiamarsi chi accozzando quattro parole insieme con due rime mendicate, se crede di posser salire in Parnasso a seder in grembo ad Apollo a star in comune con Muse perche chi uole giustamente attrinuirse il nome di poeta, bisogna che //f.197v.//sia bene instrutto et informato delle leggi poetiche fondate nei precetti di Aristotele, o del sommo Poeta, quale di mano in mano, insegnando il uero modo di comporre i poemi se differentia dal versificatore, dimostrando i difetti e l’errori che nascono ne i parti stroppiati et intempestivi. Ora, perche venghi alla dechiaratione del testo, diro sommariamente con la maggior breuita possibile cio che deue saper il studioso di questa diuina scientia et per la prima, udendo diffenir la Poesia dire io Aristotele nella Poetica che la Poesia e narrazione secondo la uerisimilitudine d’attioni umane memoreuoli possibile ad auersi, la Poesia e immitatione d’attioni umane. Et benche l’Istoria sia narrazione di attioni umane, differisce dalla Poesia, perche e narrazione secondo la uerita delle cose auuenute et e cosa rappresentata. Ma la poesia e cosa rappresentante, pero non potendo essere la cosa rappresentante prima della rappresentata, si conchiude che la Poesia riceue il uero lume dall’Istoria. E sibene il poeta suole componere da se quale si fonda a modo suo, di maniera che non abbia bisogno dell’Istoria, e necessario almeno che abbia somiglianza d’Istoria. Se diuide la Poesia e l’Istoria parimenti in due parti sole principali, materia e parole, pero differiscono in questo, che l’istorico non apprende la materia ne le parole del suo ingegno, ma dal corso delle cose mondane appressa la materia a l’opra seruendosi delle parole usate nel raggionar, ma il poeta ha la materia riseruata et imaginata dal suo ingegno e le parole doue si comporta in misurati nerui, in ragionamenti come da tutti s’usa, perche
comunamente non si raggiona in uerso. E percio il poeta uiene detto dal greco poietis che uiene da poiein cioe facio che uuol dire fattore e ritrouatore d’una cosa: poiesis. Percio del poetae di rassomigliare la uerita dell’accidenti d’omini e di porger diletto ascoltanti, lasciando il conoscimento della uerita delle cose naturali et accidenti alli studiosi e alli artisti.//f.198r.//Se diuide in quattro spetie; Epopea, Ditirambica, Tragedia e Comedia. La epopea e spetie propriamente accomodata a cantare i fatti d’omini grandi et illustri, et anco le cose sacre e diuine e percio ricerca il metro esametro che uiene detto eroico, come che sia atto a cantar cose di eroi, et e denominato cosi da epos che non uol dir altro che verso eroico, come dice Martiale, Scribebamus epos: La ditirambica ritiene in se tutte le maniere di compositioni minute come elegie, inni, odi, epigrammi et altre simile et uien detta dal greco detorambas che fu nome d’un tebano quale si credeua primo inuentore dell’inni, auendo cominciato cosi a cantar le lodi di Bacco onde poi da lui c’auea nome Ditirambo furno l’inni ditirambi chiamati come il poeta uenusino Oratio dice. La tragedia e poema grauissimo che rappresenta le calamita e miserie d’eroi, come di reggi o latri personaggi grandi e il suo soggetto non e altro che pianto e di commuovere li animi di tutti li ascoltanti a compassione. Vien detta da traga che significa becco et oida che significa canto, perche antiquamente se daua ai cantori in premio un becco, quale si soleua sacrificare a Bacco. Altri dicono che sia cossi detto da troglan che uol dire feccia perche antiquamnete non auendo ancora in uso le maschere soleuano l’Histrioni imbiancarsi il uiso di Feccia, sincome manifesta l’istesso Horatio. La Comedia similmente e rappresentatione di affetti d’animi umani, ma non di casi luttuosi. E in questo differisce dalla Tragedia, perche il fine della conclusione della Commedia ha da essere con allegrezza, et aura da svilupparsi ardimenti et intrichi//f.198v.