Una grande arpa eolia. La poesia di Lucia Montauro


Essay, 2019

112 Pages, Grade: 9/10


Excerpt


Una Musa illuminata dalle Muse

Forse non erano lontani dal vero gli esponenti del primo Romanticismo tedesco (da Novalis agli Schlegel) i quali ritenevano (in anticipo sulla grande linea otto-novecentesca segnata dalla figura del poeta-critico, da Baudelaire e Mallarmé fino ad Eliot, Valéry, Montale) che la poesia potesse essere criticata solo dalla poesia, e che il giudizio sull'opera d'arte, per essere davvero valido ed attendibile, davvero prossimo e aderente all'essenza dell'opera, e capace di illuminarla, riverberarla, farla risuonare in tutti i suoi riflessi e i suoi armonici, non potesse che risolversi esso stesso in una forma d'arte1.

E, allora, non sarà casuale che la Musa di Lucia Montauro, sviluppatasi nel corso dei decenni con assiduità, pazienza (la «lunga pazienza», fatta di attesa, raccoglimento, logorio necessario al poeta per far maturare dal silenzio, distillandola sillaba a sillaba, la voce limpida del canto: «Patience, patience, Patience dans l'azur! / Chaque atome de silence / Est la chance d'un fruit mûr!»), quasi con una sorta di pudore che non era insicurezza o timore, ma consapevolezza di officiare come un antico rito ‒ e il suo lavoro assiduo condotto lontano, quasi al riparo, dalla cultura ufficiale, dai grandi circuiti dell'editoria, del mondo mediatico, della Chiacchiera, avrebbero detto gli esistenzialisti, che soffoca e confonde l'autenticità e la purezza della voce ‒ siano stati illuminati, nel corso dei decenni, sempre con la stessa discrezione, sempre con gli stessi toni finemente sottili e sfumati, proprio da poeti di valore assoluto.

Poeti che, per di più, nelle poche ma essenziali pagine dedicate a questa Musa antica, pacata, devota, hanno riversato, come proiettato, in modo più o meno esplicito e consapevole, qualcosa di se stessi, di se stessi in quanto poeti, qualcosa della loro natura e indole di creatori, quasi come in un gioco di identificazioni e di rispecchiamenti che, in questa loro pacata limpidezza, non restituiscono le immagini adulterate o distorte, ma ancora più definite e nitide.

È interessante rileggere, ad esempio, ciò che scriveva Giancarlo Pontiggia, fra l'altro curatore dell'elegantissima edizione che raccoglie tutte le poesie dell'autrice2, e dalla quale si citerà costantemente.

Fu, egli scrive, Maria Luisa Spaziani (del cui Meridiano3 Pontiggia stesso è curatore), a raccomandargli la poesia di Lucia Montauro. Una conoscenza, una ricezione, dunque, nate all'interno di un sodalizio intellettuale, di una corrispondenza poetica, e da essi mediate. Vi era, secondo la Spaziani, si percepiva con orecchio sufficientemente fine e puro, nei versi della Montauro, «una voce che sicuramente ha qualcosa da dire, non raccontabile né riassumibile ma ricca di una perentoria dolcezza, di persuasività, di musica subliminare»4.

Proprio quella «musica subliminare», quella sorta di canto sommesso, sotterraneo, sotteso, soffuso, che si insinua fra sillaba e sillaba, e innerva le reti e le strutture del senso al di sotto della superficie del testo, e fa dello stesso suono, come parola e come ritmo (suono che in ogni discorso poetico autentico ed essenziale infrange la convenzione, l'«arbitrarietà del segno», diviene intrinsecamente motivato, anzi necessario, esso stesso complemento essenziale, anzi intrinsecamente portatore di significato, in modo quasi metafisico, in virtù di una fonosemantica più profonda, al di là del mero mimetismo onomatopeico o fonosimbolico), non un guscio o una veste esteriori, ma midollo vitale, pulsazione, respiro, apparentano sia la Spaziani che Pontiggia l'una all'altro, ed entrambi alla poetessa di cui stiamo parlando, e con la quale essi avvertirono una insondabile, prerazionale nelle radici, eppure letterariamente consapevole, sintonia.

Eora il discorso ci porterebbe troppo lontano; dovrebbe finire per investire un intero capitolo, e non certo dei meno significativi, dell'intera tradizione poetica secondonovecentesca, e coinvolgere, pur se indirettamente, quel rapporto fra suono e senso che costituisce uno degli aspetti essenziali della poesia intesa in senso universale, dall'«autonomia del significante»5 che strutturerebbe se stesso per dinamiche interne, in certo modo scisse dal senso, o su di esso preponderanti, all'idea, forse più vicina all'effettiva natura del poetico, e certo più funzionale al nostro discorso, dei mots sous les mots, delle «parole sotto le parole»6, degli pseudoanagrammi e delle inconsce, implicitamente suggerite pseudoetimologie che si nascondono sotto la superficie del testo e della pagina, si rincorrono come riflessi da una tessera all'altra di un mosaico o da una faccia all'altra di un cristallo, e suggeriscono ‒ ad una fruizione inevitabilmente soggettiva, cangiante, impressionistica ‒ una vasta, forse potenzialmente illimitata stratificazione di livelli e dimensioni (si pensi al testo poetico come ad un multiverso fonosemantico) del significato e del messaggio.

Si potrebbe citare, qui, di Pontiggia, da Con parole remote (Parma 1998), il Canto di evocazione:

Vieni ombra/ ombra vieni/ ombra ombra

vieni oh vieni, buia

sali tra i gradini, nel tempo

Vienimi vieni vieni/ vienimi vieni vieni

con ogni doglia, con tutte le furie

con ciò che nell’ombra si sfoglia

con quel che nell’ombra spuma…

Dove, con un tono e una sonorità davvero remoti, crepuscolari eppure oscuramente albali, originari, che possono far pensare ai carmina della romanità arcaica, o magari (forse non senza passare attraverso le incantevoli nenie del Pontano, a riprova dell'importanza vitale, e sottovalutata, della poesia latina del Rinascimento nella graduale formazione di una tradizione letteraria insieme classica e moderna: «Somne veni, tibi Luciolus blanditur ocellis: / Somne veni, venias, blandule somne veni. / Luciolus tibi dulce canit: somne, optime somne, / Somne veni, venias, blandule somne veni. / Luciolus vocat in thalamos te, blandule somne, / Somnule dulcicule, blandule somnicule») a certi ritmi ipnotici del Pascoli, che dalla sua poesia latina si trasfondono in quella italiana, e viceversa, la parola poetica ritrova davvero il proprio valore arcaico, arcano e primigenio di rito, di incantesimo, di formula magica, di charme.

Nondimeno, diversamente da ciò che avviene talvolta nella poesia sperimentale e d'avanguardia, il discorso non si risolve, e dissolve, in una totale distruzione del senso, in una totale preminenza del significante autonomo, quasi abbandonato a se stesso, alla sua onda lunga e cieca, sul significato.

Al contrario, la parola si diluisce e si snoda in un flusso fonosemantico in cui i nuclei sonori, migrando e ripercuotendosi da una parola all'altra e da un verso all'altro, approfondiscono il senso, suggerendone cavità, pieghe e sfumature ulteriori (dal cupo tremore della r alla seduzione suadente della v, che di per sé evoca, quasi visivamente, con la sua sottigliezza dischiusa all'altezza, una enigmatica, ulteriore prospettiva, al gorgo, al Gouffre avrebbero detto i simbolisti, della o, che è invece ciclo di chiusura e di rinascita, di catabasi e di possibile risorgenza ‒ ma è ovvio che, qui, la soggettività del lettore prevale inevitabilmente, e consapevolmente, sulla presunta scientificità dell'accertamento critico, ammesso che essa sia possibile).

Ed ecco, a riscontro, per dare, come in un dittico, un altro esempio, uno solo, minimo, di questa subliminale musica verbale, un testo della Spaziani, da La traversata dell'oasi, raccolta del 2002:

Ibernati, incoscienti, inesistenti,

proveniamo da infiniti deserti.

Fra poco altri infiniti ci apriranno

ali voraci per l’eternità.

Ma qui ora c’è l’oasi, catena

di delizie e tormenti. Le stagioni

colorate ci avvolgono, le mani

amate ci accarezzano.

Un punto infinitesimo nel vortice

che cieco ci avviluppa. C’è la musica

(altrove sconosciuta), c’è il miracolo

della rosa che sboccia, e c’è il mio cuore.

Dove, nell' incipit, la durezza della dentale, accompagnata dall'esilità acuminata e penetrante della i, evoca un'infinità che non ha la dolcezza del mare leopardiano, che non sembra acquietare l'io ma al contrario, quasi, fagocitarlo; mentre il prosieguo del testo, con il prevalere di sonorità più aperte, riposate, affettuose, avvolgenti (il ricorrere della sillaba or), conduce via via verso la tenerezza del cuore, il tepore del miracolo della vita che si rinnova, la calda promessa del grembo generatore.

Ma la Spaziani, continua Pontiggia, con quella geniale formula di musica subliminare «definiva non tanto il verso, quanto l’andamento complessivo, mi verrebbe da dire l’atmosfera onirica e sensuale di una poesia in cui i contenuti si sciolgono naturalmente in suono, si fanno suono, se è vero, come è vero, che tutta la poesia di Lucia Montauro è come una grande arpa eolia, in cui a vibrare è la vastità sonora del mondo»7.

Ed è evidente, qui, in questo splendido passaggio, che a parlare, anche se nel discorso critico, è lo stesso Pontiggia poeta, che, nella raccolta Il moto delle cose, coglie proprio le risonanze e i vibrii di quella meravigliosa arpa che è il mondo, arpa nelle cui armonie le dissonanze non sono eluse, non sono cautelosamente aggirate, ma piuttosto ricomprese e ricomposte (con uno sguardo che può far pensare al Dante paradisiaco come al Foscolo delle Grazie o all'Onofri più cosmico) in una superiore armonia, in una più alta consonanza:

Stridono, le cose,

nella botola – scura – della materia,

oscillano

a un fiato di mondo.

(...)

Guardi, e temi

nello stridìo rigoglioso delle cose

che scrollano

da sé ogni nome

vibrano

s’impollinano, tumultuano

all’appello

di un ordine incessante

Ma vi è anche, dice ancora Pontiggia, in tutto il percorso della poesia dell'autrice, una sorta di costante fedeltà all'ispirazione, alla natura originaria, che fa delle successive tappe del suo cammino una sorta di variazione nella ripetizione, di compimento già scritto eppure sempre nuovo di un destino determinato, eppure ogni volta rivissuto; una fedeltà che «ha qualcosa di originario, di aurorale, che precede ogni decisione e ogni scelta»8.

