Le narrazioni del Biafra

Immagine e storiografia della guerra civile nigeriana


Tesis de Máster, 2011

164 Páginas, Calificación: 1,0


Extracto


INDICE

Introduzione
I. Il Biafra
II. La nazione nigeriana
III. Un ‘nuovo mondo’ si presenta agli occhi dell’occidente

Capitolo 1. Su etnia e nazione in Africa
I. Il dibattito sull’etnicità e i processi di costruzione identitaria
II. Etnie e nazionalismo in Nigeria

Capitolo 2. Sintesi storica
I. Modelli coloniali in Africa
II. Dal colonialismo al neo-colonialismo
III. Verso l’indipendenza
IV. Il pensiero politico nazionalista
V. Nasce lo Stato indipendente
VI. Le crisi elettorali del 1964 e
VII. Il “golpe dei cinque maggiori” e il contro-golpe di luglio
VIII. La crisi istituzionale
IX. L’ultima occasione: l’incontro di Aburi
X. Nasce la Repubblica indipendente del Biafra
XI. Il ruolo e gli interessi delle potenze straniere nella crisi del Biafra
XII. La guerra civile
XIII. La comunità internazionale durante la guerra

Capitolo 3. Le narrazioni del conflitto
I. Gli “spettatori” stranieri
II. La guerra vista dal “di dentro”
III. La guerra come tema letterario
IV. Biafra e guerra civile oggetto della storiografia accademica

Capitolo 4. Il ruolo dei media nell’internazionalizzazione del conflitto

Capitolo 5. “Io c’ero”, testimonianze e memoriali
I. Da un punto di vista nazionale, nigeriano e biafrano
II. Da un punto di vista straniero
III. Dall’Italia in Biafra

Capitolo 6. La riflessione storiografica
I. Le diverse ottiche assunte dagli studiosi
II. La guerra del Biafra alla luce del ruolo della comunità internazionale
III. La guerra e l’economia: il fattore “petrolio”
IV. La fame e la carovana degli aiuti umanitari
V. Guerra e pace, l’impatto sociale e le conseguenze del Biafra
VI. Biafra, guerra civile e questione nazionale

Capitolo 7. La rappresentazione letteraria del conflitto

Capitolo 8. L’africanistica in Italia e gli studi italiani sul Biafra

Conclusioni

Nota bibliografica

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[Kirk-Greene (Anthony Hamilton Millard). Crisis and Conflict in Nigeria. A Documentary Sourcebook 1966-1969. Volume 1, January 1966-July 1967. London, Oxford U.P., 1971, p. II]

INTRODUZIONE

La guerra del Biafra è nota soprattutto per il disastro umanitario seguito al blocco degli approvvigionamenti imposto dal governo federale nigeriano alla regione Orientale – che nel 1967 aveva dichiarato unilateralmente l’indipendenza. Fu la prima catastrofe del genere ad aver raggiunto “in diretta”, attraverso i media con reportages e fotografie, l’Occidente: le immagini mostrate erano così impressionanti che l’espressione “magro come un bambino del Biafra” entrò da quel momento nel vocabolario comune di molte lingue europee. Salito rapidamente agli onori della cronaca al momento della secessione, nei successivi tre anni il Biafra assurse a una specie di sinonimo di carestia e sofferenza e l’associazione Biafra=fame divenne patrimonio collettivo dell’opinione pubblica. La guerra del Biafra, conosciuta anche come guerra civile nigeriana, fu tra i primi conflitti – insieme al tentativo di secessione della provincia congolese del Katanga tra il 1960 e il 1963 –scoppiati nel continente africano all’indomani delle indipendenze dalle potenze coloniali. Erano gli anni in cui si discuteva di panafricanismo e negritudine, la prima una corrente politica e la seconda di matrice più culturale che promuovevano entrambe un sentimento di identità comune tra tutti gli abitanti dei paesi africani. Ma le immagini che i fotografi riportavano in Occidente di ritorno dai loro viaggi in Biafra esprimevano un’altra realtà.

Con la fine del regime coloniale in Africa sembravano prevalere, una volta di più, quei sentimenti di appartenenza tribale che si manifestavano in scontri etnici e instabilità politica, provocati da interessi contrapposti. Quello che però le immagini ed i resoconti giornalistici non mostravano, erano le ragioni che spinsero chi governava la regione Orientale, dove si concentra gran parte dei giacimenti di petrolio nigeriani e le attività della compagnia anglo-olandese Shell-BP, a dichiarare l’indipendenza dal governo federale e a trasformare la fame in un’arma della propaganda. Né tantomeno tali ricostruzioni si sono soffermate sulle conseguenze, una volta che il conflitto armato si era concluso e il tema non trovava più spazio sulle prime pagine dei giornali. La bibliografia sulla guerra civile nigeriana tuttavia è ampia. Testimoni, osservatori esterni al conflitto o protagonisti degli eventi, hanno pubblicato le loro impressioni; studiosi, spesso esperti di relazioni internazionali o giuristi, hanno commentato le vicende. Obiettivo di questa tesi è studiare come la guerra del Biafra è stata raccontata, dopo aver tracciato un quadro degli eventi e delle condizioni che hanno portato alla crisi nigeriana. Comprendere qual è stata la lettura data dagli studiosi – cercando di approfondire il discorso sull’interpretazione fornita dagli storici – e confrontarla con le narrazioni giornalistiche, memorialistiche ed artistiche. La molteplicità dei racconti sul conflitto rende la complessità dell’evento “crisi nigeriana” sul quale si vengono a registrare tante interpretazioni in conflitto tra loro quanti sono gli interpreti che si sono fatti carico di ricostruirle. Fondamentale sarà la riflessione sul significato delle fonti mediatiche e memorialistiche in relazione alle indagini critiche offerte dagli studiosi, che in gran parte proprio su quelle fonti hanno basato le loro ricerche.

La struttura della tesi prevede due parti principali. Nella prima, che comprende i primi tre capitoli, si propone un accenno al significato delle appartenenze etniche nel continente africano, una sintesi storica per ricostruire gli eventi della guerra e una panoramica generale sulle narrazioni del conflitto. Se l’etnicità può essere definita come un tema epistemologico fondamentale per qualsiasi ricerca o riflessione sull’Africa, nella nota storica si presenta la trama degli eventi, dall’origine della crisi alla conclusione della guerra civile nigeriana. La seconda parte della tesi, cioè dal quarto all’ottavo capitolo, si concentra invece sulla dinamica vera e propria delle narrazioni sul conflitto, passando in rassegna la letteratura prodotta sull’argomento. Il primo capitolo è dedicato ad una rapida storia critica delle narrazioni giornalistiche e al ruolo che esse hanno avuto nell’influenzare l’opinione pubblica internazionale, per valutare la corrispondenza tra il racconto proposto dai media, l’impatto di questo sull’opinione pubblica e l’effettiva politica promossa dai governi in merito alla guerra in Biafra. In seguito, l’analisi si concentrerà sulla produzione di memoriali di chi ha partecipato, come protagonista o come semplice osservatore, agli eventi del Biafra. Si studierà poi la produzione storiografica, la tradizione della letteratura accademica, concentrandosi in particolare su alcuni studi recenti che hanno focalizzato il loro interesse su temi specifici, come per esempio il significato della guerra civile nel contesto di una storiografia nazionale nigeriana, il ruolo delle donne e l’impatto sociale del conflitto. Infine, si vuole proporre anche una rapida riflessione sul modo in cui la guerra civile nigeriana è stata trasposta in ambito letterario, come cioè la tragedia del popolo biafrano sia stata interpretata e utilizzata ai fini della produzione artistica.

Vuole essere, in sostanza, lo studio del discorso sul Biafra, intendendo per discorso un certo linguaggio, le istituzioni e la configurazione dei poteri che lo alimentano. Lo scopo è cercare di capire come sia stato interpretato il conflitto e quale sia l’immagine che ne è stata costruita. La domanda a cui si vuole rispondere è come si sia costruita la riflessione accademica, in qual modo essa si sia distaccata dal resoconto della guerra civile offerto dalla stampa, dalla propaganda e dalla memorialistica e comprendere il rapporto che intercorre tra questi poli della narrazione. L’idea che si vuole suggerire, infine, è che il racconto di questi eventi ha in qualche modo contribuito a costruire un’immagine stereotipata delle crisi politiche in Africa attraverso la chiave di lettura del “conflitto inter-etnico” o “tribale”, come se le narrazioni della guerra del Biafra abbiano funzionato alla stregua di un modello da riproporre sempre nella tradizione/traduzione dei successivi conflitti avvenuti sul suolo africano, come per esempio in Rwanda, Repubblica democratica del Congo o Sudan.

I. Il Biafra

La parola Biafra (o Biafar) è stata usata dai primi esploratori portoghesi, a partire dal sedicesimo secolo, per far riferimento a una vasta area dell’Africa occidentale, a est del fiume Niger, estesa a sud attraverso il Camerun fino dentro il Gabon, la cui regione costiera – la baia del Biafra – corrisponde alla parte meridionale del Golfo di Guinea. In questa regione, secondo i racconti degli esploratori, vi sarebbe stato un regno la cui capitale era appunto Biafar (o Biafra o ancora Biafara), dove “i nativi sono per la maggior parte negri dediti e infatuati dalla magia, immaginandosi capaci di far piovere, tuonare e lampeggiare: perciò venerano il diavolo con grande zelo e sacrificano anche i loro bambini”[1]. Nel mondo contemporaneo, il Biafra corrisponde alla regione sudorientale della Nigeria, nota anche come Delta del Niger, che dall’antico regno africano prese il nome. Ebbe la sua breve vita come Stato secessionista tra il 30 maggio 1967, quando ne fu dichiarata l’indipendenza dalla Nigeria, e il 15 gennaio 1970, quando le sue truppe si arresero definitivamente all’esercito federale nigeriano.

La Nigeria ottenne la propria indipendenza dall’Inghilterra nel 1960 e a livello politico-amministrativo si strutturò in tre grandi regioni, il Nord, l’Ovest e l’Est (dove si concentrano gran parte dei giacimenti di idrocarburi del paese); nel gennaio 1966 un gruppo di ufficiali dell’esercito nigeriano, in maggioranza di etnia igbo, tentò invano un colpo di Stato. La conseguenza fu una sanguinosa repressione ai danni degli igbo che vivevano nel nord e migliaia di persone furono uccise in conflitti “etnici” (le stime variano, a seconda della fonte, da 3000 a 30.000 vittime); il 30 maggio 1967 il governatore della regione Orientale, il tenente colonnello Emeka Ojukwu, dichiarò unilateralmente la Repubblica del Biafra indipendente.

La tragedia del Biafra emerse grazie soprattutto alle immagini pubblicate sui mezzi d’informazione occidentali e ad una sapiente campagna mediatica messa in piedi dal dipartimento del governo biafrano che si occupava della propaganda all’estero. È un aspetto singolare che, dalla primavera del 1968 sino alla fine del conflitto, tale dipartimento sia stato coordinato da un ufficio di relazioni pubbliche di Ginevra, in Svizzera, la Markpress, di proprietà del pubblicitario statunitense William Bernhardt[2]. Compito della Markpress era diramare in Europa i comunicati della repubblica secessionista e organizzare i viaggi in Biafra degli operatori dell’informazione, per documentare il genocidio e mobilitare l’opinione pubblica mondiale con foto e immagini televisive toccanti. Giornalisti e fotografi internazionali, infatti, poterono recarsi nel paese dell’Africa occidentale, le cui strade d’accesso erano chiuse dal blocco imposto dal governo federale e che, nella seconda metà del 1968, non aveva più né un porto né un aeroporto all’infuori di una pista d’atterraggio nella foresta pluviale appena sufficiente per atterrare con un aereo cargo, soltanto grazie agli uffici della Markpress, che garantiva l’ottenimento del visto e il passaggio in aereo. Molto più difficile, invece, era ottenere un’autorizzazione per recarsi nelle zone del fronte dal governo federale nigeriano, che per tutta la durata del conflitto conservò un atteggiamento di assoluta diffidenza nei confronti di quasi tutti i cronisti stranieri.

La fame, in realtà, divenne notizia quasi per caso: Alan Hart, giornalista televisivo inglese, arrivò in Biafra per fare un reportage sul conflitto in corso; cambiò obiettivo il giorno in cui un missionario irlandese, padre Kevin Doheny, lo portò in un campo d’emergenza dove erano sfollati diverse centinaia di bambini, la maggior parte colpiti dal “kwashiorkor”[3], agonizzanti e in punto di morte. Hart perse tutto l’interesse nel fotografare soldati in azione e convinse la sua rete televisiva a impostare il servizio sulla tragedia in atto. Un giovane giornalista britannico della Bbc, Frederick Forsyth, che in seguito sarebbe diventato famoso in tutto il mondo per il romanzo Il giorno dello sciacallo e tornato più volte in Biafra dopo lo scoppio della guerra e negli anni successivi, a proposito di quelle immagini, dirà:

“Improvvisamente ci rendemmo conto di aver toccato un nervo scoperto. Nessuno in questo paese (ndr: Gran Bretagna) aveva allora mai visto bambini così. L’ultima volta che gli inglesi avevano visto qualcosa del genere potevano essere foto che arrivavano da Belsen…

La stessa guerra non avrebbe mai potuto accendere gli animi, ma le foto dei bambini affamati portarono il Biafra sulle prime pagine di ogni giornale inglese e da qui sui giornali di tutto il mondo. Persone che non riuscivano a capire le complessità politiche della guerra, capivano invece molto bene che cosa non andava davanti alla foto di un bambino che muore di fame”.[4]

In breve tempo l’agenzia ginevrina Markpress, che si occupava di propagandare in Europa la causa indipendentista, cominciò una vera e propria campagna mediatica per conto del governo del Biafra per evidenziare che la carestia era frutto del tentativo del governo federale nigeriano di sterminare il popolo degli igbo, il gruppo etnico più numeroso nella regione orientale della Nigeria. Secondo la tesi del governo biafrano, i militari musulmani nel nord della Nigeria perseguitavano le popolazioni civili cristiane del Sud ed era perciò inevitabile che queste ultime cercassero rifugio e protezione in un nuovo Stato. La campagna ebbe successo e il mondo intero si indignò per le condizioni in cui versavano centinaia di migliaia di bambini, simpatizzando per il Biafra. Donatori privati, chiese e associazioni si impegnarono nella raccolta di fondi e aiuti umanitari da destinare alla popolazione del Biafra.