// della fauola. E ancor che sia l’istesso uerso accomodato per l’una e per l’altra come e il jambo, e differente nelle persone introdotte perche nella Comedia non si introducono principi o simili personaggi come nella Tragedia, ma si contenta del parlar comune. Vien detta Comedia da comoedon, che significa uita et oida che, come ho detto, vuol dire canto, perche la giouentu ateniese soleua andar cantando certe sorte di uersi per le uille, per guadagnarsi qualche cosa. Altri dicono che la comedia sia detta da como die dalla lasciuia e dalla crapula notturna perche soleua la giouentu mangiando e giucando la notte, cantare a quell’ora uersi rozzi come de die dicendo male di questo e di quello, donde sequi ch’essendo questa licenza passata assai, loro se ualseno proibendo il dir male, con una certa legge, dalla quale poi i giuueni atterriti si risolsero a dir bene, pero lasciati di dir male. Le leggi quali si doueuano osseruare in questi poemi, andorno in abuso, perche il tempo nol concede a neuruno appresso deue il buon poeta riuerire nel uersificar di non essere subitaneo nel comporre impetuosamente, perche nel uersificar si ricercano due cose: il concetto e l’eloquatione. Il concetto e come l’istessa sostanza, come un omo per esempio. E l’eloquatione e come il nascimento, e percio una persona nobile e bella non deue di rozzi panni esser uestita, perche s’oscuraria assai la sua apparenza. E per non fare inciampar in simile inconuenienza, essendo la materia difficile, deue il poeta fatigar come dice il nostro uenusino in reuidere, emendar e cassar il poema diece uolte.//f.199r// Deue anche auuertire il compositore di uersi che la frase di questa poesia e differente da quella della prosa e pero deue ancora ne i suoi uocaboli usar diligentia nel seruirsi di uocaboli usati da poeti, perche molti ancora antichi et asperi che siano interlasciati si concedono in poesia ma non a versificanti, del che auranno piena cognizione leggendo il Bembo, il Dolce et il Ruscello. Deue fuggir uocaboli latini nella lingua toscana e i greci nella latina il poeta, quanto piu puo, si bene sara degno di scusa allegnando qualche autorita di autore concesso che se ne puo seruire. Deue fuggire le parole brutte e male appropriate come Martiale, uolendo dire: Un giorno chiaro e sereno dice: siue facie die, chiamando il giorno senza faccia, che sono proprie delle botti di uino. Deue schiuar li uocaboli sporchi, brutti et osceni, come quelli della Priapea di Virgilio, e satire d’altri autori, douendo creder che sia infamia abboccarsi il ceruello in simili pensieri, come molti nell’era nostra contrarii par che se ne gloriano. Anzi, occorrendo nominar alcuna parola per necessita che in se fusse oscena a nominarsi, deue con belle perifrasi farne mentione, come il Pontano dice: membro, illud quod hominis ostendit, et il Bembo: mente pusille per non dir mentuto. Se deue anco auuertir che di due maniere se possono componere i uersi de toscani cioe legati et atretti dall’ordine o leggi delle desinenze co’ nomi e di consonanze e t altri sciolti, cioe che senza nisciuna regola nel finir possano recar le consonanze ad arbitrio del versificatore, ma cossi l’una come l’altra di uersi, deue constar d’undeci sillabe ad imitatione di uersi latini, chiamassero endecasillabe, che uien detto propriamente il modo di comporre regolare per consonanze. Nel fine, la uulgare rima detta, quale parola greca, denota numeri presso i latini. E perche l’armonia se forma da numeri, parendo che dal numero di quelle corrispondenze nasca una certa armonia, fu poi chiamata rima da’ toscani.//f.199v.// In due sole guise di uersi la uolgar lingua se diuide, cioe il rotto e l’intero. Il rotto ha da esser non piu di sette sillabe, e l’intero non piu di undici, come s’e detto di sopra. Le rime toscane si diuidono in sonetti, canzoni, madrigali, ballate, sestine, terzetti, stanze e uersi sciolti, de quali ancorche nonse ne sia seruito il Petrarca, se uede con tutto cio che renda sonora armonia come e l’Eneide del Caro, Le Giornate del Tasso, et altri componimenti. Il sonetto e componimento di quattordici uersi, detto cossi per esser diminuitiuo del suono che dalli antichi era preso per canto,e percio sonetto uuol dire picciolo canto. Se diuide in due parti principali, cioe quaternarii e terzetti. I quaternarii deuono essere duoi contenendo otto uersi. Deue nei quaternarii cocncordare il primo uerso con il quarto, e i duoi di mezzo sono d’una istessa consonantia e questo e la comune e piu usata, sibene rare uolte il Petrarca li ha fatti che concordano per ordine successivo e scambiando come a quello che si uede:
Zefiro torna e il bel tempo rimena
E i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia, e garrir Progne e pianger Filomena e primauera candida e uermiglia.