«La poesia di Lucia Montauro si sviluppa come un carmen continuum, restando in fondo indifferente al disegno di un singolo libro: unico è il libro, come unica l’ispirazione che lo determina nel corso di almeno trent’anni»9.

Non siamo lontani dall'idea del Livre di Mallarmé, in cui tutto deve sfociare, approdare, risolversi, «aboutir», l'esistenza del poeta così come la vita dell'universo che si riflette nella sua anima, e da essa rivibra sulla pagina.

Un vasto libro, uno e molteplice, sfaccettato e coerente, che, «nella sua interezza, è in fondo racchiuso in quell’immagine di solarità e di profumo, è davvero 'una rosa gialla', sbocciata chissà come nel gran giardino del mondo».

Altre suggestioni derivano dai passi di critici-poeti opportunamente riportati nell'appendice degli opera omnia 10.

Secondo la Spaziani, vi è, nella poesia dell'autrice, «la raffinatezza di una cultura profondamente assimilata, classica e moderna, tale da sembrare una seconda natura».

Un ideale di cultura, insomma, polizianeo, rinascimentale, di aemulatio, non di mera imitatio: un rapporto con i modelli in cui sono precisamente essi a consentire all'autore di divenire ciò che è, di manifestare, proprio attraverso il confronto e nel confronto con il passato – sull'onda di una continuità storica, vitale e spirituale mai realmente intermessa, durata intatta, sotterraneamente, nel profondo –, la propria vera identità, che altrimenti sarebbe forse rimasta oscura anche a lui stesso.

«Lo suggerisce già», scrive la Spaziani, «la scelta delle citazioni che lei premette ai suoi versi, poi la necessaria economia del dettato, dove endecasillabi classici o ipermetri si alternano ai settenari-ottonari, o chiudono ad imbuto o a clessidra facendo scivolare il discorso, o l’apologo, verso una chiusa graziosamente gnomica» (ossia sintetica, emblematica, incisiva, sentenziosa, senza per questo essere didascalica: «Non enim excidunt sed fluunt; perpetua et inter se contexta sunt. Nec dubito quin multum conferant rudibus adhuc et extrinsecus auscultantibus; facilius enim singula insidunt circumscripta et carminis modo inclusa»11, insegnava del resto Seneca, sottolineando l'utilità, anche per l'espressione poetica, della concisione efficace, rilevata, come scolpita nel marmo della parola ritmicamente scandita, quasi in accordo con un ritmo superiore, sovratemporale, già scritto, fatale).

Nelle immagini, notava ancora la grande poetessa, «talvolta la citazione si stempera fino a risultare quasi inavvertita». Altra osservazione squisita, che sembra richiamare una nozione di immagine poetica come unità sensoriale e percettiva, e insieme intellettuale, in cui dunque la suggestione letteraria, consapevolmente fatta propria, recepita, filtrata, può trasfondersi e assumere altra e nuova forma, divenendo pieno ed originale possesso del poeta che l'ha còlta e rivisitata, dato culturale e insieme gnoseologico, memoria storica ed Erlebnis, esperienza vissuta, evidenza percettiva e patrimonio esistenziale – fino ad assottigliare, quasi ad eliminare la distinzione fra esperienza della vita ed esperienza della poesia, fra ciò che si è visto e vissuto sulle pagine dei testi letterari e ciò di cui si è invece avuta esperienza personale e vitale nel mondo.

E precisamente questo particolare, personalissimo, direi intimo rapporto con la tradizione letteraria, e questo diluirsi delle reminiscenze culturali nella limpidezza folgorante e nell'istante assoluto dell'immagine (reminiscenze che proprio per questo divengono più difficili da rintracciare, ma la cui ricerca risulta, di conseguenza, ancor più allettante e significativa sul piano ermeneutico, oltre a lasciare allo studioso un margine molto più ampio di libertà interpretativa), fanno dell'opera della Montauro un oggetto di studio rilevante, un possibile campo d'applicazione e d'esercizio dei metodi interpretativi, infine una sfida intellettuale di notevole rilievo e di ragguardevole impegno.

Ed è un altro poeta-critico, Domenico Cara, a cogliere le implicazioni formali e stilistiche della disposizione esistenziale e spirituale quieta ed appartata propria dell'autrice, e delle conseguenti omogeneità e coerenza e coesione (che sono però tutt'altro che ripetitività o monotonia) proprie del suo dettato.

«Oggetto e memoria di codesto status regolano il senso di una furtiva sintassi prudente e dolce e senza ambigui contrassegni di significato o di imperfetta e pubblica voce. Proprio in un’estensione sobria dell’esistenza, la sua parola ricostruisce aloni tormentati e inviolabili, nella cui fisionomia l’allarme quotidiano si agglutina e si anima, così come una visione mediterranea ancora stupefatta e aurea, nell’importanza che l’Autrice dà al mito e alle radici del Male».

Ecco, precisamente a questa dimensione mediterranea, classica, lirica e insieme tragica, solare ma nel contempo tormentata, si farà più volte riferimento (dai classici greci fino a Quasimodo che ne è moderno ed originale erede) lungo il nostro discorso.

«L’angoscia», scrive ancora Cara, «macchia la fiaba della vita e, comunque, il linguaggio, che si riproduce come funzione sensibile, assoluta, tra sonno e insonnia e – insieme – nell’alternato ridestarsi che reinventa la realtà, il senso oggettivo, il pathos pagano e sacrale del riavvio più in là, dove le latitudini del suono, altri echi sparsi e consecutivi, recano alla passione per la scrittura argomenti ed estasi, frammenti di storia e di paesaggio, e tutto diventa parte del suo corpo, animando l’esistenza totale e sospesa».

Scrittura densa e complessa, quella di Cara, collimante con la molteplicità di sfumature e stratificazioni e risonanze che si deposita e si annida e si sedimenta sotto la superficie e fra le pieghe di un dettato poetico pure a prima vista così limpido e cantabile.

Si tratta ora, precisamente, di perlustrare quelle vaste e complesse e sfaccettate «latitudini del suono», le volute e i rimandi e le implicazioni di un pensiero che si fa suono ed immagine, che è profondamente pervaso e intriso e compenetrato dai mezzi espressivi propri del discorso poetico.

Nel vento del Mediterraneo

Esiste ‒ sebbene non sia facile scandagliarne tutte le profondità, le risonanze, i gorghi, le pieghe, i vortici celati e le correnti nascoste sotto la superficie ‒ la profondeur de la surface, è stata chiamata ‒ pure esiste, si diceva, benché remota nelle origini e spesso sfuggente nelle manifestazioni, ricca di riflessi e riverberi e tremolii come la luce sulla superficie marina, come il «vasto sorriso del mare» caro ai poeti greci ‒ esiste qualcosa come un'identità poetica mediterranea, come un Mediterraneo inteso quale spazio e occasione e ispirazione di poesia.

Un'identità e una scenario, per quanto divenienti, fluidi, dagli incerti confini, che affondano le proprie radici nella poesia greca ‒ e forse prima ancora in quella egizia ‒ basti pensare al Romanzo di Sinuhe, quella straordinaria parabola di smarrimento e ritorno, perdita delle radici e redenzione, sogno e coscienza, secondo uno schema e una movenza che si ritroveranno così nei Vangeli come nel romanzo ellenistico ‒ per giungere, lungo diverse e ramificate e impalpabili, celesti vie d'acqua, fino al Novecento dei Montale, dei Valéry, dei Saba.

Ha scritto Vincenzo Ammirati, enumerando sinteticamente i caratteri essenziali della mediterraneità letteraria: «Musicalità innestata su un tessuto linguistico che già naturalmente è mélos: da quello indoeuropeo a quello greco-latino-romanzo, dove la cifra melica, seppure di spessore diacronicamente ramificato, permane elemento distintivo di mediterraneità. (...) Ricomposizione contingente-assoluto, (...) quindi ricongiunzione uomo-dio. Questa, che è ipostasi ricorrente della poesia mediterranea, s'esplicita in un topos altrettanto ricorrente e centrale: il tema del viaggio, che è procedimento dall'umano al divino, metafora mitica della vita stessa».12

Non potevano essere definiti ed illustrati in modo più chiaro e lineare quel nucleo di fermenti e di impulsi, quel crogiolo di popoli e di culture e quell'inesauribile fonte di ispirazione poetica che si riassumono e si sustanziano nella realtà storica e concettuale del grande Mare Nostrum.

Non si deve credere, peraltro, che questa mediterraneità si risolva e si esaurisca in un'apollinea, "neoclassica", archeologica rievocazione di un remoto passato mitico, di una sorta di "Paradiso perduto", tale da dischiudere una via di fuga dal presente.

Come ha scritto Paul Valéry, "la natura mediterranea, le risorse che offre, le relazioni che ha determinato o imposto sono all'origine della sorprendente trasformazione psicologica e tecnica che, in pochi secoli, ha così profondamente differenziato gli Europei dal resto degli uomini, e i tempi moderni dalle epoche precedenti"13.

E proprio da Valéry converrà partire per cercare di ricostruire alcuni degli echi e delle valenze che questa nozione di mediterraneità poetica può aver suscitato, e che anche nell'opera della Montauro hanno lasciato aloni e risonanze vasti e riverberanti.

Mi riferisco, com'è ovvio, al celebre poemetto Le Cimetière marin 14.

Midi le juste y compose de feux

La mer, la mer, toujours recommencée!

Ô récompense après une pensée

Qu’un long regard sur le calme des dieux!

Quel pur travail de fins éclairs consume

Maint diamant d’imperceptible écume,

Et quelle paix semble se concevoir !

Qui si alternano, e quasi si fondono, nel moto stesso dei versi, nella tessitura stessa delle sillabe, moto e immobilità, l'inesauribile mutevolezza della sostanza equorea e la vastissima uniformità, la superficie quasi dipinta, smaltata e levigata, della distesa marina.

Ma a questa quiete quasi apollinea, a questa quasi classica compostezza di forme, si contrappone il senso, tipicamente simbolista, della dissolvenza, dell'evanescenza, dello sciogliersi delle forme e dei contorni in luce, suono, vibrazione, suggestione sonora (e sono certo questi i versi del Cimetière che affascinarono D'Annunzio15 ):

Comme le fruit se fond en jouissance,

Comme en délice il change son absence

Dans une bouche où sa forme se meurt,

Je hume ici ma future fumée,

Et le ciel chante à l’âme consumée

Le changement des rives en rumeur.