La carovana delle organizzazioni umanitarie si attivò e quello che accadde costituisce una sorta di modello destinato a ripetersi infinite volte, su scala diversa, nelle crisi successive. Parte degli aiuti fu coordinata dalla Croce Rossa Internazionale, legata da precise convenzioni internazionali che le impediscono di intervenire negli affari interni di un paese. Perciò, a partire dall’inizio del 1969 il governo della Nigeria, sostenendo che il conflitto fosse solo un’azione di polizia, costrinse la Croce Rossa a inviare tutto il materiale diretto in Biafra a Lagos, da dove sarebbe stato poi gestito dalle truppe federali. Da parte sua, il Biafra che era stato riconosciuto ufficialmente soltanto da Tanzania, Gabon, Costa d’Avorio, Zambia e Haiti, non ottenne grande supporto dalla politica internazionale. Altra parte degli aiuti umanitari fu trasportata in Biafra dai piloti di “Joint Church Aid” (JCA), un consorzio che riuniva circa trenta organizzazioni non governative internazionali tra cui il Servizio Mondiale delle Chiese statunitense (CWS), le chiese finlandesi, danesi e norvegesi e Caritas Internationalis, ma anche l’Unicef e il Programma alimentare mondiale (WFP/PAM). Complessivamente, gli aiuti trasportati in Biafra costituirono il secondo ponte aereo per quantità mai realizzato dopo quello di Berlino nel 1948[5]. L’interrogativo se gli aiuti internazionali abbiano davvero portato giovamento alla popolazione, oppure siano serviti piuttosto a prolungare una guerra civile che, vista la sproporzione delle forze in campo, sarebbe stata destinata a concludersi in breve tempo è un argomento che sin dall’inizio del conflitto ha suscitato particolare interesse. Numerosi sono gli studi pubblicati anche negli anni più recenti per indagare, in generale, sulle ambiguità relative al contrasto tra l’intransigenza dei principi di neutralità e imparzialità delle organizzazioni non governative e le ricadute pratiche dei loro interventi; tra tutti, cito a questo proposito un libro apparso di recente in lingua italiana della giornalista olandese Linda Polman[6]. Ai fini di questa tesi, interessa però come la rappresentazione del conflitto del Biafra abbia portato la carovana umanitaria a mobilitarsi e che parte essa ha avuto nel dibattito storiografico successivo.

II. La nazione nigeriana

Roberto Costa Longeri, professore d’architettura all’università di Trieste incaricato tra il 1979 e il 1996 di un programma di cooperazione didattica e scientifica con l’università di Ile-Ife, nell’ovest della Nigeria, ricorda che “la secessione del Biafra è ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, la ragione principale di gravi contrasti non ancora sopiti tra le principali etnie della Nigeria, gli Haussa, gli yoruba e gli igbo, i vinti”[7]. Più avanti, riportando un colloquio con alcuni colleghi nigeriani, scrive che essi sottolineavano come esistesse un nazionalismo culturale a livello delle élite, mentre invece il sentimento di appartenenza alla nazione nigeriana fosse poco sentito da gran parte della popolazione: “il colonialismo in Africa, tanto quello britannico che quello francese, tedesco o belga, mirava allo sfruttamento razionale di aree ricche di risorse, fossero queste ultime note o solo presunte, approfittando e spesso creando ex-novo rivalità interetniche”[8]. Estremamente crudo e diretto è il capitolo intitolato “Al tempo della guerra del Biafra” de L’odio per l’occidente di Jean Ziegler. Relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione e vicepresidente del Comitato consultivo del Consiglio dei diritti dell’uomo, Ziegler afferma che “la guerra del Biafra illustra in maniera paradigmatica il disprezzo con il quale l’Occidente tratta le popolazioni della Nigeria”[9]. In uno stile asciutto e citando ricerche recenti della storiografia francese sul ruolo della Francia in Africa, Ziegler sottolinea come la presenza del petrolio – la Nigeria è il primo produttore dell’Africa – e l’affidamento di concessioni per il suo sfruttamento abbiano avuto un ruolo centrale e fondamentale nella dichiarazione d’indipendenza del Biafra e nella durata del conflitto. Secondo Ziegler, la francese Erap (poi Elf-Total) e la anglo-olandese Shell, presenti entrambe nel delta del Niger, avevano infatti interessi opposti e si misero all’opera per difenderli. Quando, alcuni mesi dopo il colpo di Stato militare nel luglio 1966, alla compagnia petrolifera francese fu revocata la concessione assegnata appena due anni prima nel delta del Niger, Parigi ‘appoggiò’ i secessionisti del Biafra favorendo l’intervento di mercenari francesi ai comandi del capitano Roger Faulques, già tra i responsabili del centro di tortura di villa Susini ad Algeri e poi membro dell’ Organisation de l’armèe secrète (OAS), per istruire i soldati biafrani. Dall’altra parte, Londra si impegnò per salvaguardare i propri interessi, finanziando e armando il governo federale di Lagos. La guerra, alla fine, durò trenta mesi e il bilancio finale fu di circa 200.000 morti in seguito alle operazioni belliche, centinaia di città e villaggi distrutti e più di un milione di vittime causate dalla carestia.

III. Un ‘nuovo mondo’ si presenta agli occhi dell’Occidente

La disgregazione degli imperi coloniali europei dopo la seconda guerra mondiale ha creato, attraverso la ridefinizione e la rietichettatura di mappe e atlanti, un ‘nuovo mondo’ ricco di paesi appena usciti dal dominio coloniale, spesso poco conosciuti o considerati periferici, a causa della loro distanza, sia geografica sia politica, dal centro della realtà occidentale. La guerra fredda contribuì però ad accrescere la consapevolezza di conseguenze catastrofiche anche in seguito ad una crisi periferica, pur in situazioni in cui gli interessi delle due grandi potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, non erano direttamente in gioco. La crescita continua dell’importanza dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare della televisione, ha portato ad un aumento fino a quel momento impensabile della velocità di trasmissione delle immagini, che potevano ora raggiungere le case del nord del pianeta praticamente in tempo reale. Inoltre, il contemporaneo movimento per i diritti civili negli Stati Uniti contribuì a creare un’età in cui era maggiore la consapevolezza dell’opinione pubblica circa l’importanza dei diritti umani e la necessità di proteggere tali diritti a livello globale. A livello storiografico si assiste ad un progressivo tramonto dell’idea di centralità dell’Occidente europeo, simboleggiante la ‘civiltà’, e alla conseguente scomparsa di quei territori prima considerati periferici, che acquistano ora rilevanza e significato di per sé.

Del paradigma eurocentrico la Grande Guerra segna un primo momento di crisi; ne derivano visioni antieurocentriche – la prima delle quali è legata all’interpretazione delle civiltà di Arnold Joseph Toynbee. Ma il secondo, fondamentale e ancor più radicale momento di crisi di quel paradigma evolutivo che colloca in Occidente il punto di arrivo di un percorso plurimillenario della civiltà umana avviatosi in Oriente, si registra tra il 1945 e gli anni Sessanta. È a cavallo tra questi anni che l’etica della human community incarnata dalle Nazioni Unite e il processo di decolonizzazione spostano definitivamente il punto di vista in direzione del Terzo Mondo, segnando un’attenzione nuova per le civiltà non occidentali che molte volte si è coniugata con una critica radicale dei rapporti di dipendenza che l’Occidente ha instaurato con esse. D’altra parte, la reazione stessa a questo spostamento ha generato un nuovo paradigma forte – quello cosiddetto della modernizzazione – destinato ad influenzare in profondità le scienze sociali: in questo senso, lo sviluppo politico ed economico dell’Occidente si propone al resto del mondo come immagine normativa del suo futuro.

Edward Wadie Said, nella sua opera più conosciuta, prova a riflettere criticamente sulla rappresentazione di ‘Oriente’ composta e ricostruita dagli studiosi occidentali, affermando che essa non sarebbe in fondo nient’altro che un volto dell’Occidente medesimo, un Occidente per differenza. Said la definisce “una deformazione” che corrisponde “a ciò che si potrebbe chiamare una coerenza discorsiva, a favore della quale testimoniavano non solo la storia, ma anche una presenza concreta, istituzionale”[10]. Il tentativo dello studioso palestinese di decostruire l’immagine occidentale dell’Oriente si aggancia al problema del rapporto tra noi e gli altri. Come nota Massimo Mastrogregori nelle sue lezioni su Auerbach e Said tenute all’università La Sapienza di Roma nel 2006-2007, quello dello studioso palestinese è un altro modo di leggere il rapporto tra centro e periferia: “sono rapporti insieme di potere e conoscenza, in cui inestricabilmente le questioni del potere si intrecciano con quelle della conoscenza; chi sono gli altri in quanto rappresentazione dipende strettamente da chi siamo noi come rappresentazione”[11].

Gli eventi della guerra del Biafra compongono una serie di questioni in un solo momento: l’impatto dell’imperialismo, le conseguenze della decolonizzazione, le difficoltà legate alla nascita di una nazione e i processi legati a quella categoria storica chiamata ‘appartenenza etnica’. In più, la divulgazione da parte di numerosi mezzi d’informazione di notizie che costruiscono una stretta relazione tra conflitto e carestia e la conseguente mobilitazione internazionale ‘umanitaria’ a favore dei profughi dimostra il ruolo fondamentale dei media nella fabbricazione di un’ideologia, che acquista immediatamente senso e contribuisce a formare il mondo circostante.

Oggetto principale di questa tesi è osservare come gli eventi della guerra del Biafra siano stati narrati al lettore e allo spettatore occidentale, per valutare come tale costruzione accompagni da allora in poi qualsiasi impressione sulla realtà politica dell’Africa sub-sahariana. Dopo un accenno alla genealogia del sentimento di appartenenza nazionale e alla relatività delle appartenenze etniche nel continente africano prima e dopo le indipendenze, quando si formano continuamente nuove identità regionali e di frontiera che scompaginano schemi e categorie elaborati in epoca coloniale, e una nota introduttiva sugli eventi della guerra civile nigeriana, si analizzeranno le riflessioni degli studiosi dell’accademia, ma anche di operatori dell’informazione e di alri testimoni, per sollevare il problema delle ‘pagine bianche della storiografia’ sulla guerra del Biafra e verificare se, piuttosto che bianche, siano state invece, volontariamente dimenticate dalla memoria collettiva e tralasciate nella discussione pubblica, perché talvolta può risultare più facile – e conveniente – riproporre uno stereotipo abituale che riorientare il senso comune su ciò che è accaduto. Dall’altro lato, inoltre, si vuole comprendere come la guerra civile nigeriana sia stata interpretata dalla storiografia, dai protagonisti e dai nigeriani in particolare, per verificare se e come un evento traumatico della recente storia nazionale sia stato utilizzato ai fini della costruzione di un sentimento di appartenenza comune e della comprensione delle rispettive identità.

CAPITOLO I SU ETNIA E NAZIONE IN AFRICA

I. Il dibattito sull’etnicità e i processi di costruzione identitaria

Alfred Bosch, docente di storia dell’Africa all’Università Pompeu Fabra di Barcellona, afferma che la storiografia e le scienze politiche non possono essere certamente definite “vecchie e care amiche dell’Africa”[12]. Secondo lo storico catalano, subito a ridosso dell’ondata di indipendenze negli anni Cinquanta e Sessanta, agli accademici è sembrato logico e naturale studiare le società africane alla luce delle teorie sviluppate negli anni precedenti dall’antropologia e dall’etnografia. È significativo ricordare che uno dei primi pensatori a dare autorità all’idea di una sostanziale inopportunità di una storiografia sull’Africa fu Hegel, secondo il quale la storia dell’uomo nero sarebbe cominciata soltanto con l’arrivo dell’uomo bianco, descrivendo l’africano come prova vivente di un uomo incapace di evoluzione[13]. Nonostante le critiche di alcuni studiosi – tra i quali è doveroso ricordare Immanuel Wallerstein[14], che sin dagli anni Cinquanta notò polemicamente come la ricerca su fatti ed eventi dell’Occidente fosse riservata a storici, economisti, sociologi e politologi e quella dedicata a “grandi civiltà” come l’Islam, l’India o la Cina fosse dominata dalla categoria degli orientalisti, mentre lo studio dei popoli dell’Africa, considerati più primitivi, fosse affidata agli antropologi – la ricerca accademica africanistica è stata a lungo considerata una “cenerentola” degli studi storiografici e inscrivibile in un quadro etnografico dominato da una visione sincronica dei rapporti sociali, ferma e priva di qualsiasi possibilità di comparazione con altre realtà.

Nelle discipline africanistiche e nella divulgazione scientifica sul continente africano, la questione etnica – sia che ci si riferisca all’epoca precoloniale, alla coloniale o a quella contemporanea – è parte essenziale dell’analisi della società. La definizione e la delimitazione del concetto di etnia dovrebbe perciò costituire l’interrogativo epistemologico alla base di ogni lavoro di ricerca, a ogni riflessione o analisi sull’Africa.

Secondo gli storici Patrick Chabal e Jean-Pascal Daloz, l’etnicità “non è un attributo essenziale dell’africano, ma più semplicemente uno dei tanti componenti dell’identità”[15]. E l’economista indiano Amartya Sen, presentando e discutendo l’idea di identità nella vita quotidiana, osserva che

Noi vediamo noi stessi come membri di una varietà di gruppi. […] La cittadinanza di una persona, la sua residenza, l’origine geografica, il genere, la classe, le credenze politiche, la professione, l’impiego, le abitudini alimentari, gli interessi sportivi, i gusti musicali, gli obblighi sociali ecc., ci rendono membri di una varietà di gruppi diversi. […] Nessuno [di questi raggruppamenti collettivi] può essere assunto come l’unica identità della persona o singola categoria d’appartenenza.[16]

I termini “etnia” e tribù”, utilizzati indifferentemente e come sinonimi fino al tardo diciottesimo secolo con il significato di popolo o nazione, a partire dal diciannovesimo secolo e parallelamente alla nuova fase di conquista coloniale in Africa vennero usati per definire e classificare i popoli extraeuropei che si riteneva non avessero elaborato civiltà politiche avanzate. Nel contesto della colonizzazione, le società africane preindustriali diventarono oggetto privilegiato di ricerca etnologica, etnografica e antropologica proprio perché considerate società “senza storia”.

Tuttavia le questioni che riguardano l’identità culturale, l’etnicità e la tradizione nel contesto africano hanno prodotto, a livello antropologico ed etnografico, una profonda riflessione databile già da metà degli anni Sessanta. Il dibattito tra gli studiosi di queste due discipline ha infatti rimesso in discussione le categorie descrittive e interpretative, spostando l’attenzione dalla questione delle appartenenze a quella della comprensione delle dinamiche che sono alla base dei processi identitari. Rifiutando il pensiero dell’esistenza di essenze culturali, il dibattito etnologico recente ha assunto una netta presa di posizione contro chi legge i conflitti del continente africano sotto il segno esclusivo del tribalismo, respingendo in questo modo la relazione univoca tra tali conflitti e “manifestazioni etniche viste come la sopravvivenza di un passato sempre vivace e perennemente molla del presente”[17].

La decostruzione del concetto di etnia, definibile come specificità immutabile e immutata di un popolo e una civilizzazione, si veniva a inserire negli anni Ottanta in un più ampio dibattito, influenzato dalla scuola delle Annales, in cui era messa in risalto la storicità dei processi identitari e dei fatti culturali, al fine di consentire l’analisi e lo studio delle molteplici e successive “reinterpretazioni della tradizione” nella contemporaneità. In questo modo, gli studiosi hanno potuto dimostrare il carattere ascrittivo dell’etnia, che si viene a rivelare una “finzione coloniale” rimessa in gioco e “strategicamente” reinterpretata nella competizione politica da parte di quegli attori sociali che se ne fanno interpreti[18]. Le categorie e le rappresentazioni di razze, tribù ed etnie, diventate ormai parte integrante dell’apparato concettuale dell’analisi, vennero così mutuate nelle rappresentazioni che le stesse élite politiche africane costruirono di sé. Non a caso, infatti, le indipendenze si erano fondate sul progetto di trasformare in Stati-nazione quelle entità geopolitiche inventate dal colonialismo europeo. Ed è perciò che la costruzione e l’integrazione nazionale furono ovunque intese come una priorità che poteva essere minacciata soltanto dall’emergere a livello politico di spinte particolaristiche, denunciate come fenomeni di “tribalismo”.