Ha usato ancora il Petrarca il primo quaternario per ordine successiuo et il secondo per l’ordine comune, come in quei sonetti: Non de l’Hispano nella seconda parte, e Soleano i miei pensier soauemente. Pero io secondo il mio giuditio, mi serueria del stile piu usato[240].
[…]
Dopo di che, il Caracciolo conclude, pago di queste sommarie delucidazioni. Era stato di tanti documenti poetici il ragionamento dell’accademico Ardito che molti non s’accorsero della prolissità di quello… sommariamente lodato da tutti, e di certo non… si che li fu fatto cenno da alcuni che s’era fatta l’ora tarda e minacciosa, per la qualcosa non si puote dar principio//f.202r// alla censura di tanti sonetti ulgari et dei latini fatti sulla Passione del
Signore. Per il che fu ordinato che nell’altra accademia s’attendesse solo alla censura di quelli, uolse non di meno l’eccelentia del S. don Emanuele si legesse il sonetto da lui fatto alla Vergine gloriosa di Monte Albo e lla, dopoi, s’affiggesse, il che dopoi subbito fu eseguito. E postisi a cauallo, per timore della pioggia si ritirorno in Venosa a saluamento.
Sonetto del S.re Don Emanuele Gesualdo
Vergine pura che da i raggi
ardenti del uero sol ti godi eterno
giorno, il cui bel lume in questo
uil soggiorno tenne i belli occhi
tuoi uaghi e contenti,
Uomo il uedesti e Dio, quando i
lucenti spirti facean l’albergo
umile adorno di chiari lumi, e,
timidi, d’intorno stauano lieti al
gran prodigio intenti,
Immortal Dio nascosto in uman ueli,
l’adorasti signor, figlio il nutristi
l’amasti sposo et onorasti….
Prega lui dunque che i
miei….. ritornin lui e tu
donna… i nostri desir
mesti…
Fine.
[1] B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, a cura di G.. Galasso, Milano, Adelphi, 1992, p. 222.
[2] E. FUETER, Storia della storiografia moderna, Milano-Napoli, Ricciardi, 1944, vol. I, pp. 45-49.
[3] S. BERTELLI, Storiografi, eruditi antiquari e politici, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, V, Il Seicento, Milano, Garzanti, 1967, pp.335-434.
[4] A. D’ANDRIA , Identità sommerse. L'antico nelle storie locali di Basilicata in età moderna, in «Bollettino Storico della Basilicata», XXIV (2009), n. 25, p.76.
[5] Ivi, pp. 80-81.
[6] Ivi, p. 77.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, pp. 76-77.
[9] Ivi, p. 77.
[10] Ivi, p. 82.
[11] Ivi, p. 81.
[12] Ibidem.
[13], p. 82.
[14] Ivi, p. 96.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, p. 78.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] A. D’ANDRIA, Identità e storie. Le storie locali di Basilicata tra XVI e XVIII secolo, Munchen, Grin Verlag, 2013, p. 30.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 31.
[22] Ivi, p. 37.
[23] Ivi, pp. 37-38.
[24], p. 38.
[25] Ibidem.
[26] Ivi, p. 39.
[27] Ivi, p. 40.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., p. 25.
[31] Ivi, pp. 39-40.
[32] Ivi, pp. 25-26.
[33] Ivi, p. 26.
[34] T. PEDIO , Storia della storiografia lucana, Venosa, Osanna, 1984, p. 33.
[35] G. GATTINI, Note storiche sulla città di Matera, Napoli, Stabilimento tipografico di A. Perrotti, 1882, p. 389.
[36] Ivi, p. 439.
[37] Ivi, p. 431.
[38] G. GATTINI, Note storiche..., cit., pp. 433-435.
[39] T. PEDIO, Storia..., cit., p. 45.
[40] A. D’ANDRIA, Identità e storie…, cit., pp. 15-16.
[41] T. PEDIO, Storia..., cit., pp. 46-47.
[42] Ivi, p. 67.
[43] G. GATTINI, Note storiche..., cit., pp. 446-47.
[44] T. PEDIO, Storia…, cit., pp. 65-66.
[45] G. GATTINI, Note storiche..., cit. , pp. 450-451.
[46] T. PEDIO, Storia…, cit., p. 43.
[47] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., pp.27-28 e 62.
[48] Ivi, p. 40.
[49] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., p. 72.