Al senso del fatale disfacimento si contrappone il rigore adamantino della coscienza che trasforma quella percezione dolorosa in conoscenza di sé, quasi secca e arida come saranno poi i paesaggi e i meriggi montaliani.

Ici venu, l’avenir est paresse.

L’insecte net gratte la sécheresse ;

Tout est brûlé, défait, reçu dans l’air

À je ne sais quelle sévère essence…

La vie est vaste, étant ivre d’absence,

Et l’amertume est douce, et l’esprit clair.

Infine, quella stessa coscienza lucida fino all'abbaglio, ostinatamente e dolorosamente raccolta su se stessa, si apre al futuro, getta un grido disperato e insieme potente alla vita.

Le vent se lève !… Il faut tenter de vivre!

L’air immense ouvre et referme mon livre,

La vague en poudre ose jaillir des rocs!

Envolez-vous, pages tout éblouies!

Si può citare, ad integrazione e a riscontro, Montale, il Montale di Mediterraneo, di cui sono state sottolineate le sottili ma sensibili consonanze con Valéry16.

Antico, sono ubriacato dalla voce

ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono

come verdi campane

e si ributtano indietro e si disciolgono.

(...)

Mi era in fondo

la tua legge rischiosa:

esser vasto e diverso

e insieme fisso:

e svuotarmi così d'ogni lordura

come tu fai che sbatti sulle sponde

tra sugheri alghe asterie

le inutili macerie del tuo abisso.

Anche qui, il mare come perpetuo rinnovamento, come moto avvolgente, spira mirabilis di gorghi intrecciati, di vortici rampollati dai vortici.

Si potrebbe citare il Trionfo della morte di D'Annunzio (autore dal quale, scriveva lo stesso Montale, sarebbe un pessimo segno non avere appreso nulla, incarnando egli una sorta di sintesi, come Victor Hugo per la Francia, di tutte le possibilità formali ed espressive, e di tutte le possibili diramazioni di generi, della letteratura italiana):

'Forse, ecco la vita superiore: una libertà senza confini; una solitudine fertile e nobile che mi avvolga nelle sue emanazioni più calde; (…) mutarmi infine, per una laboriosa metamorfosi ideale, nell'albero eretto che assorbe con le radici gli invisibili fermenti sotterranei ed imita con l'agitazione delle sue cime il verbo del mare. Non è questa forse una vita superiore?' Egli si lasciava sopravvincere da una specie di ebrietà pànica, al cospetto della esuberante primavera che transfigurava i luoghi intorno. Ma la funesta abitudine della contraddizione gli interruppe il gaudio, gli suggerì l'antico pensiero, gli oppose la realità al sogno. '(…) L'uomo potrà infondere nelle apparenze create tutta la sua sostanza, ma non riceverà mai nulla in cambio. Il mare non gli dirà mai una parola intelligibile. La terra non gli svelerà mai il suo segreto. L'uomo potrà sentire tutto il suo sangue correre nelle fibre dell'albero, ma l'albero non gli darà mai una goccia della sua linfa vitale'.

Ecco, come vedremo, anche nei versi della Montauro, è precisamente quel «verbo del mare», quella parola in sé ancora informe e implicita, avvolta nella materia, nella hyle, che il canto, il melos del Mediterraneo cerca di riportare alla luce, infondendovi una forma articolata nel fluire delle parole che dà linea e senso e distesa al sovrastare delle onde e all'involgersi dei gorghi.

Ma c'è, anche, in quest'essenza mediterranea, una sorta di vocazione metamorfica, una perpetua tensione al cambiamento («Midi là-haut, Midi sans mouvement / En soi se pense et convient à soi-même… / Tête complète et parfait diadème, / Je suis en toi le secret changement», cantava ancora Valéry nel Cimetière: nell'immobilità, che sarà poi montaliana, del meriggio desolato, silente e abbacinante, il muto logorio mentale del poeta che medita è una sorta di inerte e latente, ma incessante e fervido, movimento).

In Dante, il mare è sia spazio fatato della metamorfosi di Glauco in divinità marina, simbolo della progressiva trasformazione, della progressiva immersione del poeta nella Divinità, del suo graduale «indiarsi»:

Beatrice tutta ne l'etterne rote

fissa con li occhi stava; e io in lei

le luci fissi, di là sù rimote.

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,

qual si fé Glauco nel gustar de l'erba

che 'l fé consorto in mar de li altri dèi.

Trasumanar significar per verba

non si poria; però l'essemplo basti

a cui esperïenza grazia serba17,

sia luogo mitico, profondità temporale, lontananza leggendaria che dilata il tempo umano fino a farlo quasi collimare con l'eterno, fino a consentirgli di divenire davvero imago aeternitatis, approssimazione asintotica dell'infinita distanza che separa il tempo dall'eterno:

La forma universal di questo nodo

credo ch’i’ vidi, perché più di largo,

dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

Un punto solo m’è maggior letargo

che venticinque secoli a la ‘mpresa,

che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,

mirava fissa, immobile e attenta,

e sempre di mirar faceasi accesa18.

Dante e il mare evocano la figura di Ulisse. E quest'ultimo è simbolo e personificazione della dimensione mediterranea della poesia in Saba, nella poesia che proprio dal nome dell'eroe trae il titolo.

Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.

Condizione mediterranea come spazio dell'erranza, dimensione emblematica dell'esilio, nostos bramato ma impossibile, ma nella cui impossibilità, e nel cui perenne vagheggiamento, risiede infine il senso stesso del vivere come perpetua ricerca.

Simbologie che tagliano, travalicano e trascendono le distinzioni di correnti e movimenti, se è vero che riaffiorano anche in un poeta lontano dalla «poesia onesta» di Saba, così cantabile e umana, più prossimo agli intellettualismi e ai preziosismi ermetici, eppure pervaso ed invaso egli stesso, profondamente, fino nelle intime fibre, dal sole e dalla luce e dalle vastità del Mediterraneo, come Quasimodo19.

41

Leggiamo Vento a Tindari:

Salgo vertici aerei precipizi,

assorto al vento dei pini,

e la brigata che lieve m’accompagna

s’allontana nell’aria,

onda di suoni e amore.

(…)

A te ignota è la terra

ove ogni giorno affondo

e segrete sillabe nutro:

altra luce ti sfoglia sopra i vetri

nella veste notturna,

e gioia non mia riposa

sul tuo grembo.

(…)

Aspro è l’esilio,

e la ricerca che chiudevo in te

d’armonia oggi si muta

in ansia precoce di morire;

e ogni amore è schermo alla tristezza.

Questa è, in fondo, la condizione emblematica della stessa Montauro. Un «nutrire segrete sillabe», conservando nel cuore la luce e il calore della vasta culla mediterranea; una ricerca d'armonia che non cessa mai, che mai si arrende, e che pure non riesce mai del tutto a dissolvere quella sorta di nordica, settentrionale melanconia (tradotta in tinte limpide, anche se a tratti ombrate) senza la quale, del resto, senza la cui inquieta e turbata profondità difficilmente si potrebbe concepire un'ispirazione lirica autenticamente moderna, ossia individuale, introspettiva, dolorosamente autocosciente.

Un contrasto, questo di luce mediterranea e traslucida opacità d'esilio, che attraversa ed innerva in modo marcato la poesia della Montauro:

E rivederti isola

già dalle coste calabre

sei tutta una promessa

di pigrizia e di sole.

Mare

cose

persone

mesto affiora il ricordo

di chi non rivedrò20.

Dove ad uno stilema di tono vagamente ermetico («promessa / di pigrizia e di sole»: e viene in mente, pur se in altro, più simbolicamente rarefatto, contesto, ma sempre con un richiamo all'archetipo del viaggio, dell'esilio, dell'ulissismo, l'Ungaretti dell' Isola: «Distillavano i rami / Una pioggia pigra di dardi, / Qua pecore s'erano appisolate / Sotto il liscio tepore, / Altre brucavano / La coltre luminosa»), che rievoca la solarità mediterranea, subentra la voluta opacità (e, per citare la Spaziani, la gnomica conclusione da epigramma greco, da fulmen in clausula) di tratti prosastici, di «persone» e «cose» che suggeriscono, al contrario, la perdita cupa e irrevocabile.

Mi chiami

isola

e spesso a te ritorno

mi chiami

e retrocede il tempo

a brevi giorni infiniti.

E calpestando le mie e le tue radici

che amore m’hanno dato

ed anche pianto

respiro avida

profumi dissepolti

che ancora sanno prendermi

e in me bruciarsi

di gioia amara21.

Qui il testo muove da una forte reminiscenza quasimodiana. Alludo alla splendida Vicolo:

Mi richiama talvolta la tua voce,

e non so che cieli ed acque

mi si sveglino dentro:

una rete di sole che si smaglia

sui tuoi muri ch’erano a sera

un dondolio di lampade

dalle botteghe tarde

piene di vento e di tristezza,

al cui ricordo si sovrappone forse, ma per opposizione, ad evocare un recupero del passato e della memoria stavolta impossibile, e con, in più, l'immagine bergsoniana del filo della memoria, il Montale della Casa dei doganieri:

Tu non ricordi la casa dei doganieri

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera.

(…)

Libeccio sferza da anni le vecchie mura

e il suono del tuo riso non è più lieto.

(…)

Tu non ricordi; altro tempo frastorna

la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana

la casa e in cima al tetto la banderuola

affumicata gira senza pietà.

E il testo della Montauro approda infine ‒ secondo la consueta movenza verso la concisione fatale, lapidaria della ghnome, che è anche destino, fato, fatum, parola originaria, immutabile, forse già pronunciata prima di ogni tempo ‒ alla condizione ossimorica, chiaroscurale, fra luce ed ombra, della gioia amara, della riconquista che è in realtà nuova perdita, o nuova consapevolezza della perdita, senso della vita che è un continuo perdere solo per ritrovare attraverso il ricordo, e nei luoghi e negli spazi vivi del ricordo.

Il testo perviene, insomma, al paradosso melanconico dei «profumi dissepolti», della Primavera che risorge, secondo l'archetipico mythos, dagli inferi come Persefone sposa del dio dei morti: della «primavera dissepolta» evocata da D'Annunzio in Consolazione, nel Poema paradisiaco, certo con soffocante, decadente languore, come in un'aria affocata di serre chaude, ma non senza efficace suggestione:

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.