Secondo Amselle e M’Bokolo, la cui raccolta di studi intitolata L’invenzione dell’etnia ha suscitato numerose polemiche quando fu pubblicata a Parigi nel 1985, fino all’inizio degli anni Ottanta era diffusa, tanto tra gli studiosi quanto a livello di opinione pubblica, una vulgata giornalistica che consisteva, e consiste tutt’oggi, nel rendere conto di qualsiasi avvenimento che accade sul suolo africano in termini di “conflitto tribale” o di “lotta etnica”, rinviando a una sorta di ferocia essenziale degli africani che si sarebbe interrotta soltanto per un breve periodo, corrispondente alla colonizzazione europea. L’obiettivo degli autori, condiviso da chi scrive, non è tanto quello di dimostrare che le etnie in Africa non esistono[19], quanto piuttosto sottolineare che le etnie sono anch’esse categorie storiche, entro cui gli attori sociali si pensano e si relazionano con il mondo. In base a questa prospettiva, il modo in cui i popoli africani si percepiscono sarebbe legato agli effetti di ritorno dei racconti delle esplorazioni e della conquista, come anche dei testi etnologici coloniali e postcoloniali, sulla loro coscienza di sé. Da un punto di vista generale, questa reinterpretazione della propria appartenenza si iscrive nel campo più vasto dei rapporti tra la parola scritta e l’oralità, soprattutto in Africa dove un ruolo centrale aveva la trasmissione della cultura orale. La diffusione della scrittura porta infatti come conseguenza a un’autentificazione delle pretese degli agenti, sacrificando in qualche modo la ricchezza e le dinamiche stesse dei rapporti sociali reali e contribuendo a cristallizzare le categorie locali che assumono in questo modo un carattere esclusivo. La necessità di studiare il passato dell’Africa assegnando legittimità storica alla tradizione orale è stata uno dei temi centrali dell’opera dello storico belga Jan Vansina[20]. Avviando un approccio metodologico innovativo allo scopo di verificare con rigore l’autenticità delle testimonianze provenienti da un patrimonio orale come quello africano che stava per estinguersi, Vansina ha introdotto nuove prospettive che hanno consentito agli africanisti di ‘professionalizzare’ le loro riflessioni e studiare le origini e le migrazioni dei popoli del continente, i regni precedenti e contemporanei ai primi contatti con gli europei, che fino a quel momento erano rimasti ai margini, se non del tutto nascosti all’analisi storiografica.

Lo studio dei processi di costruzione identitaria, non solo in Africa, ha mostrato come la tradizione, lungi dall’essere una semplice riproduzione del passato, assomiglia piuttosto ad un’arena in cui si confrontano rappresentazioni spesso conflittuali della storia e dell’identità. Lo hanno notato Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger che hanno sviluppato il tema dell’ “invenzione della tradizione”, mettendo in luce come la categoria di “nazione” fosse un artificio legato a simboli e discorsi opportunamente addomesticati (per esempio la “storia nazionale”). Hobsbawm definisce le “tradizioni inventate” come

un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura simbolica o rituale, che si propongono di inculcare determinati valori o norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità con il passato. In questo senso, la tradizione va nettamente distinta dalla «consuetudine» che regge le società cosiddette «tradizionali». Scopo e caratteristica delle «tradizioni», comprese quelle inventate, è l’immutabilità.[21]

Ranger studia questo processo per quanto riguarda l’Africa coloniale, evidenziando come il periodo cosiddetto della “corsa all’Africa”, tra il 1870 e il 1900, corrisponde grosso modo all’epoca in cui in Europa gli Stati si strutturano in quella forma per come li conosciamo noi oggi. Secondo lo storico inglese, il concetto di impero rappresenta un momento centrale dell’invenzione della tradizione nazionale in Europa, mentre la creazione vera e propria degli imperi coloniali è leggermente successiva, presentandosi quindi più come un effetto che come una causa della tradizione europea. La spartizione dell’Africa tra le principali potenze europee, costrinse in qualche modo l’uomo bianco a definirsi – e giustificarsi – come signore di una grande massa di africani. Per farlo, e insieme trovare modelli di soggezione ai quali era possibile piegare i nuovi sudditi, gli europei si rivolsero a istituzioni e tradizioni inventate che avevano già funzionato nelle madrepatrie: scuole, professioni ed esercito, attraverso i quali costruire una giustificazione della propria autorità e formare nuovi modelli sociali. In Africa, però, l’intero apparato di queste invenzioni fu assai più esplicitamente legato alle questioni dell’autorità e del controllo di quanto non fosse in Europa, al fine di costruire ex-novo un sistema coerente di dominio del colonizzatore sugli indigeni. “La forza delle tradizioni inventate dalla dominazione europea nell’Africa coloniale contribuì a produrre soldati, amministratori e coloni devoti a un’etica «patriarcal-feudale», invece che formare cittadini dediti a un’etica «capitalistico-trasformativa»”[22]. Così come le tradizioni inventate in Europa per costruire lo Stato-nazione avevano lo scopo di controllare una società industriale complessa, di gestirne e indirizzarne il cambiamento, anche in Africa i bianchi utilizzarono gli strumenti delle tradizioni inventate per trarne l’autorità e la sicurezza necessarie al fine di presentarsi ed essere riconosciuti come agenti del cambiamento e della modernizzazione.

Gli effetti furono enormi: seguendo e rispettando le tradizioni inventate europee, gli africani avevano la possibilità di accedere al mondo coloniale, pur trattandosi in quasi tutti i casi di un accesso al ruolo subordinato del rapporto servo-padrone. Il problema sorse quando i processi indotti dalle tradizioni inventate europee cominciarono a stimolare, rapide e inattese, quelle trasformazioni economiche e sociali che minarono alla base il controllo da parte dei bianchi e portarono ad un aperto e palese atteggiamento di sfida nei confronti della loro autorità. A quel punto, gli africani avevano cominciato a guardare agli europei come ad un “altro” e, conseguentemente, a definire la propria identità per sottrazione o comunque in contrasto con “l’altro” europeo. In un certo senso, la definizione di sé degli africani non è altro che un processo speculare a ciò che si era verificato durante ‘l’epopea dell’imperialismo’ in Occidente. Esiste tuttavia una profonda differenza tra i due momenti: la penetrazione e la diffusione dell’immagine composta dagli europei nel mondo coloniale ha esercitato un impatto nettamente superiore, fortificando e immobilizzando l’immagine che i colonizzati hanno costruito di sé stessi.

Molti studi recenti sull’Africa pre-coloniale hanno dimostrato che, lungi dall’identificarsi in un’unica entità “tribale”, la maggioranza degli africani si muoveva in un sistema di identità multiple, una serie di reticoli di rapporti, associazioni e fedeltà che si estendevano su un più vasto piano regionale. I processi di immobilizzazione delle popolazioni, rafforzamento delle etnie e irrigidimento delle definizioni sociali furono una conseguenza necessaria del cambiamento politico ed economico imposto dalla colonizzazione. L’introduzione di un sistema di produzione finalizzato alle necessità della madrepatria coloniale, la distruzione dei sistemi interni di commercio e comunicazione, la definizione di rigidi confini territoriali, l’alienazione delle terre furono una consapevole determinazione delle autorità coloniali per “ri-stabilire” l’ordine e un senso alle comunità. Il processo, tuttavia, si concluse con la sfida, inattesa e imprevista, al potere coloniale, spesso espressa proprio attraverso i termini delle tradizioni inventate europee utilizzate in un primo momento per legittimare l’autorità coloniale, opportunamente “modernizzate” e adattate al fine di “ri-costruire” la comunità tradizionale africana, etnica, tribale, regionale o nazionale. È “l’ultima ondata dei nazionalismi”[23], come viene definita da Benedict Anderson, che nasce proprio come reazione ai nuovi modelli di imperialismo globale resi possibili dal capitalismo industriale. L’espansione dello Stato coloniale spinse alla creazione di un sistema educativo che formasse quantomeno gli organici inferiori delle burocrazie statali e imprenditoriali: furono questi i primi portavoce del nazionalismo coloniale, che agivano in un contesto ormai definitivamente cambiato dall’intervento delle potenze coloniali. Come scrive lo storico Roland Oliver a proposito dell’integrazione forzata di un’immensa varietà di regimi più antichi, gruppi etno-linguistici e comunità religiose, “la spartizione dell’Africa nell’ultimo quarto dell’Ottocento non è stata altro che uno spietato atto di amalgamazione politica, dove qualcosa dell’ordine delle diecimila unità fu ridotto a una semplice quarantina”[24].

La problematica delle costruzioni identitarie in Africa rappresenta quindi un argomento centrale per comprendere gli eventi geopolitici della storia recente. Studiare le relazioni tra popoli vicini che spesso intrattengono da secoli rapporti politici, economici e culturali costituisce il modello di quella che deve essere la ricerca nelle scienze sociali. Inoltre, riconoscere che l’identità sociale e individuale si definisce tanto per il ripiegamento su se stessi quanto attraverso l’apertura verso l’altro consente di mostrare la plasticità delle strutture sociali, evidenziando una volta di più l’artificialità di quelle categorie a lungo utilizzate dalla storiografia occidentale per illustrare la complessità della realtà africana. Etnicità, tribalismo, regionalismo, nazionalismo tribale o etnico non sono certo fenomeni caratteristici solo dell’Africa, né sono stati utilizzati per descrivere esclusivamente tale realtà, ma in nessun altro luogo questi particolarismi e la loro diffusione hanno occupato il terreno politico e il dibattito intellettuale in modo così massiccio come nel continente africano. In epoca coloniale, l’identità etnica e tribale si è dunque fissata e trasformata in rapporto all’ordinamento amministrativo, alle ideologie e alle pratiche del governo coloniale, per poi diventare uno dei fulcri di aggregazione nella competizione politica e nel conflitto di interessi durante il periodo della decolonizzazione prima e nella competizione per occupare il potere e controllare le risorse poi. Perciò lo studio dell’etnicità e del tribalismo in Nigeria non costituisce semplicemente un interesse accademico, ma rappresenta una questione fondamentale per comprendere gli sviluppi della guerra fratricida in Biafra.

II. Etnie e nazionalismo in Nigeria

Come la maggior parte degli Stati africani, la Nigeria è una creazione coloniale, nel senso che furono gli inglesi a forzare l’unione di territori diversi per sfruttare più razionalmente le risorse nelle zone in cui si erano insediati. Quarto possedimento coloniale in ordine di tempo acquisito dalla Gran Bretagna in Africa occidentale, la Nigeria è un’area – la cui estensione è paragonabile alla superficie di Italia, Francia, Svizzera e Austria messe insieme – costituita prevalentemente da foresta pluviale e savana, che dal golfo di Guinea arriva fino al deserto e al lago Ciad, e che non era mai esistita prima come unica entità storico-politica o geografica. Sempre stata un mosaico di nazioni e regni diversi, la Nigeria è il paese più abitato del continente africano, con una popolazione di circa 150 milioni di persone, un sesto dell’intera Africa. Ci sono centinaia di gruppi etnici, che parlano oltre 300 lingue diverse, contribuendo a fare di questo “gigante nero”, come viene anche definita, lo Stato più eterogeneo del continente.

I tre gruppi principali sono gli hausa-fulani, gli yoruba e gli igbo, che abitano rispettivamente il nord desertico e coperto da savana, il sud-ovest caratterizzato da savana e foresta pluviale tropicale e il sud-est del paese, che include foreste pluviali e habitat di mangrovie. Tra il Nord e il Sud del paese, nell’area cosiddetta del Middle Belt, si concentra il numero più alto di gruppi etnici, oltre un centinaio, tutti di dimensioni piuttosto ridotte, che nel corso dei secoli hanno dovuto difendersi dalle campagne di conquista degli emirati hausa-fulani e dei regni yoruba. Per quanto riguarda la popolazione, il numero dei componenti i gruppi minoritari è grosso modo paragonabile a quello dei membri dei tre gruppi principali. In ogni macro-regione geografica, Nord, Sud-ovest, Sud-est e Middle Belt, l’equilibrio demografico tra i vari gruppi ha sempre rappresentato un elemento importante della dinamica politica: sebbene maggioritari nelle rispettive aree di influenza, i tre gruppi citati hanno infatti dovuto fare i conti con spinte centrifughe e tendenze separatiste da parte dei gruppi minori, che hanno sempre rivendicato la propria autonomia.

Gli hausa-fulani, insieme ad altri gruppi del nord, praticano l’Islam, e fino all’avvento del colonialismo sono stati amministrati da governi autoritari caratterizzati da un forte potere centralizzato, emirati o sultanati. Gli yoruba erano organizzati in regni di grande scala, in perenne lotta fra loro ma accomunati da un fortissimo senso della propria cultura e tradizione, rivendicando tutti un antenato comune di nome Oduduwa, che secondo un’antica leggenda sarebbe emigrato dal nord-est dell’Africa per fondare il regno di Ile-Ife. Solo parzialmente islamizzati o praticanti l’animismo, gli yoruba del sud-ovest, assieme agli igbo del sud-est, si sono convertiti in gran parte al cristianesimo durante il periodo del colonialismo. Gli igbo basavano la loro organizzazione politica e sociale nel periodo precedente alla colonizzazione europea su piccole comunità semi-autonome: con poche eccezioni, le comunità igbo erano rette da un’assemblea a cui partecipavano tutti gli abitanti dei villaggi, senza distinzione di sesso, ruolo o età. Comunemente il potere politico nelle società igbo era gestito dagli anziani, i quali erano cioè i responsabili delle decisioni più importanti che riguardavano la comunità, anche se tali scelte non erano obbligatorie o imposte con la forza a tutti gli abitanti del villaggio poiché in assemblea chiunque poteva esprimere la propria opinione contraria e comunicare al resto della comunità di non volersi conformare. La successiva colonizzazione inglese ha importato in queste comunità un sistema di gestione politica e sociale maggiormente centralizzato, a capo del quale erano dei rappresentanti (cosiddetti warrant chiefs) nominati dal governatore britannico, responsabili dell’amministrazione della giustizia e della riscossione delle imposte per conto dell’impero coloniale. Tra le più significative rappresentazioni letterarie dello scompiglio causato dall’arrivo dell’uomo bianco tra gli igbo cito per la sua potenza evocativa e l’acuta analisi di una realtà ormai perduta il capolavoro di Chinua Achebe Things Fall Apart (letteralmente in italiano “le cose cadono a pezzi”)[25], che viene universalmente considerato il romanzo che segna l’inizio della letteratura africana contemporanea.