[50] T. PEDIO, Storia…, cit., pp. 79-80.
[51] Ivi, p. 51.
[52] Ivi, p. 52.
[53] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., p. 68.
[54] G. GATTINI, Saggio di Biblioteca Basilicatese, Matera, Tipografia della Scintilla,1908, p. 8.
[55] Sul Giaculli si veda A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., p. 70; sul Roselli cfr. T. PEDIO, Storia…, cit., p. 52.
[56] T. PEDIO, Storia..., cit., pp. 85-87.
[57] Ivi, p. 86.
[58] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit. , p. 69.
[59] Ivi, pp. 74-76.
[60] Ivi, p. 67.
[61] Ibidem.
[62], pp. 41-42.
[63] Ivi, p. 28.
[64] T. PEDIO, Storia…, cit., pp. 86-87.
[65] Ivi, p. 59.
[66] Ivi, p. 59.
[67] Ibidem.
[68] Ivi, pp. 59-60.
[69], p. 60.
[70] Ivi, pp. 60-61.
[71] Ivi, pp. 61-62.
[72] Ivi, p. 62.
[73] Ivi, p. 63.
[74] Ibidem.
[75] Ivi, p. 64.
[76] Ibidem.
[77] Cfr. A. DE FRANCESCO, The antiquity of the Italian Nation. The cultural origins of a political myth in modern Italy, 1796-1943, Oxford, University Press, 2013, pp. 124-127.
[78] Ivi, pp. 29-50.
[79] L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, Napoli, Simoniana, 1805, t. X, pp. 33-35.
[80] A. CAPANO, Venosa Maschito Atella Spinazzola Lacedonia Palazzo S. Gervasio in età moderna, Melfi, UNLA, 1999, p. 27.
[81] ID., Venosa Lavello Spinazzola Minervino in età moderna, Melfi, UNLA, 1998, pp. 83-
[82].
[83] Cfr. Tab. 1.
[84] G. GALASSO, Il Regno di Napoli. Società e cultura del Mezzogiorno moderno, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XV/6, Torino, UTET, 2011, p. 240.
[85] L. GIUSTINIANI, Dizionario…, cit., pp. 33-35.
[86] G. DE ROSA, Tempo religioso e tempo storico. Saggi e note di storia sociale e religiosa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, vol. III, pp. 32-33.
[87] G. CENNA, Cronica Antica della Città di Venosa (d’ora in poi CAV), in BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI, Rari, Ms. X-D-3, ff. 30rv; cfr. Appendice, doc. II.
[88] A. LERRA, Per uno studio delle città basilicatesi in età moderna, in G. GALASSO (a cura di), Le città del Regno di Napoli in età moderna. Studi storici dal 1980 al 2010, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, p. 405.
[89] Cfr. F. PETRUCCI, Del Balzo, Pirro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988, vol. 36.
[90] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., p. 21.
[91] T. PEDIO, Storia..., cit., pp. 31-32.
[92] CAV, ff. 24rv. Cfr. Appendice, doc. II.
[93] CAV, f. 93v. Cfr. Appendice, doc. II.
[94] A. VACCARO, Carlo Gesualdo da Venosa: l'uomo ed i suoi tempi, Venosa, Osanna, 1998, p. 179.
[95] CAV, ff. 171rv.
[96] R. NIGRO, Centri intellettuali e poeti nella Basilicata del secondo Cinquecento, Bari, Edizioni Interventi Culturali, 1979, p. 151.
[97] CAV, f. 171v.
[98] CAV, ff. 166r-170v.
[99] Ivi, p. 149.
[100] Ivi, p. 151.
[101] CAV, ff. 174v-178r.
[102] CAV, ff. 178v-184v.
[103] CAV, ff.188v.
[104] CAV, ff. 189r-195r.
[105] CAV, ff. 192r-192v.
[106] CAV, ff. 195r-202v.
[107] A. VACCARO, Carlo Gesualdo..., cit., p. 280.
[108] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., pp. 21-22.
[109] G. PINTO, Introduzione, cit., p. 7. Cfr. Fig. 2.
[110] Ibidem.
[111] Ivi, pp. 7-9.
[112] CAV, f. 149v.
[113] CAV, f. 150r.
[114] G. PINTO, Introduzione, cit., p. 8.
[115] Ivi, p. 9.
[116] Ivi, p. 10.
[117] Ibidem.
[118] Ivi, p. 11.
[119] CAV, f. 144r.