Io parlo. Di': l'anima tua m'intende?

Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende

quasi il fantasma d'un april defunto.

Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)

ha ne l'odore suo, nel suo pallore,

non so, quasi l'odore ed il pallore

di qualche primavera dissepolta.

Ma, come spesso accade in poesia, l'essenza di un motivo affiora e traspare e riluce con evidenza maggiore proprio laddove esso è solo indirettamente evocato, non indicato o mostrato con assoluta evidenza.

La morte levita il sudore

la vita il sogno

così tutto diviene forma pura.

Quando cade la notte

negli intarsi del legno affiorano

ceselli di messaggi da esplorare

emblemi-icone di presenze tramandate.

L’ora che giunge al limite

riaccende il sangue nelle vene

per rimirare a poco a poco

quel dove lo spirito si appaga22.

«Tutto diviene forma pura». Vi è, in queste parole, la vera essenza, forse, dell'immaginario e della solarità mediterranei; l'eco più pura della Grecia, che fa pensare ancora a D'Annunzio, ma stavolta a quello solare ed apollineo, non a quello notturno ed elegiaco:

Torna con me nell'Ellade scolpita

ove la pietra è figlia della luce

e sostanza dell'aere è il pensiero.

Navigando nell'alta notte illune,

noi vedremo rilucere la riva

del diurno fulgor ch'ella ritiene23.

L'oscurità non è che l'altra faccia della luce. La notte racchiude e cova la luce nel proprio grembo, lasciandola trapelare nello stillicidio degli astri, ed è pronta a farla di nuovo sgorgare, generosa, nello sguardo di chi la contempli e la perlustri con sufficiente acume.

«Emblemi-icone di presenze tramandate». Concetti e parole simili in Memoria di Ofelia d'Alba di Ungaretti, anch'egli a suo modo poeta mediterraneo, per il persistente ricordo dell'infanzia in Egitto («Conosco una città / che ogni giorno s’empie di sole / e tutto è rapito in quel momento»):

Da voi, pensosi innanzi tempo,

troppo presto

tutta la luce vana fu bevuta,

begli occhi sazi nelle chiuse palpebre

ormai prive di peso,

e in voi immortali

le cose che tra dubbi prematuri

seguiste ardendo del loro mutare,

cercano pace,

e a fondo in breve del vostro silenzio

si fermeranno,

cose consumate:

emblemi eterni, nomi,

evocazioni pure …

L'«ora che giunge al limite»: non potevano essere indicati in modo più efficace il pertugio, lo spiraglio, il punctum in cui il tempo si eleva, trascende se stesso e tracima nell'eterno.

Come in Montale, in Casa sul mare:

Tu chiedi se così tutto vanisce

in questa poca nebbia di memorie;

se nell'ora che torpe o nel sospiro

del frangente si compie ogni destino.

Vorrei dirti che no, che ti s'appressa

l'ora che passerai di là dal tempo;

forse solo chi vuole s'infinita,

e questo tu potrai, chissà, non io.

O, ancora, in Dante, il «punto», il punctum della visione divina che è istantaneo e insieme lunghissimo, dilatato, intemporale, «letargo» («un punto solo m'è maggior letargo...»), stordimento o sospensione della coscienza che possono essere durati un attimo infinitesimale come migliaia d'anni.

Ma quel punctum, quel «limite» sono la Divinità, l'Eternità stesse, a cui tutti i tempi, tutte le dimensioni temporali sono compresenti e simultanei, e in cui dunque il tempo attinge la propria pienezza, la propria totalità e il proprio compimento:

O cara piota mia che sì t'insusi,

che, come veggion le terrene menti

non capere in trïangol due ottusi,

così vedi le cose contingenti

anzi che sieno in sé, mirando il punto

a cui tutti li tempi son presenti24.

La meta, l'orizzonte, il margine ultimo di questa elevazione e di questa sublimazione del tempo e della

coscienza si compendiano in quel «dove lo spirito si appaga».

Un ubi sostantivato, una relatività locativa che trova nella sostantivazione una stabilità, una definizione, una consistenza ontologica, uno statuto di realtà che ne fanno dimensione stabile e, appunto, posta al di sopra dello spazio e del tempo ordinari, in cui si snodano il divenire e il cammino dell'esistenza.

Un'audacia linguistica, questa, che trova ancora in Dante il proprio antecendente e la propria giustificazione; un ubi che era distinto dal locus nella misura in cui il primo indicava la condizione del corpo avvolto e circondato dal locus, il secondo precisamente lo spazio entro cui avveniva tale circumscriptio 25.

Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,

quel che tu vuoli udir, perch' io l'ho visto

là 've s'appunta ogne ubi e ogne quando.

Non per aver a sé di bene acquisto,

ch'esser non può, ma perché suo splendore

potesse, risplendendo, dir ``Subsisto",

in sua etternità di tempo fore,

fuor d'ogne altro comprender, come i piacque,

s'aperse in nuovi amor l'etterno amore26.

Ma, in quel verso lapidario della poetessa, in quell'endecasillabo come scolpito nell'alabastro:

così tutto diviene forma pura,

sembra riaffiorare (come se nel testo si fondessero e si compenetrassero le due istanze, i due poli della tradizione poetica italiana ‒ da un lato la vivida concretezza del viaggio dantesco, dall'altro l'immobilità lirica e contemplativa, la platonica idealizzazione, del poeta di Laura) anche l'immagine petrarchesca del pellegrino che si avvicina a Dio, che vagheggia la contemplazione della Veronica, così come il poeta brama la visione del volto dell'amata sottratto ormai ad ogni mortalità, sciolto e purificato da ogni tratto caduco, da ogni terreno peso:

(…) et viene a Roma, seguendo ’l desio,

per mirar la sembianza di colui

ch’ancor lassú nel ciel vedere spera:

cosí, lasso, talor vo cerchand’io,

donna, quanto è possibile, in altrui

la disïata vostra forma vera.27

E quella forma vera, quella forma pura, essenza o fantasma, simulacro che forse ha nella propria verità la propria finzione, nella propria illusorietà la propria onirica sostanza, fa pensare, nello stesso petrarchesco limbo di luce e d'ombra, di purezza ed assenza, a Sereni:

La città -mi dico- dove l’ombra

quasi più deliziosa è della luce

come sfavilla tutta nuova al mattino…

“… asciuga il temporale di stanotte”… ride

la mia gioia tornata accanto a me

dopo un breve distacco.

(...)

Ma la forma l’immagine il sembiante

-d’angelo avrei detto in altri tempi-

risorto accanto a me nella vetrina

(…)28.

Bastano questi richiami incrociati a collocare l'autrice in grembo al divenire di un'identità poetica insieme classica e moderna.

Fra suono e senso, «tra pensiero e labbra»

Così hai lasciato

l’albero del giardino

e il bastone che ritmava i tuoi passi

amico del lungo meditare

del dubbio costruttivo.

Andando

con le tue parole-cose

nel soffice fermento della luce

oltre la fatica dell’attesa

hai sciolto l’enigma dell’altrove.

Ma al richiamo dell’albero

che continua il suo verde

sarai immagine dal volto conosciuto

nell’ombra solitaria dietro i vetri29.

Con questi versi struggenti l'autrice ricordava Roberto Rebora, il poeta della Linea lombarda (definito da Carlo Bo, nel necrologio affidato al Corriere, «il più puro dei poeti di questo secolo», capace di seguire il proprio itinerario interiore, di portare a compimento la propria natura e la propria vocazione al riparo da ogni influsso esterno, anche a costo della pena e della fatica e dell'isolamento che ciò poteva comportare) che, accanto a Vittorio Sereni, altro esponente della stessa linea tratteggiata da Anceschi in una celebre antologia, alcuni versi del quale («Così delirando di una perduta forza / di una remota gioia, così oltre noi dileguando / scovava, svergognandola, la morte / ancora occulta tra noi ...», da Ancora sulla strada di Creva, negli Strumenti umani) pure sono posti dalla poetessa come epigrafe della raccolta In assenza del venditore di more, incarnava quel versante lombardo, chiaroscurale, laghista, che faceva da contraltare alla solarità sicula e mediterranea così viva nella sua poesia, e rappresentava, per così dire, il momento crepuscolare, riposato, sottilmente malinconico, del ripiegamento meditativo ‒ quasi silenzio rispetto al canto, e ombra rispetto alla luce.

Sembra che questa lirica dedicata a Rebora articoli una sorta di controcanto, o di canto parallelo o intrecciato, ad uno degli ultimi testi del poeta, quasi suo assorto e fermo, eppure stranamente sereno, testamento spirituale, ossia la lirica Fra poco, del 1990, eponima del libro che reca lo stesso titolo:

Fra poco basta

e sarà allora

come lo spazio

inseguito per anni

con una parola

nascosta nella foglia

che si stacca

all’improvviso

e gira nell’aria

incerta ancora

nei suoi movimenti

contrari.

L'antico motivo (da Omero ai lirici greci, dai simbolisti francesi e italiani fino ad Ungaretti) della foglia come emblema della fragilità e della caducità umane si traduceva in un dettato lirico dalle sonorità e dai ritmi tenui e serenamente malinconici, in cui l'accettazione del destino si faceva compostezza formale, limpidezza di dettato, esattezza compositiva.

La levità aerea del suono è la medesima della visione, del pensiero, della figurazione, della stessa condizione esistenziale.

«Gira nell’aria / incerta ancora / nei suoi movimenti / contrari»: dove l'urto delle dentali (incerta, contrari), quasi evocando, con un gioco d'eco, la parola e il concetto solo sfiorati, non direttamente enunciati («morte»), sembra introdurre una venatura di malinconica riflessione nella serenità quasi idillica della rappresentazione.

Ad un canto e controcanto, ad un chiaroscuro fonosimbolico non diversi sembrano alludere i versi della Montauro: «il bastone che ritmava i tuoi passi / amico del lungo meditare» (dove, si noti, il verbo stesso meditare è còlto, quasi assaporato nella sua pregnanza etimologica, da una radice che significa misurare, scandire, e insieme pensare) si affianca alla sonorità più tenera e trepida (ma ravvivata all'improvviso, proprio nel centro del verso, dalla tesa vibrazione della r e della t) del «soffice fermento della luce», e all'impressione fonica, e insieme visiva, più incavata e cupa, dell'«ombra solitaria dietro i vetri»; come se uno stesso inquieto e raggelato, perturbante tremore («solitaria dietro i vetri») evocasse, proprio nella chiusa del testo, esattamente come nella poesia di Rebora, la prospettiva dell'oltre, dell'ignoto, del mysterium tremendum.