Il periodo coloniale contribuì ad accentuare il senso identitario di appartenenza etnica degli igbo, fino ad allora piuttosto tenue, poiché i britannici preferirono affidare ai membri di altri gruppi etnici minoritari originari sempre della regione meridionale posizioni amministrative privilegiate, ritenendo questi altri gruppi più facilmente gestibili[26]. La manipolazione della storia delle origini di tali gruppi minoritari, operata dai colonizzatori britannici per il proprio tornaconto politico[27], e il conseguente sconvolgimento dell’ordine sociale tradizionale suscitò numerosi episodi di ribellione e l’aperta ostilità della maggioranza delle comunità locali, e degli igbo in particolare, nei confronti dell’introduzione dell’ indirect rule[28]. Tuttavia, nonostante il tentativo di marginalizzare gli igbo dalla vita politica, i membri di tali comunità mostrarono la capacità e l’ambizione di raggiungere posizioni burocratiche ed economiche preminenti rispetto a gran parte degli altri gruppi del paese. Secondo l’interpretazione di diversi studiosi[29], l’assenza nella società tradizionale igbo di una marcata scala sociale e di una gerarchia politica avrebbe portato alla convinzione che non esistono barriere o scale sociali – escluse ovviamente quelle tra colonizzatore e colonizzato – tali da impedire il self-advancement. Perciò, dopo l’intervento dei missionari gli igbo si convertirono rapidamente alla religione cristiana, si applicarono a fondo per riuscire a frequentare scuole fondate sul modello di quelle britanniche e accettarono senza eccessive difficoltà il modello economico introdotto dai britannici. Quali che ne siano stati i motivi scatenanti, è importante sottolineare, come ha fatto lo studioso nigeriano Okwudiba Nnoli, che “il reclutamento nella burocrazia al potere era legato alle prestazioni nelle scuole di modello europeo”[30]. Attraverso l’istruzione e l’accesso alle professioni, si è formata una nuova classe di nigeriani, sebbene decisamente minoritaria rispetto al complesso della popolazione, cittadini informati e partecipanti all’informazione – con pochi diritti e ancor meno garanzie, ma coscienti – che seppero sfruttare le porte aperte dal colonialismo per entrare sulla scena politica ed avanzare così rivendicazioni nei confronti dei colonizzatori, pur rimanendo sostanzialmente entro il quadro di rapporti tipico della dominazione coloniale.

CAPITOLO II SINTESI STORICA

La storia recente della Nigeria è stata particolarmente travagliata: colonia inglese e poi, dopo l’indipendenza, perlopiù in mano a governi militari. La colonizzazione inglese viene comunemente fatta risalire al dicembre 1851, quando la Gran Bretagna – sostenendo di voler fermare il commercio degli schiavi – depose militarmente il re yoruba Kosoko, che aveva occupato l’isola di Lagos, e riassegnò il trono al deposto re Akintoye, il quale si affrettò a siglare un trattato di alleanza con la Corona britannica. Dieci anni più tardi, quando ad Akintoye era succeduto il figlio Dosumu, il territorio di Lagos fu definitivamente ceduto alla Gran Bretagna, che vi fondò l’omonima colonia, mentre il suo hinterland fu denominato Western Protectorate. Dopo la firma di diversi accordi con altri capi locali, la Gran Bretagna creò il protettorato dell’ Oil Rivers (che in seguito sarebbe stato chiamato Eastern Protectorate) nella regione sud-orientale e il Northern Protectorate nel nord. Nel 1906 la colonia di Lagos e i due protettorati meridionali, Western e Eastern, vennero uniti nel Protectorate of Southern Nigeria, che coesisteva con il protettorato settentrionale. Nel 1914, si arrivò all’ amalgamation dei territori meridionale e settentrionale, attraverso l’unificazione dei sistemi giudiziari, delle tassazioni, delle infrastrutture, degli standard monetari e dei sistemi finanziari, della burocrazia nonché dei comandi militari. In particolare, su iniziativa del primo governatore della Nigeria, Lord Frederick Lugard, l’ amalgamation estendeva anche al territorio meridionale il sistema dell’ indirect rule, l’amministrazione indiretta basata sulla salvaguardia di usi e costumi politici locali e il loro inserimento all’interno dello schema generale di dominio coloniale.

La dominazione coloniale britannica distingueva nettamente tra governo coloniale, che si occupava dei problemi generali di gestione delle risorse, e governo indiretto, fondato sul collegamento con native authorities (autorità indigene o legittimamente tradizionali) e la costruzione di native administrations in ciascun territorio che funzionassero per mezzo di istituzioni tradizionali (corti, sistemi fiscali). Ciascuna entità territoriale doveva governarsi per mezzo di propri capi e istituzioni, la cui autorità derivava dalle consuetudini secondo la formalizzazione di propri codici culturali.[31]

Ma se l’introduzione dell’amministrazione indiretta e la sua applicazione nella Nigeria settentrionale fu relativamente semplice grazie alla presenza da secoli in quella regione di sultanati ed emirati, in cui i principi di gerarchia e autorità erano perfettamente riconoscibili e riconosciuti dalla popolazione, lo stesso non avvenne nelle regioni meridionali dove la sua imposizione incontrò molti ostacoli e non diede mai i risultati amministrativi auspicati. Nell’Ovest, la lotta tra i diversi regni yoruba aveva provocato un’accesa conflittualità tra i diversi gruppi sociali sulla legittimità del potere, anche se secondo lo studioso nigeriano Felix Alonge l’introduzione dell’ indirect rule in questa regione può essere definita un parziale successo, in particolare per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia e la riscossione delle imposte[32]. L’amministrazione indiretta si rivelò invece un completo fallimento nella Nigeria Orientale, poiché nelle società igbo e delle altre comunità abitanti lungo il delta del fiume Niger non è mai esistita una forte autorità centrale. Anzi, tradizionalmente l’autorità e i diversi poteri erano così diffusi a livello locale da non permettere l’individuazione di un capo indiscusso e da costringere gli inglesi a creare ex-novo una figura a cui affidare le responsabilità amministrative. Alonge definisce infatti le società igbo come uno “Stato acefalo”, i cui principi egalitari resero necessaria la nomina di nuove autorità di governo da parte del potere coloniale, autorità che con il tempo si rivelarono estremamente autocratiche e oppressive[33].

Il sistema basato sulle autorità indigene, perciò, non può essere definito semplicemente come il mantenimento dei precedenti costumi politici tradizionali, poiché questi furono pesantemente manipolati e snaturati per sostenere il regime coloniale, anche laddove sembravano perpetuarsi in forme simili al passato. Per esempio, al Nord l’autorità di emiri e sultani fu estesa ben oltre la loro giurisdizione tradizionale; nel Middle Belt, i capi di alcuni gruppi minoritari furono promossi al rango di emiri, come allo stesso modo fu accresciuto il potere dei re (oba o alafin) yoruba. Secondo Marcella Emiliani, africanista all’Università di Bologna, “l’individuazione, l’imposizione e il potenziamento delle native authorities, oltre a minarne la legittimità tradizionale, alterò il delicato equilibrio intercomunitario che nelle tre regioni legava i gruppi etnici maggiori a quelli minori; inoltre, la creazione delle native administrations, con il loro reticolo di frontiere amministrative artificiali, funzionali soprattutto all’esazione delle imposte, finì per moltiplicare la conflittualità locale in tutto il paese”[34].

Il dominio coloniale della Gran Bretagna cambiò radicalmente la società e la cultura nigeriana, attraverso l’espansione del commercio con l’estero e promuovendo il ‘progresso’ e la ‘civilizzazione’ di un popolo considerato inferiore e arretrato. Obiettivo del dominio coloniale, in teoria, era modificare soltanto quei costumi, tradizioni e istituzioni che gli inglesi ritenevano d’ostacolo al progresso, lasciando inalterato tutto il resto. Ma i cambiamenti apportati al sistema politico tradizionale dall’introduzione dell’amministrazione indiretta e le trasformazioni imposte al sistema di produzione economico furono densi di conseguenze a livello sociale.

In particolare, il modello economico coloniale si impegnò nell’aumentare la capacità produttiva di materie prime con l’obiettivo di espandere le esportazioni, attraverso l’introduzione di nuove piantagioni e il miglioramento delle estrazioni minerarie. Gli inglesi, inoltre, introdussero nell’economia nigeriana il sistema economico basato sulla sterlina e il lavoro salariato tra i nigeriani, ai quali era fino a quel momento sostanzialmente estraneo. La conseguenza immediata fu quella di far saltare in pochi anni tutti quei processi di produzione agricola, di solidarietà economica e di accumulazione di capitale che si erano costruiti nelle comunità nigeriane per secoli. Le città si svilupparono rapidamente, poiché molte persone si spostarono dalle campagne nelle aree urbane per cercare lavoro nell’amministrazione coloniale o nelle società commerciali inglesi. Nelle regioni meridionali lo sviluppo di una struttura economica finalizzata alle necessità coloniali fu più semplice e contribuì a far emergere rapidamente una nuova classe di nigeriani, formati nelle scuole fondate dagli europei, cristiani e capaci di parlare bene la lingua inglese. La maggiore apertura delle regioni meridionali all’influsso occidentale si tradusse anche in un più rapido accesso alle forme moderne di rappresentanza politica: già a partire dal 1923 furono creati dei consigli legislativi per l’autogoverno a Lagos e a Calabar a cui partecipavano anche quattro cittadini nigeriani eletti sulla base di un suffragio censitario. Anche se la presenza dei quattro delegati era puramente formale, questa era la prima volta in tutto il continente che degli africani venivano eletti in consigli legislativi e, benché la base elettorale fosse particolarmente ristretta a causa dell’alto reddito richiesto per partecipare al voto, ciò portò alla formazione dei primi partiti e alla nascita di giornali scritti da giornalisti nigeriani proprio per informare i loro concittadini sulle attività politiche dei nuovi rappresentanti. Tale innovazione non fu invece applicata alla regione settentrionale del paese e prima di vedere un uomo politico del Nord eletto in un consiglio legislativo bisognerà aspettare le elezioni regionali del 1951.

La diseguaglianza tra le regioni meridionali e quella settentrionale del paese risulta ancora più evidente se si osservano le statistiche sull’alfabetizzazione. Se nel 1952, l’8,5% del totale della popolazione con più di sette anni sapeva leggere e scrivere, guardando i dati disaggregati per regione si scopre che tale percentuale sale al 16% nella regione Orientale e al 18% in quella Occidentale, mentre arriva soltanto al due per cento nella regione Settentrionale[35]. Nonostante l’ amalgamation, infatti, gli inglesi proseguirono a governare il paese come se fosse diviso in due parti differenti, un Nord povero di risorse ma facilmente governabile attraverso l’ indirect rule e un Sud meno gestibile politicamente ma più sviluppato sotto il punto di vista economico e sociale e pienamente inserito nel commercio internazionale di materie prime (prima con l’olio da palma, in seguito anche con altre colture da esportazione, cacao in testa). Se da un lato l’economia nazionale venne forzata allo scopo di diventare funzionale alle intenzioni estrattive del colonialismo, dall’altro ognuna delle tre regioni (Nord, Ovest, Est) rimase incapsulata nel suo stesso sistema produttivo, in quanto non esisteva un interscambio regionale o tra le diverse regioni, né di prodotti né di operatori economici, impedendo così di fatto una qualsiasi integrazione reale del paese.

I. Modelli coloniali in Africa

L’introduzione del sistema di piantagione fu una delle prime iniziative realizzate nel sedicesimo secolo da portoghesi e spagnoli nei loro insediamenti di Sao Tomé e delle Canarie e da lì poi ‘esportato’ nelle colonie americane. Tra i risvolti più significativi di questo modello di produzione vi era la necessità di un continuo rifornimento di schiavi per la manodopera: per più di 300 anni, dal 1500 fino alla metà del diciannovesimo secolo, vascelli e mercanti giungevano dall’Europa per ‘battere’ le coste e razziare l’interno del continente – con l’aiuto di capi locali e intermediari arabi – alla ricerca di schiavi abili al duro lavoro nelle piantagioni d’oltreoceano, con gravi conseguenze sulle strutture sociali ed economiche dei popoli indigeni. Intorno al 1750 erano 187 le navi, francesi, inglesi e olandesi con una stazza media di circa 180 tonnellate, impegnate nel trasporto verso le Americhe di più di 36.000 schiavi africani ogni anno[36]. Alla fine del diciottesimo secolo, ben un terzo della marina mercantile britannica, con oltre 260 vascelli, era impegnato nel traffico degli schiavi[37]. Benché sia estremamente difficile calcolare con precisione quanti africani siano stati coinvolti nella tratta, secondo lo storico canadese Paul Lovejoy, la cifra di 11 milioni e 716.000 può essere considerata una stima ragionevole del numero di quanti sono stati portati via dall’Africa come schiavi tra il 1500 e il 1800: un totale di circa un milione nel sedicesimo secolo, più di due milioni nel diciassettesimo e oltre sette milioni nel diciottesimo[38]. All’inizio del diciannovesimo secolo, il commercio degli schiavi dall’Africa aveva assunto proporzioni talmente imponenti che Lovejoy lo definisce come la “prima migrazione di massa del mondo moderno”[39], una migrazione certo forzata ma che secondo lo storico della York University di Toronto non è possibile quantificare, a causa del divieto imposto dalle potenze europee alla tratta legale degli schiavi. Secondo alcune valutazioni, difficilmente verificabili, per ogni schiavo trasportato almeno dieci ne morivano, durante il rapimento stesso, nel corso del tragitto verso il vascello oppure in mare[40]. Se tali stime fossero corrette, ciò significherebbe un costo complessivo per la popolazione del continente africano che si aggira tra i 100 e i 200 milioni di persone.

La tratta di schiavi fu accompagnata dalla massiccia importazione in Africa di armi da fuoco. La coincidenza fu disastrosa: la schiavitù e il suo commercio contribuirono allo svuotamento di villaggi e città, mentre la vendita delle armi da fuoco ad alcune comunità piuttosto che ad altre accentuò le rivalità inter-etniche fomentando nuovi conflitti. Questa distruzione portò, come già accennato, all’atomizzazione delle comunità statuali tradizionali attraverso il declino dell’autorità centrale, alla rovina del commercio, alla decimazione della popolazione, al decadimento dei mezzi e dei metodi di produzione abitudinari. Il risultato non fu semplicemente un parziale ritorno al tribalismo, ma la chiusura delle comunità in se stesse e la diffusione di divisioni in clan e feudi. Paradossalmente fu proprio la decisione di abolire lo schiavismo e il traffico degli schiavi a favorire la vera e propria colonizzazione europea dell’Africa. Con la giustificazione umanitaria di impedire tale commercio, “gli schiavisti europei trasformatisi in abolizionisti procedevano alla conquista dell’interno del continente con il pretesto di crociate contro gli schiavisti «arabi» (il termine «arabi» diventa qui strumento della politica di divide et impera per mettere in contrasto i neri con gli arabi)”[41]. Dall’altra parte, gli agenti africani del traffico di schiavi furono conquistati, ulteriormente corrotti e trasformati in vassalli degli stati colonizzatori per mezzo della politica dell’ indirect rule. Un aspetto fondamentale, che viene evidenziato da numerosi studiosi e che ritengo qui necessario accennare, è l’aspetto estremamente dinamico del fenomeno ‘schiavitù’, le cui forme sono tramutate profondamente nel tempo e nelle diverse regioni. Secondo Lovejoy, infatti, la forma di schiavitù tipica delle Americhe e caratterizzata dalla tratta atlantica dei ‘negri’ non rappresenta affatto il modo in cui il lavoro servile era tradizionalmente diffuso all’interno delle società africane, in cui esistevano da lungo tempo forme di legami personali differenziate ed estremamente complesse, ma in generale più benevole e integrative di quella conosciuta in America[42].

La svolta verso la spartizione del continente ebbe inizio intorno alla metà del diciannovesimo secolo, quando le diverse imprese commerciali europee, sostenute dai rispettivi governi, pretesero il monopolio nelle proprie aree di influenza. Il Congresso di Berlino (novembre 1884-febbraio 1885), considerato l’evento politico che di fatto diede inizio alla colonizzazione dell’Africa, fu organizzato non tanto per procedere alla spartizione del continente tra le potenze europee ma proprio per mettere ordine tra gli interessi in competizione nelle rispettive aree di influenza.