[120] R. NIGRO, Basilicata tra Umanesimo e Barocco, cit., p. 193.
[121] R. MARANTA, Consilia sive Responsa: unacum duobus Tractatibus, Venetiis, Andreas de Pellegrinis Bibliop. Partenop. I. C., 1591, pp. 3-4.
[122] R. NIGRO, Basilicata tra Umanesimo e Barocco, cit., p. 53.
[123] ID., Centri intellettuali…, cit., pp. 112-113.
[124] ID., Basilicata…, cit., p. 193.
[125] CAV, f. 112r, 144r.
[126] Ibidem.
[127] Ibidem.
[128] Ibidem.
[129] G. PINTO, Introduzione, cit., p. 13.
[130] CAV, f. 133r.
[131] Ibidem.
[132] CAV, f. 186-187.
[133] Ibidem.
[134] A. LERRA, Chiesa e società nel Mezzogiorno. Dalla “ricettizia” del sec. XVI alla liquidazione dell'asse ecclesiastico in Basilicata, Venosa, Osanna, 1996, pp. 7-50.
[135] Cfr. Appendice, doc. I.
[136] G. PINTO, Introduzione, cit., pp. 13-14.
[137] Ivi, p. 15.
[138] Ivi, p. 14.
[139] CAV, f. 30r.
[140] G. PINTO, Introduzione, cit., pp. 17-18.
[141] CAV, ff. 182-183.
[142] CAV, f. 32r.
[143] CAV, f. 39r.
[144] G. PINTO, Introduzione, cit., p. 18.
[145] CAV, f. 112.
[146] È il caso, ad esempio, delle cappelle delle famiglie Capite e Mazzeo descritte da Cenna nel paragrafo riguardante la chiesa di San Domenico e riportate da Pinto nel paragrafo riguardante la chiesa di San Francesco.
[147] CAV, ff. 114 r-121r. 4 CAV, ff. 121v-124r.
[148] CAV, ff. 126r-132v.
[149] CAV, ff. 124r.-125v.
[150] CAV, f. 133r.
[151] CAV, ff. 31r-35v e 37r-39r. Cfr. Tab. 4.
[152] CAV, ff. 166r-170v.
[153] CAV, ff. 178v-202v.
[154] Cfr. Tab. 4.
[155] Tra parentesi quadre i titoli congetturali o restituiti per mutilazione del foglio, in parentesi tonde le integrazioni. I titoli sottolineati sono delle sezioni tralasciate dal Pinto (1/5 del totale del manoscritto).
[156] Questo titolo si ripete all’inizio del f. 146r.
[157] I ff. 200r-202v sono quasi totalmente mutilati.
[158], ff.1r-12r.
[159] Quest'ultimo presente nei terreni vicini ai possedimenti dello stesso Cenna.
[160] CAV, ff.12v-16v.
[161] CAV, ff.13v-16v.
[162], ff.17r-24v.
[163], ff. 25r-39r.
[164], ff.40r-43r.
[165] CAV, ff. 43r-49r.
[166], ff. 49v-59v.
[167] CAV, ff. 60r-61r.
[168] CAV, ff. 62r-67v.
[169] CAV, ff. 67v-71v.
[170], ff. 72r-77v.
[171] 28 CAV, ff. 78r-84v.
[172] 30 CAV, ff. 85r-87r.
[173] CAV, ff. 87v-91r.
[174] CAV, ff. 92r-109v
[175], ff. 110r-111v.
[176] CAV, ff. ff.114r-121r.
[177] CAV, ff. ff. 121v-124r.
[178] CAV, ff. 124r-125v.
[179] CAV, ff. 126r-132v.
[180], f. 133r (il foglio seguente è bianco).
[181] CAV, ff. 134r-142r.
[182] CAV, ff. 142r-153v.
[183] CAV, ff. 154r-156v.
[184], ff.157r-170v.
[185] CAV, ff. ff. 171r-202v.
[186] G. PINTO, Introduzione, pp. 18-19.
[187] Ibidem. Si tratta di E. CARACCIOLO, Dictionarium universale totius regni Neapolitani Geographicum, Topographicum Historicum, Sacrum, Prophanum, vetus, ac novum in quo describuntur ipsius regni provinciae populi principatus, urbes, oppida, castra, ac pagi, montes, ac valles; Maria, lacus, flumina, rivi, balnea, freta, Promontoria, insulae, ac peninsulae; Archiepiscopatus, episcopatus, Abbatiae, ac prioratus, balliatus, ac commendae. Ipsorum omnium situs, extensiones limites, ac distantiae ipsorum locorum cum periplo totius regni, ms. in BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI, Rari, coll. MS.S.MART.436, voll. 2. Estratti dalla Cronica sono nel t. II.