Era, del resto, proprio Rebora ad interrogarsi sulla natura della voce poetica, sul rapporto fra pensiero e parola, idea e canto, fra pre-voce e voce, o, direbbe la Montauro, «fra pensiero e labbra».

«La rivelazione che forma il primo rapporto della voce con se stessa, della voce con lo spirito, è la rivelazione di un infranto mondo di silenzio spopolato, è una imposizione assolutamente formata di un oggetto sul quale il tempo comincia il proprio volto e l'uomo il riconoscimento di una possibilità di manifestazioni, di un primo arrivo alla formazione del suono della coscienza»30.

E non è, allora, affatto ozioso, non è segno di sterile e vuoto e compiaciuto estetismo (se è vero che la poesia è, diceva Valéry, «cette hésitation prolongée entre le son et le sens»31 ) indagare i rapporti fra suono e senso, le pieghe del messaggio poetico che si celano fra parola e parola, fra sillaba e sillaba, quasi fra lettera e lettera (ma addirittura fra bianco e bianco, fra silenzio e silenzio).

Ne sia o meno il poeta pienamente consapevole, vi è comunque, nel suo operare, una razionalità inconscia, che opera selezione e combinazione secondo un disegno intellettuale preciso e nitido anche e proprio laddove l'orecchio paia prevalere sulla mente, l'automatismo compositivo sulla volontarietà e sulla scelta deliberata.

Ed è proprio allora, forse, che la coscienza inconscia, la razionale e cosciente inconsapevolezza del poeta si fanno interpreti del senso profondo, originario, e sempre multivoco ed irriducibile, del linguaggio.

La fonosemantica, del resto, lungi dall'essere affidata alla mera soggettività, all'abbaglio, all'illusione, poggia oggi su basi non fragili32.

Vi sono, in tutta la poesia dell'autrice, una continua contrapposizione, o meglio un assiduo intrecciarsi fra l'idea di chiusura, di barriera, di ostacolo, evocata da gruppi di consonanti occlusive, e quella, invece, di apertura, respiro, illuminazione, richiamata dalle vocali aperte e dalle consonanti liquide e sonore.

Su analoghe onde fonosemantiche, si delineano e sono sottolineate le antinomie di pesantezza e levità, ciclico ricorrere e repentina illuminazione, ritmo ricorsivo e suono isolato e abbagliante.

E la u e la v (derivate dall'antico digamma, dalla lettera vav che, nella mistica ebraica, stava ad indicare il contatto, la trasmissione, il passaggio di un flusso energetico) richiamano l'incanalarsi e il fluire di un'energia superiore e celeste per le molteplici vie della terrestrità.

Nel te mpio della me nte

non c’è mo rte

solo strugg ente ca nto che tra bocca

per sciogliere il respiro

e le nuvole dell’anima33.

Mente e morte: l'assonanza evoca il logorante pensiero della caducità umana, al quale si oppone la levità alata di un respiro, di un'anima intesa grecamente come anemos, come soffio vitale, come anelito alla purezza e alla vastità celesti.

E mu ta il ven to

passi ovat tati

in s pa zi di sil en zi e ombre

e il sol ito la nguore

di giorni di sol e di ser to re

di cicale mu te.

L’ ieri vibr a nte già lo ntan o

di v eli evanesce nti si deforma

e riapre la par tit a con rimpi anto e n oia 34.

Da un lato la barriera dei gruppi consonantici (in particolare nt), dall'altro l'esilità, la sottigliezza, il lieve ronzio o sussurrio delle s, delle z, delle i, sottile soffio bisbigliante (quasi l'«infinito silenzio» leopardiano), tenuissimo filo di luce sul confine dell'ombra e del silenzio.

L’aur ora scavalca mo nta gne

viene a cerc ar ti anc ora.

Anche l’au tunn o

ha i suoi ma ttin i chi ari

e bisbigli d’ ali

ad annod are t r a me di p arole 35.

Qui davvero la poesia è, come fu detto, «una danza di sillabe», che evoca il moto ciclico e circolare dell'ispirazione poetica che oscilla fra la realtà e la pagina, fra il paesaggio e la scrittura.

«Ad annodare trame di parole». Qui il ritmo stesso del verso, prima anapestico poi dattilico, prima ascendente poi discendente, come un vettore che sale, s'incrina e si ripiega su se stesso nel cerchio del pensiero autocosciente, suggerisce l'aprirsi e il chiudersi del testo e del pensiero poetici nel loro cerchio fatato e lucidissimo, terso e vigile specchio di se stesso.

Per il nomade stan co

la stra da più non c anta

lascia a malincu ore

le cen eri fum anti d’un bivacco.

Lo atte nde quel declivio

e il mi ste ro dell’ultimo giaciglio

sotto un cielo di ste lle

o nuvole

senza po rte da chiud ere

alla no tte

l’ul ti ma fa ti ca del pensi er

a tra scin are l’anima

lo ntan o

olt re la siepe viola del convolvolo36.

Anche quest'ultimo verso rispecchia lo stesso schema ritmico ascendente-discendente che abbiamo visto: quasi che tutta la struttura del verso ritraesse la forma visiva, fonica ed evocativa del «convolvolo».

La durezza e la pesantezza delle consonanti occlusive accompagnano la stanchezza del viandante; la levità e la luce delle liquide il respiro e il riposo e il ristoro fra le vastità celesti.

Altrove, il valore fonosimbolico delle lettere ha addirittura la funzione di evocare le dimensioni temporali, il passato e il presente che si fondono e si accavallano nella dimensione del profondo allo stesso modo che le occlusive si intrecciano con le liquide.

Ora che

passato e presente

hanno par ole profonde

tutto conf lui sce nella s era

come un corr ere segreto

di la mpi37.

Anche la stessa scrittura, la Parola poetica stessa sono Alfa ed Omega, principio e fine, e, anche fonicamente, apertura e chiusura.

E la mano che scrive vive

spaziando in erratici segni

tra l’alfa e l’ o mega

fino al punt o estrem o, il grid o

che t u tt o restit u isce alla sabbia

del desert o imm o rtale38.

Il nesso di vita e scrittura («vivo, scrivo»), motivo dannunziano e pirandelliano, si traduce in una partitura testuale intesa come circolarità di principio e fine, apertura all'alterità e chiusura autoriflessiva; e, anche fonicamente, in un respiro reiterato, in una pulsazione sillabica fra apertura e chiusura, sistole e diastole.

Tra due oscurità

nasce e germoglia il seme

per vivere il suo a tt imo di luce.

(...)

La r uo ta del ven to dissigilla

s tor ie pie tri fica te

ieri sospesi tr a i brividi del muschio39.

Qui il gruppo consonantico di t ed r suggerisce l'idea della ruota, del vasto ciclo che avvolge l'universo.

Vi è qui l'eco montaliana del «vento del nord» che «suggella le spore del possibile», a cui si contrappone la forza vitale di uno slancio che sprigiona ed amplifica una contratta energia vitale e creaturale.

Al gioco fonosimbolico si aggiunge l'effetto ritmico dei dattili (vivere attimo brividi), evocatori di vitalità e rapidità. Ma in quel moto ciclico, in quella vastissima ruota si insinuano e si inscrivono la levità, la sottigliezza e la luminosità delle liquide e della vocale i, fonosemema universale, sovralinguistico della sottigliezza, della subtilitas anche in senso filosofico, intesa sia come finezza intellettuale che come energia, come corrente vitale che si insinua sotterraneamente, in modo velato ed occulto, nelle vene della materia.

Nel viavai del ven to e d el si le nzio

nel vo lo ince rto tr a ter ra e nuv ol e

sognando per l’a nima un ve lie ro bianco40.

La labiovelare, il digamma, il vav, come detto, evocano di per sé il fluire di un'energia, il contatto fra terra e dimensione celeste, tra sfera superiore e dominio terreno.

Vag are dove l’acqua

ha il can to s tr uggen te di un r uscello

menes tre llo delle tenta zioni

per d are senso all’ att imo e preg are

e soff re ndo scriv ere.

Si ri comincia semp re dal f er m ento:

sciami di p aro le, una dopo l’al tra 41.

(...)

L’an eli to s’inv ola

nel te mpo sconosciu to

dove l’in tre ccio

v o r ti ca in f ir mame nti

dall’inconscio r uo t are

tra luci di semaf ori

rossigiallov er di

e lo scen ario or fico

c’è un tutt o

nell’eve nto che rit orn a42.

«Canto struggente», «per dare senso all’attimo», «si ricomincia sempre dal fermento», «l’anelito s’invola», «nel tempo sconosciuto», «vortica in firmamenti», «nell’evento che ritorna».

Sintagmi ciclicamente ricorrenti, anche in testi lontani, che, attraverso il reiterato ritmo dattilico e il ricorrere delle consonanti r e t (che rinviano tanto all'archetipo della ruota, quanto all'antica radice indoeuropea del sanscrito rta ‒ imparentato, etimologicamente, con parole-valori d'importanza fondamentale, ars ordo ritus, principio dell'universo, cardine dell'armonia cosmica), evocano quell'eterno ritorno e quel ripetuto ripiegarsi del pensiero su se stesso nel saldo anello dell'autocoscienza.

Sarà nell’aria del risveglio

riscoprire de ntro pagine bianche

il fluido di parole senza te mpo:

arabeschi di luce

per al tri desideri puri43.

Qui il fluire della scrittura (fluire forse etimologicamente apparentato, sul filo dell'oscillazione fra r ed l, con il greco rhein, di eraclitea memoria) sorge nella luce dell'alba, evocata dalle vocali aperte, dalla chiarità delle liquide, dalla vibrazione delle rotanti, dall'esilità delle i, dalla repentinità delle p.

Mentre la durezza dei suoni occlusivi si concentra su quel dentro (entòs, intus), sulla scavata e celata interiorità da cui nasce il canto (come nella dantesca immagine dell'Amore che «ditta dentro»).

Si può tornare, ora, su un testo già citato:

Qui riscopro l’estate

e le palme dei mattini chiari

che fanno leggeri i passi

ed i pensieri.

(...)

a creare apparenze di giorni e ter ni

prima che tutt o svanisca ancora

ed io tor ni lontana

come a morire44.