Un elaborato sistema di commercio e di finanza fu costruito sulla base della ‘produzione contadina’. L’organizzazione e la gestione della produzione era concentrata nelle mani delle grandi compagnie d’oltremare, mentre alcune piccole fessure erano occupate dai locali venditori al minuto, apparentemente autonomi ma in realtà del tutto dipendenti dai maggiori interessi commerciali e bancari della madrepatria coloniale. In Nigeria, per esempio, le regioni sud-orientali furono utilizzate soprattutto per installarvi piantagioni di palma da olio, a sud-ovest furono create estese coltivazioni di cacao, mentre nel nord si diffuse la coltivazione su larghissima scala di arachidi e cotone. Accanto all’agricoltura, il settore minerario rappresentò uno dei capisaldi dell’imperialismo britannico. La Nigeria fu fondamentale per la produzione di stagno e bauxite, diffusi soprattutto nel nord e nel Middle Belt, mentre i piccoli depositi locali di carbone furono sfruttati per garantire il rifornimento alle ferrovie che dovevano trasportare le materie prime dall’interno del paese verso i porti sulla costa. Inoltre, già nel 1908 furono intraprese le prime perforazioni superficiali alla ricerca di petrolio nel delta del Niger e nei dintorni; prima della seconda guerra mondiale Shell e BP proseguirono le ricerche e i primi riscontri positivi arrivarono nel 1953, mentre la produzione effettiva cominciò a partire dal 1958.

II. Dal colonialismo al neo-colonialismo

Alla colonia nigeriana, economicamente vitale per la produzione e il commercio di numerose materie prime, venne concessa l’indipendenza nell’ottobre del 1960; tuttavia, ottenuta l’indipendenza politica, rimasero immutati i problemi connessi allo sviluppo del paese. Compito della Nigeria, come del resto di tutte le colonie, era fornire manodopera e materie prime a basso costo alla madrepatria, oltre che importare dalla Gran Bretagna manufatti già confezionati e capitali. Come fu definita dallo studioso sudafricano Hosea Jaffe, la Nigeria non è stata altro che “uno schiavo economico dell’Inghilterra”[43]. Questo attributo balza agli occhi osservando le statistiche della bilancia commerciale nigeriana. Nel periodo precedente l’indipendenza, e fino alla prima metà degli anni Sessanta, cacao, arachidi, cotone, mandorle, olio di palma, gomma, stagno, columbite, legname da costruzione costituivano oltre il 90% delle esportazioni della Nigeria; dal 1958 a questa lista si aggiunse il petrolio greggio (meno dell’uno per cento sul totale delle esportazioni nel 1958, il 25% nel 1965 e più del 90% nel 1985)[44]. Solo il 10% delle importazioni era formato da «macchinari» e solo una minima parte di questi macchinari servivano per la produzione[45]. Un aspetto peculiare della struttura economica che viene sottolineato dallo studioso nigeriano Pade Badru, e che ritengo importante menzionare, è la coincidenza temporale tra l’inizio del declino della produzione agricola e della superficie destinata a tale scopo e gli anni in cui è cominciata l’attività estrattiva di petrolio nel delta del Niger. Secondo il sociologo dell’università statunitense di Louisville, infatti, tale declino è intimamente legato al maggiore contributo in valuta estera garantito alla ricchezza nazionale dai proventi dell’estrazione di greggio, con la conseguenza che il settore agricolo fu praticamente abbandonato e la Nigeria, per assicurare il proprio fabbisogno interno, divenne un importatore netto di cereali, come frumento e riso, da paese esportatore di derrate agricole quale era[46].

Sulla base economica tipica del modello coloniale appena citato, l’Inghilterra configurò l’elaborato sistema delle native authorities, servendosi delle autorità tradizionali feudali, proto-feudali, tribali e comunitarie, e sostituendole con altre quando queste non potevano essere piegate e asservite al dominio britannico. Allo stesso tempo, grazie all’opera delle missioni e delle scuole indipendenti, delle università e all’istituzione delle carriere di amministratori pubblici e funzionari commerciali sussidiari create dal capitale privato, emerse una élite locale di piccola e media borghesia. Questa nuova classe di nigeriani si rivelò strumento addizionale per la politica dell’ indirect rule e complementare a quello dei capi tradizionali. In questo modo, quella struttura politica indigena ‘forgiata’ dal colonialismo per garantire l’amministrazione indiretta della Nigeria, al momento dell’indipendenza apparve immediatamente come suo diretto e logico sostituto. La struttura economica complessiva non aveva alcuna necessità di essere alterata: la transizione da colonia a nazione formalmente indipendente richiedeva unicamente il pubblico e ufficiale ritiro della Corona inglese e l’elevazione dei centri di indirect rule allo stato di autorità autonoma. L’‘indipendenza’, in fondo, non fu altro che il perfezionamento e l’apogeo della politica di amministrazione indiretta. O meglio ancora, secondo la storica statunitense Barbara Calloway, non fu altro che il tentativo di costruire uno Stato neo-coloniale, in base alla definizione per cui “il neo-colonialismo è il processo per mezzo del quale i modelli di dipendenza coloniale, dopo la formale indipendenza politica, vengono mantenuti sotto forma di subordinazione economica”[47].

III. Verso l’indipendenza

Dal punto di vista istituzionale, nel 1946 la Nigeria era stata divisa in tre regioni – Nord, Ovest, Est; a partire dal 1954, gli inglesi avevano costituito un’amministrazione federale, che riuniva le tre regioni, ognuna delle quali era dotata di una certa autonomia, seppur dipendente da direttive poste a protezione della Federazione. Non si trattava, però, di una Federazione costituita da tre diversi Stati quanto, piuttosto, da una miriade di gruppi etnici costretti all’improvviso a convivere forzatamente in un’unica realtà politica, poliedrica e composita. Le conseguenze di tale eterogeneità emersero subito dopo l’indipendenza, quando iniziò la lotta tra i più numerosi tra i gruppi etnici della Nigeria (hausa, yoruba e igbo), finalizzata al controllo delle istituzioni centrali della Federazione. Fu una contesa che provocò un aspro conflitto che avrebbe influenzato tutta la successiva vicenda politica e storica nigeriana, costellata da una lunga serie di colpi di Stato, da un incerto susseguirsi di regimi militari e civili, da molteplici e inefficaci tentativi di riforma istituzionale, che in parte prosegue ancora al giorno d’oggi. La tensione nazionalista-etnicista dei maggiori partiti politici nigeriani e le rivalità tra le varie autorità che furono strumento dell’ indirect rule sfociarono infine in una politica regionalista, che però non faceva alcun richiamo a quei fattori ‘progressisti’ della tradizione tribale: dalla proprietà comune della terra e delle risorse naturali (che sarebbe risultata pericolosa per le compagnie straniere in possesso di concessioni), al lavoro comunitario e all’assenza di privilegi (che sarebbero stati disastrosi per il nepotismo vigente e reso più difficile l’autorità di controllo sulla vita politica nigeriana da parte dell’ex madrepatria coloniale e delle altre potenze occidentali). Furono invece gli aspetti negativi del tribalismo così come trasformato dal colonialismo, cioè il sistema di comando in qualità di agente dell’ indirect rule e le divisioni tra clan, ad assumere sempre maggiore importanza nella politica nazionale nigeriana. In questo modo, il Nord fu essenzialmente hausa-fulani, l’Ovest yoruba e l’Est igbo. Secondo lo storico nigeriano Rufus Akinyele, il problema fondamentale della Nigeria non è tanto l’etnicità o la religione quanto piuttosto la politicizzazione e l’uso strumentale di questi aspetti.

In Nigeria la politica è ancora considerata un “gioco sporco”, il cui fine ultimo è assicurarsi il potere a ogni costo. Etnicità e religione, per il loro essere onnicomprensive e per la loro natura fortemente emotiva, sono divenute comode piattaforme per la mobilitazione di massa nelle mani della classe politica. A causa della politica caratterizzata da prebende in cui i nigeriani sono stati abituati a crescere, la democrazia viene interpretata come “ogni cosa per me stesso e i miei fedeli sostenitori”. Il governo viene visto come un’entità aliena da sfruttare e non come una sacra missione a cui dedicarsi per il bene della nazione. Poi, una volta che i politici si sono accorti che le masse cominciavano a comprendere di essere state utilizzate attraverso la cortina fumogena dell’etnicità come un mezzo per giungere al potere, gli stessi politici cominciarono a volgersi sempre di più alla religione per ottenere lo stesso obiettivo.[48]

Al tempo della fase preparatoria dell’indipendenza, il blocco di potere costituito da autorità tradizionali modernizzate e cooptate nel sistema produttivo e commerciale europeo e dalle élite degli istruiti, funzionari e professionisti che avevano promosso le istanze del movimento nazionalista a partire dagli anni Trenta, si rivelò ben presto fragile e diviso a causa dello squilibrio regionale che caratterizzava la Federazione. Tra il 1966 e il 1998, infatti, il paese ha conosciuto ben sette colpi di Stato militari e l’alternarsi di dittature sanguinarie e cruente, ricordate per l’alto grado di corruzione che le ha contraddistinte. Con la scusa di impedire la corruzione e la scarsità di iniziative da parte degli uomini politici, i militari in Nigeria monopolizzarono in breve tempo tutto il potere e praticamente ogni ambito venne sottoposto al loro controllo: il potere politico, attraverso la Federazione centrale; il potere economico, in quanto interlocutori del capitale privato per la gestione delle risorse petrolifere del paese e perciò beneficiari di immensi profitti; e il potere “sociale”, che li legittimò a sedare nel sangue ogni manifestazione di dissenso che provenisse dal basso, in nome del mantenimento di un centro federale forte e autorevole.

IV. Il pensiero politico nazionalista

L’apparizione di un’idea di nazionalismo nigeriano è avvenuta, in sostanza, sotto forma di un movimento di protesta. Sin dal suo inizio, il dominio coloniale ha infatti ispirato numerosi moti di resistenza anti-coloniale, anche se questi non erano affatto organizzati attorno a ciò che può essere definito come una coscienza ‘pan-nigeriana’ o nazionale in senso stretto. Si trattava piuttosto di una resistenza che faceva appello a un sentimento di comune appartenenza ‘razziale’ da un lato e a specifiche circostanze locali dall’altro. Queste prime forme di resistenza al dominio coloniale si moltiplicarono in modo esponenziale e ben presto confluirono in veri e propri movimenti nazionalisti su vasta scala, anche se quasi sempre localizzati nella capitale e nelle principali città. All’inizio degli anni Trenta, in Nigeria – e in generale in tutta l’Africa occidentale – emerse una nuova generazione di attivisti anti-coloniali, le cui richieste consistevano principalmente in un maggiore coinvolgimento dei nigeriani negli affari del governo coloniale. Guidati da esponenti carismatici e utopisti, provenienti in larga misura da quella classe sempre più numerosa di nigeriani che avevano potuto studiare all’estero nelle università occidentali, questi movimenti cominciarono a produrre, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, una pressione ogni giorno maggiore sull’amministrazione coloniale per spingerla ad impegnarsi in progetti e pianificazioni progressive per lo sviluppo del paese.

Prima del 1930, gli abitanti della Nigeria nel loro complesso non si percepivano affatto come ‘nigeriani’. La maggior parte dei nazionalisti istruitisi in Europa, in questo periodo, ritenevano infatti arbitrari e illegittimi i confini stabiliti dal dominio coloniale britannico. Quasi tutti avevano l’età per ricordare il periodo in cui gli africani si governavano per conto proprio, e si richiamavano ancora alle strutture politiche e sociali che avevano preceduto quelle introdotte dal regime coloniale. La loro prima forma di organizzazione fu quindi l’incontro di tutte le istanze a prescindere dai confini istituiti dal dominio britannico, affermando con forza il valore di un’identità comune “dell’Africa occidentale”. Nel 1920, fu perciò organizzata una conferenza ad Accra, in Costa d’Oro (l’odierno Ghana) a cui parteciparono anche avvocati, dottori e commercianti di Lagos e di Calabar, durante la quale fu fondato il National Congress of British West Africa (NCBWA, Congresso nazionale dell’Africa occidentale britannica). Questa fu la prima espressione di operante solidarietà extra-nazionale e segnò il definitivo superamento dell’identità politica fino ad allora esistita tra capi tradizionali ed esponenti dei movimenti nazionalisti. Obiettivo dell’organizzazione, in base al suo manifesto, era “non organizzare un movimento anti-governativo, ma aiutare il lavoro del governo in modo leale e costituzionale”[49], perché – come sottolinea lo studioso nigeriano Okoi Arikpo, che fu anche ministro degli Esteri tra il 1967 e il 1975 – il fine ultimo era quello di promuovere l’unità tra gli africani che vivevano sotto il dominio britannico per abbattere gli ostacoli che impedivano ai neri di conseguire quella parità nel trattamento economico e sociale adeguata alle loro capacità, tanto nel sistema amministrativo coloniale quanto nella società britannica.

Con questo non si vuole affermare che non siano esistite istanze propriamente nazionali nel periodo precedente agli anni Trenta. Basti citare come esempi l’attività giornalistica di Herbert Macaulay come editore del Lagos Daily News e il suo ruolo centrale nell’organizzazione di proteste contro il governo coloniale a Lagos e in altre parti della Nigeria, per evidenziare che esistevano già sia una forte opposizione al governo straniero sia l’idea che i nigeriani dovessero governarsi da soli. Macaulay fu la “bestia nera”[50] del governo coloniale per circa quarant’anni, dalle agitazioni contro la tassazione sull’acqua imposta ai cittadini di Lagos nel 1908 fino alla campagna nazionale del 1945-‘47 contro le obnoxious ordinances (ordinanze odiose)[51]. È comunque a partire dagli anni Trenta che tali sollecitazioni assunsero la forma di richieste ufficiali al governo coloniale portate avanti da gruppi organizzati con una struttura presente anche al di fuori della capitale. In questo periodo, infatti, una nuova generazione aveva completato il proprio ciclo di studi nelle università occidentali, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dov’era entrata in contatto con gli attivisti afro-americani per i diritti sociali, ed era tornata in Nigeria. Una generazione che era nata dopo l’avvento del regime britannico e che nel corso della propria esperienza di vita non aveva conosciuto altro che i confini coloniali imposti dalla Gran Bretagna. Questa nuova generazione di nigeriani istruitisi in Occidente portò avanti le istanze nazionalistiche seguendo i passi degli attivisti della generazione precedente. Continuarono a cercare un impiego nelle strutture del governo coloniale o nelle imprese private europee, lavorando come insegnanti, ecclesiastici oppure ancora funzionari della pubblica amministrazione. Ma, differentemente da prima, le loro attività militanti non si concentrarono soltanto nella critica delle contraddizioni del regime coloniale e si impegnarono a fondo nel promuovere campagne di ‘autosostegno’, istituendo una serie di ‘organizzazioni volontarie’ che avrebbero avuto poi un ruolo fondamentale nello sviluppo del movimento nazionalista nigeriano.