[188] Ivi, pp. 25-26.
[189], pp. 23-24
[190] Ibidem.
[191] Ivi, p. 23.
[192], pp. 5-6.
[193] A. D’ANDRIA, Identità e storie…, cit., p. 44.
[194] Ibidem.
[195], p. 46.
[196] Ivi, p. 47.
[197] CAV, f. 1v.
[198] A. D’ANDRIA, Identità e storie..., cit., p. 47.
[199], p. 50.
[200] Ibidem.
[201] Ibidem.
[202] Ivi, pp. 50-51.
[203] Ivi, p. 48.
[204], p. 50.
[205] Ivi, p. 51.
[206] Ibidem.
[207] Ibidem.
[208] Ibidem.
[209] Ivi, pp. 51-52.
[210] Ivi, p. 52.
[211] Ibidem.
[212], pp. 53-54.
[213] Ivi, p. 54.
[214] Ivi, pp. 54-55.
[215] Ivi, p. 55.
[216] Ibidem.
[217] Ivi, p. 56.
[218] Ibidem.
[219] Ibidem.
[220] Ivi, pp. 56-57.
[221] Ivi, p. 57.
[222] Ibidem.
[223] Ivi, p. 64.
[224] Ivi, p. 52.
[225] Ivi, p. 53.
[226] A. D’ANDRIA, «Della antiquità e nobiltà di Venosa». Intorno alla Cronaca Venosina di Giacomo Cenna, in «Bollettino Storico della Basilicata», XXIII (2008), n. 24, p. 220.
[227] Ivi, pp. 220-221.
[228] Ivi, p. 221.
[229] A. D’ANDRIA, Rappresentazione della città e luoghi del potere in Basilicata. La Cronaca Venosina di Giacomo Cenna, in C. CREMONINI-E. RIVA (a cura di), Il Seicento allo specchio. Le forme del potere nell’Italia spagnola: uomini, libri, strutture, Roma, Bulzoni, 2011, pp. 285-286.
[230] ID., «Della antiquità e nobiltà di Venosa»…, cit., p. 222.
[231] L’espressione è di C. PORZIO, Relazione del Regno di Napoli al Marchese di Mondesciar, viceré e capitan generale nel Regno di Napoli, in G. DE ROSA-A. CESTARO, Territorio e società nella storia del Mezzogiorno, Napoli, Guida, 1973, p. 34.
[232] A. D’ANDRIA, Rappresentazione…, cit., p. 296.
[233] G. CENNA, Nomina episcoporum, qui pro tempore praefuerunt Ecclesiae Venusinae, in Synodus Dioecesana Ecclesiae Venusinae ab admodum Illust(rissimo) et Reuerendis(simo)
Domino D. Andrea Perbenedicto de civitate Camerini […] habita […], Neapoli, apud Lazarum Scorigium, 1615, pp. 810-816.
[234] Per evidenti ragioni metriche, il Cenna abbreviò il nome del vescovo in «Frigio».
[235] Aggiunta del Bove.
[236] CAV, ff. 166r-170r.
[237] CAV, ff. 157r-165v; 171r-201v.
[238] Il Monti elogia nel seguito del discorso i meriti del poeta che sono superiori a quelli del filosofo perché egli oltre ad insegnare diletta anche, come dimostra chiaramente l’esempio del compatriota Orazio; il discorso si chiude al f.162v.
[239] Segue un discorso riguardante l’impresa che bisognava dare all’accademia che cita le teorie in merito di Giovio, di Barbagli e di Ammirati. Inoltre viene fatta una distinzione tra impresa colletiva e impresa individuale. Il discorso termina a f.173v.
[240] Segue l’elenco e l’esplicazione di alcuni elementi stilistici e retorici, cos’e una canzone, un madrigale, una sestina, la stanza, e quali versi sono sdruccioli e quali piani, o sciolti o in rima e l’esposizione termina a f. 201v, anche se questi ultimi fogli sono molto deteriorati.
- Quote paper
- Antonio D'Andria (Author), 2018, I segni dell'onore. Giacomo Cenna e la "Cronica Antica della Città di Venosa", Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/430251