Dove nella luminosità e nell'apertura, consuete, dei suoni della luce (quasi una sorta di musica della luce) che paiono quasi far eco al D'Annunzio alcyonio: «sui nost ri vestimenti / leggi eri, / su i f re schi pensi eri » si insinua il moto assiduo dell'eterno ritorno (evocato dalla trama fonosimbolica eterni/tutto/torni, e dalla o, segnale anche visivo del cerchio e della ciclicità).

Le parole erano sil enzio

di quiete ritrovata

e di r is ve gli di sete sconosciuta.

Accanto a noi il mare

vibrante di ali d’ang eli

cantava come allora45.

Qui, alla tramatura fonica, quasi al leitmotiv verbale della luminosità e della ciclicità (r, l, o nelle loro varie combinazioni) si allacciano, letteralmente, il suono, l'eco del silenzio (sil / is / li), l'impronta di una radice protoindoeuropea, seyl, che indica la stasi, la quiete, l'immobilità, ma anche un sommesso fluire (e si potrebbe citare, per pura analogia, il greco selas, luce, a suggerire la limpida pace del cielo notturno).

Raro quel tempo

oro – rosato

balsamo puro

come dono alla vita.

Ora c’è sol o

un sil enzio parlante

di g elso mini

n el lu ngo b al cone46.

Qui è marcata la contrapposizione o, almeno, è scandita la graduale sfumatura fra il leitmotiv della limpidezza e della luce, qui fondato sull'irradiazione e sulla disseminazione di oro (dall'indoeuropeo aus/us), e l'àmbito fonosemantico, già analizzato, del silenzio.

Si potrebbero citare, per pura, certo avventata analogia, alcuni versi di Lapo Gianni («Am or, eo ch ero mia donna ’n domino, / l’ Ar n o b al sam o fin o, / le mu re di Fi re nze in ar gentate, / le ru ghe di c ri stallo last ri cate, / f or tezze alte, m er late / (…) e l’ air e temperata v er no e state; / e mille donne e donzelle ad or nate, / semp re d’Am or p re ssate, / meco cantass er la sera e ’l mattino»), e prima ancora il placido e radioso incipit della prima Olimpica di Pindaro («ἄριστον μὲν ὕδωρ, ὁ δὲ χρυσὸς αἰθόμενον πῦρ / ἅτε διαπρέπει νυκτὶ μεγάνορος ἔξοχα πλούτου»: «Ottima è l’acqua, simile alla fiamma che brucia / l’oro balugina sulla superba ricchezza, la notte»).

Dal bianco abisso del silenzio, dal labirinto delle ere, sorgono e si rincorrono gli echi molteplici del

Linguaggio e del Senso, perpetuamente nella vana e fascinosa ricerca di se stessi, che sempre desta nuove faville e sprigiona nuovi bagliori.

Nel labirinto delle consonanze

Come scriveva Giuseppe Miligi (sodale, in gioventù, di Quasimodo, di Giorgio La Pira, di Vann'Antò, a riprova del sostrato mediterraneo, magnogreco di cui si diceva) nella prefazione alla raccolta Tra pensiero e labbra 47 (una prefazione che si sarebbe tentati di trascrivere per intero), sembra quasi che il discorso poetico dell'autrice, pur così legato alla limpida ispirazione, vincolato a luoghi momenti occasioni, tenda a strutturarsi, ad articolare il proprio universo semantico, la propria interna rete di rinvii e di richiami (tanto interni quanto vòlti alla tradizione, a sistemi letterari preesistenti), secondo una precisa legge matematica; quasi, si potrebbe dire, in un'atmosfera pitagorica in cui l'aspetto misterico, iniziatico, velato di silenzio e d'indicibile, si sposa alla razionalità (essa stessa sacrale, essa stessa in certo modo rivelata), del Numero, dell' Arythmos come principio assoluto, come universale cardine metafisico.

E si potrebbe citare, qui, ancora Valéry, quello del Cantique des colonnes:

Un temple sur les yeux

Noirs pour l’éternité,

Nous allons sans les dieux

À la divinité!

Nos antiques jeunesses,

Chair mate et belles ombres,

Sont fières des finesses

Qui naissent par les nombres!

Filles des nombres d’or,

Fortes des lois du ciel,

Sur nous tombe et s’endort

Un dieu couleur de miel.

Scriveva Miligi:

Può sembrare un paradosso, eppure l’approccio più agevole ed illuminante a quello che con espressione un po’ démodé diremmo il “mondo poetico” di Lucia Montauro, ce lo offre un’analisi di tipo matematico-statistico quale potrebbe darci il computer. Un paradosso perché è difficile immaginare un “mondo” quanto il suo “atemporale”: così nature nella forza incontrollata degli impulsi e nella resa immediata agli stati d’animo. (...) Un paradosso apparente però, perché le risultanze dell’indagine ribadiscono proprio questa discrepanza: l’incompatibilità, cioè, tra le pulsioni oscure della vita, le spinte intermittenti della linfa che sale dal buio delle radici ed il regime del calcolo e dell’aridità che vorrebbe incanalare la nostra giornata in un alveo sicuro e protetto.

E si potrebbe citare, qui, a proposito di questo difficile equilibrio, di questa continua contesa fra ordine e disordine, armonia e dismisura, ponderazione della consapevolezza letteraria e imponderabile assalto dei sentimenti, delle emozioni, delle «intermittenze del cuore» avrebbe detto Proust, delle illuminazioni conoscitive, dei riaffioramenti della memoria ‒ si potrebbe citare, quasi, Apollinaire per la sua compenetrazione di «libertà» e «regola», comune anche al secondo Ungaretti:

Je juge cette longue querelle de la tradition et de l'invention

De l'Ordre de l'Aventure

Vous dont la bouche est faite à l'image de celle de Dieu

Bouche qui est l'ordre même

Soyez indulgents quand vous nous comparez

A ceux qui furent la perfection de l'ordre

E, forse, tanto i richiami, velati e discreti, ma essenziali, alla tradizione letteraria (secondo quella peculiare dinamica di cui si diceva, in virtù della quale gli antecedenti letterari si diluiscono e si dissolvono, e vengono metamorfosati e riplasmati, nella sostanza delle immagini poetiche, le quali hanno una loro scansione, un loro ritmo, un loro suono, una loro, per così dire, visibile musica), quanto i sottili rapporti fra suono e senso, fra significante e significato, e così pure l'organico strutturarsi del lessico, dei simboli, delle spie, dei campi semantici intorno ad alcuni nodi fondamentali, ad alcuni nuclei essenziali, insomma tutto lo strutturarsi della poesia della Montauro in relazione al sistema letterario e linguistico, in senso sincronico e diacronico, nella sua assolutezza come nel suo divenire, sono funzionali a quest'arduo equilibrio, a questa vasta e preziosa, architettonica e finemente cesellata nei minimi dettagli, suprema armonia, a questa immensa, quasi cosmica Arpa Eolia.

E qui si potrebbe citare, anche a riprova della profonda formazione classica dell'autrice, l'inno secondo delle Grazie foscoliane:

Scoppian dall’inquïete aeree fila,

quasi raggi di sol rotti dal nembo,

gioia insieme e pietà, poi che sonanti

rimembran come il ciel l’uomo concesse

alle gioie e agli affanni onde gli sia

librato e vario di sua vita il volo,

e come alla virtù guidi il dolore,

e il sorriso e il sospiro errin sul labbro

delle Grazie, e a chi son fauste e presenti,

dolce in core ei s’allegri e dolce gema.

(...)

e come franse

l’uniforme creato in mille volti

co’ raggi e l’ombre e il ricongiunse in uno,

e i suoni all’aere, e diè i colori al sole,

e l’alterno continüo tenore

alla fortuna agitatrice e al tempo;

sì che le cose dissonanti insieme

rendan concento d’armonia divina

e innalzino le menti oltre la terra.

Dove trovano il proprio antecedente precisamente quella ricerca di una superiore Armonia, quella risoluzione del dolore in musica, della sofferenza in perfezione formale, e degli eventi, delle passioni e dei patimenti individuali in superiore disegno del destino, che abbiamo visto essere propri dell'autrice.

Tre autori in apparenza quanto mai eterogenei e difformi l'uno dall'altro (Nosside, ʿOmar Khayyām, Emily Dickinson), accomunati tutt'al più la prima e la terza dalla condizione femminile, dallo status di poetesse donne, con ciò che di apparentemente anomalo, solitario, eslege ciò poteva comportare, e resi affini, la prima e il secondo, da una sensualità raffinata e talora accesa, e da una vasta e remota matrice, ancora una volta, mediterranea, si avvicendano, come espliciti referenti culturali, nel succedersi delle raccolte dell'autrice.

E convergono, sorprendentemente, questi tre nomi, questi tre lumi o questi tre fantasmi, intorno ai grandi simboli (che occhieggiano e brillano anche nei versi della Montauro) del Vino e del Mare, dell'ebbrezza e della vastità, che finiscono per fondersi, semanticamente, nell'idea dell'alterità, del viaggio, dell'abbandono, del possibile naufragio nell'assoluto dell'Essere.

Straniero

se navighi verso Mitilene

dai bei luoghi aperti,

terra di Saffo

che colse i fiori delle Grazie,

laggiù dirai

che ero cara alle Muse

e la terra locrese mi dette i natali.

E che il mio nome è Nosside... vai!

Questo testo, riportato nell'esergo di una sezione della raccolta L'ebbrezza transitoria 48, è quello dell'epigramma 718 del libro settimo dell' Antologia Palatina.

In una traduzione evidentemente autonoma, l'autrice rende il kallichoron con «dai bei luoghi aperti», anziché «dalle belle danze», assecondando la propria vocazione ad una particolare vastità di percezione e di sguardo; e riferisce, forzando un poco la mano alla grammatica, ma con efficace virata interpretativa, eoausomenos non allo Straniero, ma a Saffo, con suggestiva, implicita identificazione fra se stessa e le due poetesse dell'antichità, che colsero il fiore delle Grazie.

La stessa sensibilità visiva, la stessa apertura paesaggistica ed evocativa affiorano, a tratti, da altri epigrammi di Nosside, che precisamente per questo deve essere stata cara alla nostra autrice.