Tali organizzazioni erano sorte in un primo tempo come unioni tra membri della stessa comunità, il cui compito consisteva nell’aiutare a far fronte ai problemi che si presentavano a chi, dopo aver lasciato le zone rurali e i villaggi nativi, si trovava per la prima volta a vivere in un ambiente cittadino. Le organizzazioni offrivano aiuto nella ricerca di un impiego, assistenza ai malati e a chiunque ne avesse bisogno o lo richiedesse; si adoperarono per l’istituzione di nuovi ospedali e dispensari. Insieme a queste attività pratiche, avevano anche lo scopo di conservare e tenere vive le abitudini, la lingua e le usanze tradizionali. Tra gli aspetti più importanti della loro opera, bisogna sottolineare il ruolo che ebbero nel contribuire all’istruzione dei nigeriani, fino a quel momento gestita esclusivamente dai missionari cristiani. Le organizzazioni volontarie davano infatti la possibilità di frequentare le scuole, mettendo in piedi piccoli istituti per la formazione primaria e aiutando economicamente chi, pur essendone meritevole, non era in grado di sostenere le spese per iscriversi oppure proseguire gli studi, anche all’estero. Con il tempo, le attività s’intensificarono e divennero importanti strumenti di pressione. Furono spazi di discussione politica all’interno dei quali si formarono quelli che sarebbero diventati i futuri esponenti della classe dirigente nigeriana, che poterono qui elaborare con originalità valori e idee sull’ordine politico da raggiungere attraverso l’autodeterminazione e l’indipendenza. Molto spesso tali organizzazioni erano espressione di interessi economici di specifiche categorie di cittadini e lavoratori, donne commercianti, contadini, produttori e rivenditori, avvocati, medici, svolgendo in più di un caso attività direttamente sindacale.

Nel 1937, il peggioramento della situazione economica in Nigeria contribuì a ravvivare il fuoco nazionalista. In quell’anno le dieci principali imprese esportatrici europee presenti in Nigeria formarono un cartello per stabilire il prezzo massimo al quale acquistare del cacao. La reazione a quello che fu chiamato il West African Cocoa Pool fu spontanea e rabbiosa. I produttori di cacao e la classe media nigeriana organizzarono un boicottaggio delle imprese che facevano riferimento ai firmatari del Cocoa Pool e fu inviata una delegazione a Londra per chiedere la difesa degli interessi commerciali africani dal monopolio delle società britanniche. Al culmine delle mobilitazioni, il governo coloniale fu costretto a porsi come mediatore, stabilendo una commissione indipendente che supervisionasse le pratiche di compravendita del cacao e le esportazioni ripresero normalmente a partire dalla fine di aprile 1938. La protesta, in tutto il paese, fu animata da un’associazione politica nota come Nigerian Youth Movement (NYM, Movimento giovanile nigeriano).

Fondata nel 1934 con il nome di Lagos Youth Movement, fu una società che all’inizio ebbe un carattere soprattutto culturale, anche se cambiò ben presto il suo nome per dimostrare la volontà di coinvolgere tutto il paese quando iniziò una vera e propria attività politica. La NYM fu la prima organizzazione politica in senso stretto, realmente multi-etnica alla quale presero parte tutti gli esponenti nazionalisti e gli elementi politicamente più coscienti del paese. Furono fondate alcune sezioni locali nelle principali città del Nord come a Kaduna, Kano, Katsina e Maiduguri, anche se le sue attività si diffusero soprattutto nelle regioni meridionali della Nigeria, a Lagos e nelle città dell’ Eastern Region. Nell’insieme il NYM era, sia negli intenti sia nelle richieste, un’organizzazione dinamica che rappresentò la piattaforma delle maggiori rivendicazioni politiche. Tuttavia, essa rimase sempre controllata da una piccola élite di professionisti, soprattutto avvocati. Questi, infatti, erano gli unici, per la loro professione, a godere di una certa indipendenza e di un certo grado di sicurezza economica, aspetti entrambi estremamente preziosi in una società in cui la maggior parte delle carriere aperte alle persone d’ingegno si trovavano al servizio del dominatore coloniale. La predominanza di avvocati tra le fila dei nazionalisti, in questi primi momenti dell’organizzazione politica, era dovuta anche al fatto che essi, prima degli altri nigeriani, avevano imparato ad esprimersi nella lingua dei dominatori stranieri e, per il loro lavoro, si erano addestrati a trattare i problemi pratici legati all’ambito giuridico, quali per esempio quelli relativi alla proprietà della terra o alle libertà civili.

Il periodo della seconda guerra mondiale influì in modo decisivo sulle sorti del movimento nazionalista. Da un lato, infatti, la mobilitazione al fianco dello sforzo bellico britannico contribuì a impoverire ulteriormente i cittadini nigeriani; dall’altro, però, lo sforzo bellico aiutò allo sviluppo di nuove infrastrutture, come ferrovie, aeroporti, ospedali e accademie, funzionali al proseguimento della guerra. Durante il conflitto, le politiche economiche poste in essere dall’amministrazione coloniale mostrarono ancor di più ai produttori nigeriani la necessità dell’auto-governo e di farla finita con lo sfruttamento coloniale. Inoltre, il contributo apportato dalla Nigeria, in termini di soldati e mezzi economici, alla vittoria degli alleati sulle potenze dell’Asse convinse molti nigeriani che era giunto il momento di ottenere l’indipendenza. In questo senso, la fine del conflitto coincise con una ripresa del nazionalismo e delle tesi a favore dell’emancipazione. Questa, in fondo, doveva essere la logica conseguenza della partecipazione della popolazione africana allo sforzo bellico alleato. Tuttavia, al termine della guerra, i nigeriani si trovarono ad affrontare gli stessi problemi cui erano stati costretti prima: povertà (il costo della vita era aumentato del 200% rispetto al periodo pre-bellico, mentre i salari erano sostanzialmente rimasti fermi al livello del 1939) e repressione per mano di un disattento regime straniero. Nel 1945, i sindacati nigeriani che rappresentavano i funzionari dell’amministrazione pubblica chiesero perciò un aumento degli stipendi del 50%. Quando le loro richieste furono respinte, 17 diverse organizzazioni sindacali indissero uno sciopero generale che per 37 giorni fermò tutte le attività pubbliche. Lo sciopero si concluse quando il governo coloniale assicurò i lavoratori che le loro richieste sarebbero state accolte. Lo sciopero generale fu la dimostrazione, al governo coloniale ma anche agli stessi nigeriani, della maturità e della forza raggiunta dal movimento nazionalista, quando questo è capace di unirsi e organizzarsi su larga scala.

Lo sciopero generale, inoltre, segnò l’affermarsi sulla scena politica nigeriana di Nnamdi Azikiwe. Alla sua attività giornalistica attraverso il quotidiano West African Pilot e alla sua organizzazione fondata nel 1944 insieme a Herbert Macaulay, il National Council of Nigeria and the Cameroons (NCNC, Consiglio nazionale della Nigeria e del Camerun[52]), si deve infatti gran parte del merito per la riuscita delle mobilitazioni del 1945. Nato nel 1904, Azikiwe divenne il più influente nella nuova generazione di nazionalisti emersa nel corso degli anni Trenta. Figlio di un funzionario dell’amministrazione pubblica coloniale, Azikiwe si è laureato in scienze politiche negli Stati Uniti. Ritornato in Africa occidentale nel 1934, si stabilì in un primo tempo ad Accra prendendo parte attiva all’intenso movimento di idee in corso nella capitale costadoregna. Nel 1937 tornò in Nigeria, dove entrò a far parte del NYM e fondò il West African Pilot e una casa editrice, la “Zik Press”, attraverso la quale pubblicò il suo libro Renascent Africa, considerato tra i testi fondanti del nazionalismo dell’Africa occidentale. Le idee di Azikiwe, divenuto noto in tutto il paese con il nome di “il grande Zik”, assunsero in breve tempo a credo politico indipendente e furono a tal punto legate al suo autore che spesso il nazionalismo nigeriano finì con l’essere identificato con l’ideologia dello zikismo. Tuttavia, la maggior parte dei movimenti e dei partiti che si andarono formando a partire da questo momento si svilupparono su base regionale, identificando la politica stessa con l’appartenenza alla comunità d’origine e non permettendo uno sviluppo lineare di identificazione con concetti sovra etnici, come nazione o Stato.

V. Nasce lo Stato indipendente

Nel dicembre 1959, ancora sotto il dominio coloniale, si tennero le elezioni nazionali per determinare la formazione del futuro primo governo della Nigeria indipendente. Benché nessun partito riuscisse a ottenere la maggioranza assoluta, il sistema elettorale vigente premiò la coalizione formata dal Northern people’s congress (NPC, Congresso del popolo settentrionale, di tendenza conservatrice e aristocratica, che rappresentava soprattutto gli interessi degli hausa musulmani del nord) e dalla National convention of Nigerian citizens (NCNC, Convenzione nazionale dei cittadini nigeriani, il partito fondato da Azikiwe nel 1945 che cambiò nome in vista dell’indipendenza; pur essendo l’organizzazione più trans-etnica e permeata di valori nazionali pan-nigeriani, rappresentava sostanzialmente gli igbo cristiani del sud-est). L’ Action Group (AG, Gruppo d’azione, tendenzialmente di sinistra, con molti esponenti portavoce di una visione socialista e panafricanista della società nigeriana, guidato dal carismatico capo yoruba Obafemi Awolowo, raccoglieva in larga misura gli esponenti politici della regione Occidentale), che aveva scelto di non entrare nella coalizione insieme agli altri due principali partiti politici con la speranza di poter vincer da solo le elezioni grazie al proprio programma nazionalista e progressista, divenne la prima forza d’opposizione. Il leader del NPC Abubakar Tafawa Balewa, mantenne il ruolo di primo ministro, che occupava già dalle precedenti elezioni del 1957, mentre l’esponente di punta della NCNC, Nnamdi Azikiwe, ottenne il titolo puramente formale di primo “Governatore generale” indigeno della Nigeria, occupando il ruolo che all’inizio del secolo era stato di Lord Lugard ed entrando a far parte del Gabinetto della Corona britannica.

Come è già stato notato in precedenza, il problema principale della politica nigeriana è la scarsa distinzione tra interessi etnico-particolaristici e azione politica: nonostante le aspirazioni universalistiche, tutti i partiti, nella Nigeria immediatamente prima dell’indipendenza e poi in quella post-coloniale, rappresentavano un particolare gruppo etnico e gli interessi delle élite di quella data comunità piuttosto che una comune visione su questioni fondamentali della gestione dello Stato e della società, men che meno una medesima finalità politica. A tutto questo bisogna aggiungere che il sistema elettorale predisposto dalla Gran Bretagna favoriva singolarmente chi ottenesse la maggioranza nella regione Settentrionale, dove venivano assegnati in tutto 174 seggi su un totale di 312 con la motivazione che qui la popolazione era maggiore che altrove; i rappresentanti eleggibili nelle regioni Orientale e Occidentale erano invece rispettivamente 73 e 62, mentre altri tre seggi erano assegnati alla regione federale di Lagos.

In questa situazione, in cui una delle tre più importanti componenti etniche del paese non era affatto rappresentata nel governo e una coscienza nazionale nigeriana ancora non esisteva[53], il 1° ottobre 1960 la Nigeria fu dichiarata ufficialmente uno Stato indipendente nell’ambito del Commonwealth britannico e il 7 ottobre entrò a far parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Nonostante l’esistenza di una coalizione, lo spirito d’unità e collaborazione era ben poco evidente tra gli uomini al governo. L’euforia dell’indipendenza fu di breve durata perché le divisioni etniche create dall’amministrazione coloniale non erano affatto semplici da risolvere. Oltre all’assenza di un sentimento nazionale, i continui conflitti etnici aiutarono a far precipitare le speranze di integrazione e di sviluppo nazionale nel periodo immediatamente successivo all’indipendenza. Come si può ben intuire, la costruzione di un sentimento nazionale è un processo lento che ha bisogno della cooperazione di tutte le componenti etniche. Per modificare l’ideologia coloniale del “divide et impera”, sarebbe stato necessario costruire un nuovo atteggiamento e un nuovo orientamento politico.[54]

Al contrario, invece, la coalizione di governo fu dominata dagli esponenti del Nord del paese che dedicarono molta poca attenzione alle istanze presentate dai politici rappresentanti gli abitanti dell’Est e dell’Ovest, contribuendo a creare notevoli problemi a livello federale. Il governo federale guidato dal NPC nominò e promosse regolarmente personalità con scarse qualifiche ma provenienti dalla regione Settentrionale, piuttosto di assegnare tali incarichi a persone più qualificate originarie di altre regioni del paese. Poiché le identità locali erano più forti e sentite rispetto a qualsiasi idea di appartenenza nazionale, la paura principale di gran parte dei nigeriani negli anni Sessanta era quella che la propria regione fosse ‘dominata’ da qualcun altro. I meridionali dell’Est e dell’Ovest temevano l’egemonia da parte degli abitanti del Nord, e allo stesso tempo gli abitanti del Nord temevano il dominio da parte di quelli del Sud. Come sottolinea Toyin Falola, il governo guidato dal NPC poteva legittimamente argomentare di voler porre l’accento sullo sviluppo della regione Settentrionale, dopo che questa era stata per lungo tempo lasciata in uno stato di sostanziale abbandono e sottosviluppo durante tutto il periodo coloniale, ma tale argomentazione difficilmente aiutava a migliorare le relazioni con i compagni di coalizione della NCNC[55].

Le tensioni accumulate negli anni emersero esplicitamente nel 1962, quando si svolse il primo censimento della Nigeria indipendente, necessario per ridefinire quanti seggi in Parlamento spettassero a ciascuna regione. Tra continue e ripetute accuse di irregolarità, le operazioni di rilevazione della popolazione andarono avanti per due settimane, dal 13 al 29 maggio, prima che una crisi politica interna all’AG e poi tra il governo federale di Lagos e quello della regione Occidentale guidato dallo stesso AG portasse alla dichiarazione dello stato d’emergenza per sei mesi e alla sospensione del governo regionale. Al termine dei sei mesi, fu formato un nuovo governo della regione Occidentale in cui l’AG rappresentava solo un partito di minoranza, mentre numerosi esponenti dell’AG – tra i quali anche Obefemi Awolowo – furono messi agli arresti con l’accusa di corruzione e di alto tradimento per aver pianificato, con la complicità del presidente del Ghana Kwame Nkrumah, un tentativo di colpo di Stato contro il governo federale. L’anno successivo fu poi creata una nuova regione, denominata Mid-Western, sottraendo territori che facevano parte della regione Occidentale e creando una nuova entità nella politica nigeriana che frazionava la base elettorale dell’AG.

La creazione di nuove regioni era un obiettivo politico di quasi tutti i partiti nigeriani, con l’esclusione del NPC, a condizione però che tale operazione fosse realizzata a livello nazionale, che fosse cioè un’operazione riguardante l’intero territorio della Nigeria. A causare l’opposizione degli esponenti meridionali fu infatti l’impressione che in questo caso la creazione delle nuove regioni fosse più che altro una manovra voluta dal NPC con l’obiettivo di frazionare la base elettorale degli altri partiti, poiché era la regione Settentrionale ad essere il territorio più grande, occupando uno spazio ben più esteso delle due regioni meridionali messe insieme[56].