Melinna che guarda meilichios, dolcemente (A. P. VI, 353, 2), così come «più dolce del miele» (A. P., V, 170) è l'Amore; l'immagine di Sabetide ghnota kai tenothe (A. P., VI , 354), «riconoscibile anche da lontano»; il riso kapyron, squillante, brioso, quasi pungente e beffardo, schiettamente magnogreco, del poeta Rintone (A. P., VII, 414); tratti rapidi e fugaci, come subitanei balenii, che riaffiorano, simili a riflessi marini, ad azzurri ricami, tra i versi della Montauro; in cui, però, ad essi fanno da contrappeso una malinconia tipicamente novecentesca e alcune complessità e incupimenti del dettato derivati dalla poesia moderna; onde davvero classico-moderna, radicata nell'antico eppure pulsante di modernità, è la sua vena.

Altra poetessa, altra incarnazione dell'eterno femminino poetico, a cui l'autrice si rifà è Emily Dickinson (modello, del resto, emblematico di una creatività femminile vissuta come chiaroveggente solitudine, come individualità sofferta e consapevole).

Ed è, si può notare, singolare come a fare da controcanto alla solarità mediterranea, magnogreca di Nosside e alla passionalità orientale, mistica insieme e sensuale, del poeta persiano vi sia proprio la Dickinson; che in un suo testo immaginava la propria condizione esistenziale remota e segregata, la propria solitaria luce intellettuale come una sorta di eterna, metatemporale e sovraspaziale, raggelata Svizzera opposta alla fervida vivezza dell'Italia con la sua meridionale e meridiana intensità di vita e di umanità:

Our lives are Swiss —

So still — so Cool —

Till some odd afternoon

The Alps neglect their Curtains

And we look farther on!

Italy stands the other side!

While like a guard between —

The solemn Alps —

The siren Alps

Forever intervene!

E si potrebbe quasi dire che tutta la vicenda creativa della Montauro abbia oscillato come un pendolo fra il ripiegamento interiore e lo slancio verso l'alterità, e insieme fra la reminiscenza intensissima della solarità ellenica e il modulato, sfumato e profondissimo grigiore dell'esilio settentrionale.

Questo mondo non è la conclusione,

altrove vi è un seguito

invisibile come musica

ma reale come il suono.

Questo il testo riportato come esergo della raccolta Le costole del sonno.

Questo l'originale49, dalla poesia numerata come 501 (373 in altre edizioni):

This World is not Conclusion.

A sequel stands beyond -

Invisible, as Music -

But positive, as Sound.

Questa realtà invisibile, questa impalpabile percezione, questa inafferrabile consistenza esperienziale evocano in modo emblematico la sostanza sfuggente eppure intensissima della nostra Musa.

Non è difficile, scorrendo le poesie della Dickinson, trovare punti di contatto, tematici e anche testuali, con la nostra autrice.

On this wondrous sea

Sailing silently,

Ho! Pilot, ho!

Knowest thou the shore

Where no breakers roar—

Where the storm is o'er?

In the peaceful west

Many the sails at rest—

The anchors fast—

Thither I pilot thee—

Land Ho! Eternity!

Ashore at last!

Vi è, qui, la stessa suggestione, ad un tempo epica e gnoseologica, del viaggio per mare come metafora dell'esistenza e insieme della conoscenza, che affiora più volte nella Montauro:

Andavo

e l’aria si faceva chiara

di stelle ritrovate

due, tre, miriadi

a sciogliere i sigilli delle ombre

e illuminare la lunga strada

tra i filari degli alberi in fuga.

Nella notte beata

morivano i fantasmi

e l’anima si apriva a quell’incanto

che a poco a poco diventava giorno

e vento di mare

a riversare essenze

di vita nuova50.

E ancora:

L’idea dell’infinito

la rubi

a solitudini marine.

Di quell’immensità sei parte

e non ti senti smarrito.

Alla tua voce umile

risponde la sua voce

a tradurre in riposo le tue pene.

Errano gli occhi

sulle distese azzurre

e al tramonto restano impigliati

lontano, all’orizzonte

là dove l’incanto

di un mistero nasce

e muore51.

Ma dai cicli perpetui, dai corsi e ricorsi spesso angoscianti, del vivere (evocati proprio dal mare, che suggerisce, del pari, l'eco biblica dell' Ecclesiaste, dove, si noti, proprio l'immagine dei fiumi e del mare in cui essi si annullano esprime l'indicibile ed incomprensibile eterno ritorno dell'uguale: «Omnia flumina intrant mare et mare non redundat. Ad locum unde exeunt flumina revertuntur ut iterum fluant. Nihil sub sole novum»52 ) può fiorire, quasi come il montaliano «fantasma che ti salva», l'illuminazione improvvisa della parola poetica, che rischiara la catena dei giorni senza spezzarla, e sembra dare un senso, una direzione e una finalità al fluire del tempo, e tramuta il tempus moriendi in «tempo per rivivere», l'autunno che pareva irrevocabile in nuova imprevedibile fioritura:

C’è un tempo per vivere

e un tempo per rivivere

coi sogni annidati in altri giorni

chiamare vita

questo settembre di rose sfiorite.

Lontano dalla casa della nascita

lontano dalle cose che svanirono

ora s’infiamma l’erba del crepuscolo

al canto della solitudine

matura il cuore.

Fedele a un rito antico

germoglia la parola

conquista spazi prossimi alle stelle53.

Some things that fly there be -

Birds - Hours - the Bumblebee -

Of these no Elegy.

Some things that stay there be -

Grief - Hills - Eternity -

Nor this behooveth me.

There are that resting, rise.

Can I expound the skies?

How still the Riddle lies!

Qui, nella sfingea impenetrabilità dell'enigma, moto e immobilità, respiro ed effigie, sembrano fondersi in una definitezza di bassorilievo.

Assorta ascolto l’insonnia

come a indovinarne il volto

il sorriso di sfinge.

L’immobilità apparente mi trascina

verso un panorama di tempo rarefatto

montagne-piramidi appena rosicchiate

custodi di un segreto d’energia

e gole di pietra incorruttibile

a garantirmi un brivido di realtà impalpabile54.

Si è fatto il nome di Omar Khayyam.

A lui è dedicato un testo dell' Insonnia della Psiche.

Non c’è primo né ultimo quarto

della luna

interminabile è la vita della poesia

che libera dalla polvere del corpo

puro spirito come succo d’uva

niente può sfuggire al suo potere.

Poesia, se squarciassero il tuo cuore

gemme troveresti nel bicchiere55.

Difficile non pensare all'antecedente (o meglio all'anello intermedio) pascoliano costituito dalla splendida Immortalità, in Primi poemetti.

Poeta Omar, pupilla solitaria

che vede e splende, che contempla e crea,

diceva avanti il Mausoleo di Caria:

“Non mescerai la polvere all’idea!

Misero te, cui nella rupe piace

scoprir la bianca faretrata dea!

e te che il fosco eroe dalla fornace

susciti vivo sopra il suo cavallo

che ringhia! Il tempo che cammina e tace,

rode il tuo marmo, lima il tuo metallo.

Tra mille, tra duemila anni, tra poco,

l’eroe sarà nella volante arena,

sarà la dea ne’ grappoli di fuoco!

Misero! Ma quest’opera serena,

fatta d’anima pura e di parole,

beltà dal tempo e dalla morte ha lena:

vive la vita lucida del sole„.

Da un lato, il leopardiano «tacito, infinito andar del tempo», che sovrasta, muto e invisibile, ma inesorabile, compagno, le umane vicende.

Dall'altro, l'istante eterno, la fugacità scolpita nel marmo della parola, propri del discorso poetico.

Che, proprio perché rischiarato dal sole, proprio perché, anzi, consustanziato di quella vivida luce, è destinato forse ad essere avvolto dal tramonto ‒ ma da un tramonto a cui non seguirà la notte, o seguirà una una notte punteggiata di bagliori.

L'orizzonte ultimo della vicenda terrena dischiude un «panorama di tempo rarefatto». E in quella dimensione aperta e protesa all'alterità si colloca la poesia come oraziano monumentum aere perennius, monumento più duraturo del bronzo.

È, infatti, difficile non pensare ad Orazio e alla sua celebre ode, di fronte alle piramidi, di cui parla un testo poc'anzi citato, lentamente erose dal dente infaticabile del tempo, eppure «custodi di un segreto d’energia», compenetrate di una energheia, di un'intima, fluente e vibrante, sostanza intellettuale, vitale e creativa che va oltre la loro corruttibile e deperibile materialità, e risiede piuttosto nella loro arcana sapienza costruttiva, nella Forma perfetta, platonica e pitagorica, che compie e travalica la somma delle parti.

Le labbra di David sono chiuse, ma nel divino

Melodioso Pehlevi: «Rosso vino»,

L'usignolo canta alla rosa: «Vino, vino, vino!»

Affinché s'imporpori la sua pallida guancia.

Secondo un'interpretazione mistica, molto vicina allo spirito dell'originale: le labbra di David rappresentano «la voce dell'Infinito apparentemente silenziosa», giustapposta al «linguaggio elevato della divina saggezza», al «linguaggio dell'Infinito», mentre il Vino è «la beatitudine divina che vivifica spiritualmente»56.

Ho potuto definire 'È' e 'Non È' con l'aiuto delle regole,

E 'In alto e in basso' senza,

Pure, fra tutte le cose che desideravo sapere,

In nessuna mi sono veramente immerso, tranne che nel vino.

L'io lirico trascende i vincoli del dogmatismo, e si immerge nelle profondità dell'Essere, bevendo «l'inebriante vino della realizzazione divina»57.

Ravviva col vino la mia vita che si spegne

E lava il corpo in cui la vita è morta;

Avvolto in un sudario intrecciato da pampini

Seppelliscimi accanto a un giardino profumato.

Secondo l'interpretazione mistica, «avvolgi il mio ego fisico con i pampini delle esperienze divine e lascialo riposare nel giardino della Coscienza cosmica dove sbocciano soltanto i fiori delle nobili qualità»58.

Vino e Mare, emblemi dell'esperienza mistica, del rapporto con l'Altro e con l'Oltre, si trovano sia nella Dickinson che nella Montauro.

Exhilaration — is within —

There can no Outer Wine

So royally intoxicate

As that diviner Brand

The Soul achieves — Herself —

To drink — or set away

For Visitor — Or Sacrament —

'Tis not of Holiday

To stimulate a Man

Who hath the Ample Rhine

Within his Closet — Best you can

Exhale in offering.

La hilaritas, l' enthousiasmos, la divina esaltazione, nascono dentro l'anima, nell'interiorità.