Il fallimento del censimento nel 1962 rese necessario ripetere la rilevazione statistica l’anno successivo, per consentire lo svolgimento delle elezioni legislative previste nel 1964 e stabilire l’ammontare del sostegno finanziario federale destinato allo sviluppo di ciascuna regione. Ma l’esito fu peggiore delle aspettative. Molti politici meridionali videro nel censimento la possibilità di riequilibrare l’assegnazione dei seggi parlamentari, dopo che nel 1952-53 era stato rilevato che il 54% della popolazione nigeriana abitava nel nord del paese. Poiché la raccolta dei dati era stata affidata a funzionari che intervistavano soltanto i capifamiglia, da ogni parte si denunciò la manipolazione dei computi sostenendo, per esempio, che molte persone erano state contate più volte o il numero dei componenti di alcuni nuclei era stato ingrandito. I primi conteggi riportavano una popolazione complessiva di circa 60 milioni e 500.000 abitanti, che gli ufficiali statistici considerarono però esageratamente elevata. Una valutazione successiva aggiornò il conteggio a 55 milioni e 670.000 abitanti, 29 milioni e 800.000 dei quali nella regione Settentrionale. Questo calcolo fu ritenuto finalmente valido e trasmesso al governo federale, che lo approvò e poté mantenere invariata la distribuzione dei seggi parlamentari. La polemica sul numero reale degli abitanti della Nigeria tuttavia proseguì e divenne una costante del dibattito politico, con gli esponenti della NCNC che accusavano pubblicamente i rappresentanti del NPC di frode nei confronti dell’intera popolazione nigeriana[57].

VI. Le crisi elettorali del 1964 e 1965

Le elezioni federali, che si svolsero nel dicembre 1964, videro opposte l’una all’altra due coalizioni che raggruppavano i principali partiti. Da una parte, era la Nigerian National Alliance (NNA, Alleanza nazionale nigeriana), composta dal NPC, da esponenti conservatori fuoriusciti dall’AG dopo la crisi del ’62 e da alcuni partiti d’opposizione rappresentanti le minoranze etniche della regione Orientale e del Midwest. Dall’altra, era la United Progressive Grand Alliance (UPGA, Grande alleanza progressista unita), che riuniva la NCNC, i membri rimasti nell’AG e due partiti rappresentanti alcune comunità della regione Settentrionale. Se il programma della NNA era incentrato sul vantaggio di proseguire il progetto di governo avviato negli anni precedenti e sulla denuncia delle smanie di potere da parte degli igbo della NCNC, l’UPGA proponeva invece un manifesto riformista basato sulla creazione di nuovi stati che riflettessero meglio l’appartenenza etnica e sull’introduzione di un’economia pianificata incentrata sull’intervento pubblico ma che, al tempo stesso, favorisse anche gli investimenti privati. Nonostante gli appelli alla moderazione, però, la campagna elettorale fu segnata da violenze, caos e intimidazioni.

Le elezioni, previste inizialmente per l’inizio di dicembre, furono rinviate di settimana in settimana fino al 30 del mese a causa di discrepanze tra i nomi indicati nel censimento e quelli di chi si era iscritto nei registri elettorali, ma anche dei continui episodi di violenza che interessarono tutto il paese, da nord a sud. Le decisioni finali della commissione federale sui registri elettorali e sulla distribuzione dei candidati nelle diverse circoscrizioni non furono accettate dall’UPGA, che invitò i propri elettori a boicottare il voto. Nella regione Orientale, il boicottaggio si rivelò concretò: nelle circoscrizioni dove i candidati dell’UPGA si dovevano confrontare con esponenti della NNA i seggi non furono neanche aperti, mentre le operazioni di voto si svolsero regolarmente laddove i candidati dell’UPGA non avevano avversari. Tuttavia, le continue accuse di brogli e abusi avevano così disilluso la popolazione nigeriana sull’impegno dei loro rappresentanti politici, che meno di quattro milioni di persone – su un totale di 15 milioni di aventi diritto al voto – si recarono alle urne. Il boicottaggio voluto dall’UPGA non riuscì tuttavia a impedire lo svolgimento delle elezioni, che furono giudicate regolari dalla commissione elettorale, e la coalizione della NNA guidata dal NPC si impose vincitrice. I risultati furono duramente contestati dall’UPGA e lo stesso Azikiwe, che nell’ottobre 1963 era diventato il primo presidente della Federazione nigeriana, di origine igbo e tra i ‘padri nobili’ dell’UPGA, tergiversò a lungo prima di affidare l’incarico di formare il nuovo governo all’ex primo ministro Balewa.

La fiducia dei nigeriani verso il proprio sistema di governo, già minata dopo le elezioni del 1964, fu definitivamente compromessa in seguito alle elezioni locali dell’ottobre 1965 nella regione Occidentale, la cui campagna elettorale fu, in fondo, una replica su scala locale di quella per il voto federale. L’etnicità si rivelò l’argomento centrale dei discorsi dei diversi candidati, che assunsero toni sempre più esasperati. Il clima era talmente teso che il governo regionale uscente si trovò costretto a proibire comizi e raduni per tutto il periodo della campagna elettorale, costringendo i candidati a promuoversi porta a porta. Tutte queste precauzioni, tuttavia, non furono sufficienti a impedire il verificarsi di violenze e intimidazioni. Le relazioni sulla giornata delle elezioni, svoltesi l’11 ottobre, riportano numerosi episodi di votazioni multiple, di pacchi di schede sparite e di minacce e percosse nei confronti degli attivisti dell’UPGA. Quando furono diffusi i risultati preliminari, entrambe le coalizioni si dichiararono vincitrici sostenendo l’inaffidabilità della parte avversaria, ma poiché la macchina regionale era saldamente nelle mani di funzionari e burocrati legati alla NNA la vittoria fu assegnata al candidato del Nigerian National Democratic Party (NNDP, composto dai fuoriusciti dall’AG alleatisi con la NPC). Nei giorni successivi, il candidato dell’UPGA e altri esponenti della sua coalizione furono arrestati con l’accusa di aver ignorato i risultati ufficiali e aver formato un governo ad interim illegittimo. Gli evidenti brogli elettorali[58] spinsero la popolazione a scendere in strada per protestare e la rivolta si estese rapidamente anche nella vicina regione del Mid-Western e in quella Orientale. Per due mesi, le regioni meridionali della Nigeria si trasformarono in un campo di battaglia, dove alle forze di polizia e ai militari fedeli al governo guidato dalla NPC si opponevano i sostenitori e milizie armate legate all’UPGA, che assaltavano le sedi del NNDP e “davano la caccia” agli hausa-fulani insediatisi nel Sud[59] e agli yoruba sospettati di stare al loro fianco. La risposta del governo federale fu una repressione senza precedenti, che non fece altro che incendiare ulteriormente gli animi e fomentare il caos e il disordine nelle regioni meridionali.

Il problema fondamentale della politica nigeriana, secondo gran parte degli studiosi[60], era in particolare il poco equilibrio interno alla struttura della Federazione, la carenza di una cultura dell’opposizione e la scarsa volontà da parte della classe politica nigeriana di proseguire, o cominciare, un reale processo di costruzione nazionale. Come più volte sottolineato, se dal punto di vista territoriale e in termini di percentuale della popolazione – quindi di conseguenza per rappresentanza al parlamento federale – vi prevalevano i rappresentanti del Nord islamico, cioè della regione economicamente e socialmente meno sviluppata, la quasi totalità delle attività produttive e il monopolio delle competenze tecniche e accademiche erano invece gestiti e controllati dalle popolazioni del Sud. Questo squilibrio si riproponeva anche all’interno della struttura dell’esercito, dove gli alti ufficiali provenivano prevalentemente dal Sud mentre i soldati semplici erano in gran parte originari del Nord. Infine, ad aggravare ulteriormente le tensioni politiche era stata, a partire dalla metà degli anni Sessanta, la competizione sorta intorno al controllo dei proventi dell’estrazione del petrolio, scoperto nel delta del Niger.

VII. Il “golpe dei cinque maggiori” e il contro-golpe di luglio 1966

Di fronte all’incapacità del ceto politico di gestire la situazione di disordine creatasi a livello federale, un gruppo di ufficiali dell’esercito nigeriano, la maggior parte dei quali – anche se non tutti – di origine igbo, decise di prendere il potere. Fu così, tra il 14 e il 15 gennaio 1966, che terminò la prima repubblica nigeriana e cominciò la lunga sequela di colpi di Stato militari che caratterizza la storia recente del paese. Il primo di questi sarà ricordato come il “golpe dei cinque maggiori”, poiché a guidarlo erano cinque ufficiali con questo grado, di stanza a Kaduna, il capoluogo della regione Settentrionale. Durante un messaggio radiofonico diffuso in tutto il paese, i militari golpisti riferirono di aver preso il potere ed aver eliminato i responsabili del caos, sostenendo che il loro obiettivo non voleva essere altro che la fine del tribalismo e della corruzione che avevano caratterizzato la repubblica sin dalla sua indipendenza. Nonostante i militari ribelli avessero ucciso il primo ministro federale Balewa e molti altri capi politici della NNA ritenuti responsabili delle frodi elettorali del 1964 e del 1965, il colpo di Stato si rivelò immediatamente un fallimento totale, a causa soprattutto dell’assenza di un disegno politico ben definito per il mantenimento del potere. I golpisti, infatti, non riuscirono ad assicurarsi il controllo dei principali centri nel sud del paese, né a mantenere le posizioni occupate nella regione Settentrionale, da cui avevano preso le mosse.

Per ristabilire un ordine, il comandante in capo dell’esercito, il generale Johnson Aguiyi-Ironsi, un ufficiale igbo che era stato nominato a tale incarico nel 1964 da Balewa, richiese i pieni poteri affermando di volerli mantenere soltanto “il tempo necessario per redigere una costituzione che fosse in accordo con i desideri di tutto il popolo della Nigeria”[61]. Nonostante secondo alcuni documenti riservati del Commonwealth Relations Office di Londra resi noti solo recentemente sembri palese che il governo inglese non fosse a conoscenza del ‘golpe dei cinque maggiori’, funzionari e diplomatici britannici in Nigeria si adoperarono da subito per riorganizzare l’esercito federale e assicurare il ristabilimento dell’ordine garantendo il passaggio del potere dal governo civile agli alti comandi militari, aiutando Ironsi a consolidare la propria autorità a detrimento degli ufficiali golpisti[62]. Poiché il generale Ironsi era un igbo originario della regione Orientale, non tutti gli storici concordano sulla genuinità e la spontaneità del ‘golpe dei cinque maggiori’, sostenendo che questi sarebbero stati, inconsapevolmente o meno, lo strumento di un disegno pianificato dallo stesso Ironsi, che avrebbe preferito non esporsi in prima persona, per conquistare il governo[63]. A sostegno di tale ipotesi, secondo questa tesi, è la resa immediata, già il 16 gennaio 1966, dei cinque maggiori a Ironsi, che quello stesso giorno invitò i ministri federali superstiti a consegnargli le leve del potere autonominandosi capo dello Stato, e il mancato processo per tradimento ai militari golpisti. Ironsi inaugurò il nuovo regime emanando il “Decreto n. 1”, con il quale emendò la costituzione e sospese quelle parti in cui trattava di potere civile e funzioni dei rappresentanti eletti e poté trasferire i poteri legislativo ed esecutivo al capo dello Stato, cioè a sé, e ai nuovi governatori militari delle regioni, che provvide subito a nominare. Tra i nuovi governatori militari, il tenente colonnello Emeka Ojukwu, di 32 anni, che fu insediato al comando della regione Orientale, mentre il tenente colonnello Yakubu Gowon, che aveva 31 anni, fu nominato capo di stato maggiore dell’esercito. Il primo “decreto sulla Costituzione” prevedeva, inoltre, la messa fuorilegge di tutti i partiti politici e delle associazioni tribali, la creazione di un Supreme Military Council (SMC, Consiglio militare supremo) che aveva la funzione di assistere il capo dello Stato nelle decisioni da prendere e il provvedimento con cui fu stabilito che i decreti emessi erano superiori a qualsiasi altra legislazione civile e perciò inappellabili.

In un primo tempo, il colpo di Stato e la conquista del potere da parte dei militari fu salutata in modo positivo dalla popolazione, in particolare nelle regioni meridionali: il caos e i disordini seguiti alle elezioni del 1964 e a quelle del 1965 avevano infatti spaventato e disorientato l’opinione pubblica, spingendo nei mesi successivi numerosi intellettuali ed esponenti della società civile a invocare esplicitamente l’intervento dei militari per ristabilire la pace sociale e il rispetto delle regole democratiche. Tuttavia, una serie di misure intraprese da Ironsi nella prima metà del 1966 contribuirono a modificare l’immagine che i nigeriani si erano costruiti dei propri ufficiali. A causare la rottura definitiva fu l’emissione del famigerato decreto n. 34 del 24 maggio 1966, con il quale il generale abolì ufficialmente l’apparato federale dello stato rimpiazzandolo con un sistema unitario: la struttura regionale della Nigeria cessò di esistere, sostituita da “un certo numero di aree territoriali chiamate province”[64], mentre i governatori militari entravano a far parte del neonato Executive Council (EC, Consiglio esecutivo che prendeva il posto del precedente SMC).

L’abolizione della Federazione fu vissuta in tutto il paese come un tentativo di accentramento del potere nelle mani di una sola persona, ma fu soprattutto nella regione Settentrionale che la decisione fu considerata la conferma della volontà da parte degli igbo di monopolizzare il potere politico e al colpo di Stato militare venne data una lettura etnica. Il timore che il Nord fosse comandato e amministrato da ufficiali e burocrati provenienti dalle regioni meridionali portò perciò molti militari settentrionali ed esponenti delle élite locali al disincanto e all’aperta opposizione verso il governo di Ironsi. Come conseguenza immediata alla proclamazione dello Stato unitario, nel Nord del paese si scatenò un clima di violenza segnato da una serie di ‘pogrom’ ai danni degli igbo ivi stabilitisi, che raggiunsero il loro apice nella notte tra il 29 e il 30 maggio[65], e di agguati mirati ai danni di ufficiali di origine meridionale stanziati nelle caserme del Nord da parte di loro sottoposti settentrionali. Infine, per evitare di perdere altre posizioni di potere, il 29 luglio un gruppo di ufficiali della regione Settentrionale realizzò un golpe contro il generale Ironsi, che fu catturato a Ibadan, dove si trovava per una riunione con i capi tradizionali locali, e fucilato lo stesso giorno dopo un processo sommario durante il quale fu ritenuto colpevole di complicità nel ‘golpe dei cinque maggiori’ del 14-15 gennaio.

Il colpo di Stato del 29 luglio fu feroce e sanguinario tanto quanto quello di gennaio: se nel primo le vittime furono soprattutto esponenti politici e militari originari della regione Settentrionale, durante il secondo la maggior parte dei morti si registrano tra gli ufficiali delle regioni meridionali che avevano appoggiato il generale Ironsi. Per tre giorni il paese rimase privo di governo e senza un capo dello Stato: il generale Ironsi era ufficialmente “sparito” e la sua morte sarà annunciata pubblicamente solo molto più tardi[66], figurando anche tra i successivi motivi alla base della crisi istituzionale tra regione Orientale e governo federale. Come sarà in seguito dimostrato, l’obiettivo iniziale degli ufficiali settentrionali era la secessione del Nord dal resto della federazione nigeriana, ma furono sconsigliati dal perseguire tale obiettivo da alti funzionari e burocrati nigeriani, come anche da emissari dei governi inglese e americano, che fecero notare loro che un Nord senza accesso al mare e privo delle risorse petrolifere del delta del Niger non avrebbe avuto nessuna importanza sullo scacchiere internazionale[67]. Perciò, il 1° agosto 1966 i responsabili del golpe decisero di nominare il tenente colonnello Gowon nuovo “Comandante supremo” delle forze armate. Gowon era un ngas (o angas) originario di Lur, un piccolo villaggio nel Middle Belt, cioè di quella parte della regione Settentrionale da dove proveniva la maggioranza delle truppe in forza all’esercito, ma era in ogni caso assistito da importanti ufficiali, come il maggiore Hassan Katsina, governatore militare della regione Settentrionale, e il maggiore Murtale Mohammed, che avevano organizzato il contro-golpe del 29 luglio e garantivano la lealtà delle élite hausa-fulani.