L'anima raggiunge e compie se stessa, attinge la più elevata e piena conoscenza di sé, la propria suprema autocoscienza, proprio specchiandosi ed immergendosi in quel vino sovrumano.

Ancora:

AT least to pray is left, is left.

O Jesus! in the air

I know not which thy chamber is,—

I ’m knocking everywhere.

Thou stirrest earthquake in the South,

And maelstrom in the sea;

Say, Jesus Christ of Nazareth,

Hast thou no arm for me?

E ancora:

HE touched me, so I live to know

That such a day, permitted so,

I groped upon his breast.

It was a boundless place to me,

And silenced, as the awful sea

Puts minor streams to rest.

And now, I ’m different from before,

As if I breathed superior air,

Or brushed a royal gown;

My feet, too, that had wandered so,

My gypsy face transfigured now

To tenderer renown.

Significativi i riscontri nell'opera della Montauro (anche se in essa quegli stessi elementi assumono connotazioni per molti aspetti diverse).

Qui riscopro l’estate

e le palme dei mattini chiari

che fanno leggeri i passi

ed i pensieri.

Qui dove il sole

si alterna alle sere stellate

nel saliscendi dalle colline

al mare

decifrando geroglifici di orme

trovo l’identità perduta

e mille sfumature

ed è beatitudine di vino astrale

a creare apparenze di giorni eterni

prima che tutto svanisca ancora

ed io torni lontana

come a morire59.

«Beatitudine di vino astrale / a creare apparenze di giorni eterni».

Come nella costellazione semantica che si è prima delineata, il vino, simbolo eucaristico per eccellenza del rapporto con il Divino, passa a rappresentare, in senso lato, ogni rapporto con la trascendenza, ogni elevazione e sublimazione del tempo in eternità. «And now, I’m different from before, / As if I breathed superior air».

Nel caso della Montauro, l'immersione nella dimensione dell'eterno coincide con il nostos, con il ritorno alla Magna Grecia. Un ritorno che è, per così dire, riflesso terreno dell'Eterno Ritorno, ombra del moto che, attraverso il riaffiorare del passato nel presente (sul piano della memoria e del vissuto individuali così come su quello più vasto, condiviso e sovraindividuale della coscienza storica), pone il tempo in contatto e in comunione con l'eterno.

Cime alte a dominare

i miei giorni, i miei attimi

interrogando uccelli

del paradiso, ebbri d’amore

forse miraggio per

contemplazione

o passione di poeta

scrutatore d’ombre.

Erranza assetata di suoni

desiderio incompiuto

o vino che inebria60.

Qui la voce stessa del poeta è voce d'eterno. La parola è sovrastata e guidata dalla trascendenza, e se ne fa eco. L' enthousiasmòs è, come in Platone, esaltazione destata dal contatto con la trascendenza e ispirazione poetica.

Lo stesso orizzonte spaziale, la stessa semiotica, precisamente, dello spazio, intrisa di valori metapoetici, di riflessione e d'indagine sulla natura della poesia, si struttura intorno al simbolo, ricorrente, del Mare.

Issa le vele d’oro la malinconia

per specchi d’acque di grecale amico

fin dove il giorno spazia

d’armonie astrali.

Fili di pensieri la tua vita segnalano

in dolcezza di mare

che mai ti fa sentire estraneo

e l’isola lambendo

in ore serotine ti assopisce

con voci di sirene61.

«Fin dove il giorno spazia d’armonie astrali». «In dolcezza di mare». La dilatazione dello sguardo poetico fin oltre i confini del visibile ‒ fino a dove la visione diviene interiore, immateriale, metafisica ‒ sollecita, analogamente, i limiti e le regole dell'espressione verbale, e arriva ad indulgere a stilemi elegantemente desueti, di sapore ermetico (l'eco, ancora, di Quasimodo).

Altrove, il mare è, quasi leopardianamente, spazio emblematico dell'indefinito, orizzonte dilatato di un indefinito silenzio in cui sconfinano e si spengono le domande ultime, senza risposta.

Sì, lo spazio è immenso

se raccoglie colori di albe e tramonti

autunni, estati ardenti

tutte le parole di gioia e dolore

che come piume e petali

si librano nel mondo

e la ricchezza di eterne domande alla deriva

sul mare infinito del silenzio62.

Passato e presente, le dimensioni del tempo e del ricordo si fondono e trascendono se stesse nel mare dell'essere, lasciando echi di simboli e di enigmi.

Ora che

passato e presente

hanno parole profonde

tutto confluisce nella sera

come un correre segreto

di lampi.

I sogni, i luoghi

sono azzurri di mare

dove sboccia la vita

per cogliere e lasciare

cose ed enigmi.63

In questa sobria ebrietas, in questa consapevolezza vastissima e insieme misurata, in questa composta testimonianza esistenziale e creativa, sta l'eredità perenne che l'autrice ci ha lasciato, e che sta a noi raccogliere.

Bibliografia

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ID., Oeuvres, La Pléiade, Paris 1960.

Indice

Una Musa illuminata dalle Muse 2

Nel vento del Mediterraneo 21

Fra suono e senso, «tra pensiero e labbra» 52

Nel labirinto delle consonanze 75

Bibliografia 109

[...]


1 Si può vedere, in particolare, P. SZONDI, Poetica dell'idealismo tedesco, Einaudi, Torino 1974.

2 L. MONTAURO, Poesie 1988-2018, Genesi, Torino 2018.

3 M. L. SPAZIANI, Tuttte le poesie, a cura di Paolo Lagazzi e Giancarlo Pontiggia, Mondadori, Milano 2012.

4 Poesie, cit., p. 7.

5 G. L. BECCARIA, L' autonomia del significante: figure del ritmo e della sintassi: Dante, Pascoli, D'Annunzio, Einaudi, Torino 1989.

6 J. STAROBINSKI, Le parole sotto le parole: gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, Il Melangolo, Genova 1982.

7 Poesie, cit., p. 7.

8 Ibidem, p. 7.

9 Ibidem, p. 11.

10 Ibidem, pp. 605 sgg.

11 Ad Lucilium, XXXIII.

12 V. AMMIRATI, La coscienza poetica mediterranea. Appunti per una definizione storica, «Hyria», XV (1987), n. 50, pp. II-IV.

13 P. VALÉRY, Sguardi sul mondo attuale, Adelphi, Milano 1994, pp. 273-274.

14 Del quale l'edizione e la traduzione ad oggi più suggestive, certo le più aderenti all'essenza del messaggio poetico al di là del fatto testuale e meramente filologico, restano quelle, pur d'ispirazione ermetica, di Oreste Macrì, Il cimitero marino di Paul Valéry: studio critico, testo, versione metrica, commento, Sansoni, Firenze 1947 (riedito da Le Lettere, ivi 1989).

15 Si può vedere al riguardo G. TOSI, Gabriele d'Annunzio et Paul Valéry, Sansoni, ivi 1960.

16 Vedi F. CONTORBIA, Montale, Genova, il modernismo e altri saggi montaliani, Pendragon, Bologna 1999.

17 Paradiso, I, 64-72.

18 Paradiso, XXXIII, 91-99.

19 Si possono vedere Salvatore Quasimodo nel vento del Mediterraneo, a cura di P. Frassica, Interlinea, Novara 2002; M. GIGANTE, L'ultimo Quasimodo e la poesia greca, Guida, Napoli 1970.

20 Poesie, cit. p. 22.

21 Ibidem, p. 51

22 Ibidem, p. 190.

23 Alcyone, Il fanciullo, VI.

24 Paradiso, XVII, 13-18.

25 Vedi la voce «ubi» nell' Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1970-1978.

26 Paradiso, XXIX, 10-18.

27 Rerum vulgarium fragmenta, XVI, 9-14.

28 Gli strumenti umani, Appuntamento a ora insolita.

29 Poesie, cit., p. 105.

30 R. REBORA, Della voce umana e poesie inedite, a cura di N. Trotta e R. Lollo, Interlinea, Novara 1998, p. 48.

31 Tel Quel II, Rhumbs, Oeuvres, II, La Pléiade, Paris 1960, p. 637.

32 Fra i testi essenziali, E. SAPIR, A Study in Phonetic Symbolism, «Journal of Experimental Psychology», 1929, 12, pp. 225-239; R. JAKOBSON, Sound and Meaning, MIT Press, London 1978; I. FÓNAGY, La vive voix. Essais de psycho-phonétique, Payot, Paris 1983; F. DOGANA, Suono e senso. Fondamenti teorici ed empirici del simbolismo fonetico, Franco Angeli, Milano 1983.

33 Poesie, cit., p. 23.

34 Ibidem, p. 47.

35 Ibidem, p. 78.

36 Ibidem, p. 79.

37 Ibidem, p. 87.

38 Ibidem, p. 120.

39 Ibidem, p. 128.

40 Ibidem, p. 174

41 Ibidem, p. 273.

42 Ibidem, p. 307

43 Ibidem, p. 401.

44 Ibidem, p. 455.

45 Ibidem, p. 468.

46 Ibidem, p. 509.

47 Editrice Pungitopo, Marina di Patti 1989.

48 Poesie, cit., p. 267.

49 Cito da E. DICKINSON, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano 1997.

50 Poesie, cit., p. 89.

51 Ibidem, p. 9.

52 Ecclesiaste, 1, 7-10, passim.

53 Poesie, p. 153.

54 Ibidem, p. 144.

55 Ibidem, p. 325.

56 PARAMAHANSA YOGANANDA, Il vino del mistico, Astrolabio, Roma 1995, p. 34.

57 Ibidem, pp. 105-106.

58 Ibidem, p. 155.

59 Poesie, cit., p. 95.

60 Ibidem, p. 546.

61 Ibidem, p. 32.

62 Ibidem, p. 210.

63 Ibidem, p. 85.

Excerpt out of 112 pages

Details

Title
Una grande arpa eolia. La poesia di Lucia Montauro
College
University of Bologna
Grade
9/10
Author
Year
2019
Pages
112
Catalog Number
V494985
ISBN (eBook)
9783346005946
ISBN (Book)
9783346005953
Language
Italian
Keywords
poesia italiana contemporanea, Magna Grecia, Mediterraneo, poesia lirica, lirismo, cultura classica, classicismo e modernità, Quasimodo, Nosside, Emily Dickinson, poesia femminile, poetica della memoria, Ungaretti
Quote paper
Matteo Veronesi (Author), 2019, Una grande arpa eolia. La poesia di Lucia Montauro, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/494985

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