Durante il suo discorso di insediamento, Gowon – che presto sarebbe stato promosso al grado di generale – si affrettò ad annunciare la revoca del Decreto n. 34, con il quale Ironsi aveva abrogato il sistema federale, dichiarando che

In base ai recenti avvenimenti e dei precedenti simili, sono giunto alla ferma convinzione che non possiamo onestamente e sinceramente continuare in questo modo, poiché le basi per la speranza e la fiducia nel nostro sistema unitario di governo sono state incapaci di superare la prova del tempo. Ho già ricordato la questione. Sia sufficiente dire che mettendo alla prova tutte le considerazioni, politiche, economiche così come sociali, non ci sono le basi per l’unità, o quanto meno sono state talmente sconvolte, non una ma più volte. Io sento perciò che dovremmo rivedere la questione della nostra appartenenza nazionale e vedere se possiamo aiutare a fermare il paese dal frazionarsi attraverso una distruzione totale.[68]

È la penultima frase del discorso di Gowon quella che maggiormente ha attirato l’attenzione degli studiosi. Secondo Forsyth[69], infatti, non sarebbe grammaticalmente compiuta in lingua inglese, come se fosse stata semplicemente tagliata la proposizione consecutiva. In base all’interpretazione dell’autore inglese, ripresa poi da altri commentatori e studiosi, il discorso di Gowon doveva in un primo tempo annunciare la separazione del Nord, che però sarebbe stata accantonata dopo un intervento esterno giunto all’ultimo minuto. A sostegno di questa tesi, vi è anche la testimonianza del maggiore Adewale Ademoyega, tra i protagonisti del ‘golpe dei cinque maggiori’ del 14-15 gennaio, che nelle sue memorie ricorda impressioni e racconti di persone presenti alle riunioni precedenti alla nomina di Gowon, durante le quali sarebbero state prese in considerazione le osservazioni degli emissari britannici[70]. Inoltre, secondo un Colonial Office Memorandum privo di data, citato dallo storico nigeriano Chibuike Uche, “il giorno prima del discorso alla nazione di Gowon, l’Alto Commissario britannico e l’ambasciatore statunitense ‘hanno promosso un’iniziativa comune […] per assicurarsi che il colonnello Gowon fosse pienamente cosciente degli effetti negativi della secessione sull’economia del Nord’”[71]. Quindi, dopo aver compreso l’irrealizzabilità, o la poca opportunità, di una secessione della regione Settentrionale dal resto della Nigeria, i generali golpisti propesero per una nuova forma di governo confederale, in cui due o più Stati autonomi avrebbero potuto condividere le risorse e i benefici economici, senza entrare in crisi l’un l’altro a causa delle incompatibilità etniche e delle rispettive brame di potere. Nei loro piani, insomma, si trattava di ricomporre le ferite causate dall’odio reciproco e assicurare l’unità dello Stato, ma soprattutto del mercato nigeriano, garantendo le rispettive diversità: un obiettivo caro soprattutto alla Gran Bretagna, che avrebbe potuto in questo modo salvaguardare più facilmente i propri interessi economici. Da questo momento in poi, però, lo svolgimento degli eventi subisce una rapida accelerazione.

[...]


[1] Dalla voce BIAFAR in Encyclopaedia Britannica, vol. III. London, Bell a. Macfarquhar, 1797.

[2] The National Archives at Kew, London (d’ora in avanti NA). FCO 95/225. Nigeria: 'Markpress' news feature service involvement with Biafra, 1 gennaio 1968 – 31 dicembre 1968.

[3] Definito nella letteratura medica tradizionale italiana come “marasma infantile”, è un tipo di malnutrizione causata dall’insufficiente apporto di proteine che colpisce soprattutto i bambini tra 1 e 4 anni di età. I sintomi includono un addome gonfio noto come “pancia a pentola”, una decolorazione rossiccia dei capelli e la depigmentazione della pelle.

[4] De Waal (Alexander). Famine Crimes: politics & the disaster relief industry in Africa. London, African Rights a. James Currey, 1997, p. 74.

[5] Finucane (Aengus). “The Changing Role of Voluntary Organizations”, in A Framework for Survival: health, human rights, and humanitarian assistance in conflicts and disasters. Edited by Kevin M. Cahill. New York, BasicBooks a. Council on Foreign Relations, 1993, pp. 245-256.

[6] Polman (Linda). L’industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra. Milano, Bruno Mondadori, 2009.

[7] Costa Longeri (Roberto). Dialoghi africani. Sulle tracce dell’Africa della negritudine. Empoli, Ibiskos, 2009, p. 9.

[8] Ivi, p. 73.

[9] Ziegler (Jean). L’odio per l’Occidente. Milano, Marco Tropea, 2010, p. 136.

[10] Said (Edward W.). Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente. Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 269-271.

[11] Mastrogregori (Massimo). Occidente e Oriente. Mimesis di Erich Auerbach (1946) e Orientalismo di Edward W. Said (1978). Lezioni 2006-2007. Roma, s.i.p., p. 306.

[12] Bosch (Alfred). “The Leopard’s Skin”, in L’etnia fra «invenzione» e realtà. Storia e problematiche di un dibattito. A cura di Claudio Moffa. Torino, L’Harmattan, 1999, p. 38.

[13] Hegel (Friedrich). Lezioni sulla filosofia della storia. Bari, Laterza, 2010, p. 136.

[14] Tra i suoi numerosi lavori, cito Africa: The Politics of Independence, pubblicato nel 1961 a New York per i tipi di Vintage Books.

[15] Chabal (Patrick), Daloz (Jean-Pascal). Africa Works: Disorder as Political Instrument. Oxford, James Currey, 1999, p. 58.

[16] Sen (Amartya). Identity and Violence. The Illusion of Destiny. New York, Norton, 2006, pp. 4-5.

[17]“Introduzione”, in L’invenzione dell’etnia. A cura di Jean-Loup Amselle e Elikia M’Bokolo. Roma, Meltemi, 2008, p. 8.

[18] Bernardi (Bernardo). “Il fattore etnico: dall’etnia all’etnocentrismo” . Ossimori, 1994, 4, pp. 13-25. – Idem. “Etnia, etnicità, educazione etnica” . Ossimori, 1995, 7, pp. 11-18.

[19] Alberto Sobrero, nei suoi corsi di antropologia all’Università La Sapienza di Roma, ha affermato che l’etnia come termine evocativo è un sinonimo riduttivo di popolo-nazione, un concetto quest’ultimo che però non si poteva applicare ai territori africani perché “troppo nobile, troppo carico di storia; la nozione di etnia sembrò più adatta, più vicina alla natura”.

[20] Vansina (Jan). Oral traditions: a study in historical methodology. London, Routledge & Kegan Paul, 1967; Idem. Oral tradition as history. Madison, University of Wisconsin Press, 1985.

[21] Hobsbawm (Eric J.). “Introduzione: come si inventa una tradizione”. In L’invenzione della tradizione. A cura di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger. Torino, Einaudi, 1994, p. 7.

[22] Ranger (Terence). “L’invenzione della tradizione nella Africa coloniale”, in ivi, p. 212.

[23] Anderson (Benedict). Comunità immaginate. Origini e fortune dei nazionalismi. Roma, manifestolibri, 1996, p. 158.

[24] Oliver (Roland). The African Experience: major themes in African history from earliest time to the present. New York, Icon a. Harper Collins, 1991, p. 165.

[25] Il romanzo pubblicato nel 1958 a Londra per i tipi di William Heinemann trae il suo titolo originale da un verso di una poesia dell’irlandese William Butler Yeats; è stato tradotto in italiano come “Il crollo” ed edito nel 1990 da Arnoldo Mondadori, nel 1994 da Jaca Book e nel 2006 da E/O. Attualmente è fuori commercio.

[26] Nwauwa (Apollos O.). “On Aro Colonial Primary Source Material: A Critique of the Historiography” . History in Africa, 1992, 19, pp. 377-378.

[27] Ivi, p. 379.

[28] Ivi, p. 382.

[29] Nigeria: a country study. Edited by Helen Chapin Metz. Washington D.C., Library of Congress, 1992, pp. 28-38. – Kaden (Wolfgang). Das nigerianische Experiment. Demokratie und nationale Integration in einem Entwicklungsland. Hannover, Verlag für Literatur und Zeitgeschehen, 1968, pp. 45-48. – King (Mae C.). Localism and Nation Building. Ibadan, Spectrum, 1988, pp. 32-45.

[30] Nnoli (Okwudiba). Ethnic Politics in Nigeria. Enugu, Fourth Dimension, 1978, p. 117.

[31] Gentili (Anna Maria). Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana. Roma, Carocci, 1995, p. 220.

[32] Alonge (Felix K.). Principles and Practice of Governing of Men: Nigeria and the World in Perspective. Ibadan, University Press PLC, 2005, p. 357.

[33] Ivi, p. 358.

[34] Emiliani (Marcella). Petrolio, forze armate e democrazia: il caso Nigeria. Bologna, il Mulino, 2007, p. 40.

[35] Dati del “Population Census of the Northern, Oriental and Western Regions of Nigeria, 1952”, citati in Coleman (James S.). Nigeria: Background to Nationalism. Berkeley, University of California Press, 1971, p. 133.

[36] Daget (Serge). La traite des Noirs. Bastilles négrières et velléités abolitionnistes. Paris, Ouest-France Université, 1990, p. 153.

[37] Klein (Herbert S.). The Atlantic Slave Trade. Cambridge a. New York, Cambridge U.P., 2007, p. 99.

[38] Lovejoy (Paul E.). Transformations in Slavery. A History of Slavery in Africa. Cambridge a. New York, Cambridge U.P., 2000, p. 51.

[39] Ivi, p. 140.

[40] Du Bois (W.E. Burhardt). The Negro. Charleston, BiblioBazaar a. LLC, 2008, pp. 107-118.

[41] Jaffe (Hosea). Tribalismo e colonialismo: la Nigeria. Milano, Jaca books, 1969, p. 33.

[42] Lovejoy (Paul E.). Transformations in Slavery. cit., pp. 10-15.

[43] Ivi, p. 44.

[44] Dike (Enwere). Economic Transformation in Nigeria: Growth, Accumulation and Technology. Zaria, Ahmadu Bello U.P., 1991, pp. 113-121.

[45] Ivi, pp. 121-122.

[46] Badru (Pade). Imperialism and Ethnic Politics in Nigeria. Trenton, Africa World Press, 1998, p. 49.

[47] Calloway (Barbara). “The Political Economy of Nigeria”, in The Political Economy of Africa. Edited by Richard Harris. Cambridge, Schenkman, 1975, p. 103.

[48] Akinyele (Rufus T.). “Ethnicity, religion and politics in Nigeria”, in The Amalgamation and its Enemies. An Interpretative History of Modern Nigeria. Edited by Richard A. Olaniyan. Ile-Ife, Obafemi Awolowo U.P., 2003, pp. 141-142.

[49] Citato in Arikpo (Okoi). The Development of Modern Nigeria. Harmondsworth, Penguin Books, 1967, p. 56.

[50] Coleman (James S). Nigeria: background to nationalism. Berkeley, University of California Press, 1971, p. 197.

[51]“Obnoxious ordinances” è il nome con cui Nnamdi Azikiwe definì una serie di disposizioni sulla proprietà delle terre e sullo sfruttamento delle risorse minerarie della Nigeria, approvate nell’aprile 1945 dalla Corona britannica.

[52] Il nome del partito fondato da Azikiwe include anche il Camerun perché, dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale e la firma del trattato di Versailles nel 1919, la colonia tedesca del Camerun fu divisa su mandato della Società delle Nazioni tra Francia e Gran Bretagna. Un quinto del territorio camerunense (la parte contigua alla Nigeria, alla quale venne unito) venne assegnato alla Gran Bretagna, e i rimanenti quattro quinti alla Francia. Per lungo tempo, i camerunensi hanno lamentato di essere diventati di fatto una trascurata “colonia di una colonia”. Nel 1961, in seguito a un referendum organizzato dall’ONU, il Camerun britannico si divise in due parti: la regione settentrionale, musulmana, rimase unita alla Nigeria, mentre quella meridionale, cristiana e animista, si unì al Camerun orientale francese dando vita alla Repubblica federale del Camerun.

[53] Come scrive Michael Omolewa in un testo che è stato spesso utilizzato nei corsi di storia delle università nigeriane, “Nel 1960, quando la Nigeria divenne indipendente, una nazione nigeriana ancora non esisteva. Al contrario, ogni regione diffidava del proprio vicino”. Omolewa (Michael). Certificate History of Nigeria. London a. Lagos, Longman, 1986, p. 197.

[54] Adekunle (Julius O.). “Nationalism, Ethnicity, and National Integration: an Analysis of Political History”, in The transformation of Nigeria: essays in honor of Toyin Falola. Edited by Toyin Falola and Adebayo Oyebade. Trenton, Africa World Press, 2002, p. 418.

[55] Falola (Toyin), Heaton (Matthew M.). A History of Nigeria. Cambridge a. New York, Cambridge U.P., 2008, pp. 166-167.

[56] Onabamiro (Sanya). Glimpses into Nigerian History. Yaba a. Ibadan, Macmillan Nigeria, 1983, p. 156.

[57] Nigeria: a country study. cit. p. 52.

[58] Falola (Toyin), Heaton (Matthew M.). A History of Nigeria. cit., p. 171

[59] Ibid.

[60] Falola (Toyin), Heaton (Matthew M.). A History of Nigeria. cit., pp. 164-172 – Omolewa (Michael). Certificate History of Nigeria. cit., pp. 196-200 – Emiliani (Marcella). Petrolio, forze armate e democrazia. cit., pp. 70-73 – Gentili (Anna Maria). Il leone e il cacciatore. cit., pp. 353-354.

[61] Citato in Osaghae (Eghosa). Crippled Giant: Nigeria since Independence. London, Hurst, 1998, p. 57.

[62] Uche (Chibuike). “Oil, British Interests and the Nigerian Civil War ”. Journal of African History, 2008, 49, p. 117.

[63] Tra chi sostiene l’ipotesi che il golpe del 14-15 gennaio sarebbe stato orchestrato dagli igbo per impadronirsi del potere, cito: Mainasara (Abdullahi Mohammed). The Five Majors: Why They Struck. Zaria, Hudahuda, 1982 e Muffett (David J.). Let Truth be Told: the coup d’état of nineteen sixty-six. Zaria, Hudahuda, 1982. Di parere contrario, invece, Gbulie (Ben). Nigeria’s Five Majors: coup d’état of 15th January 1966, first inside account. Onitsha, Africana Educational, 1981.

[64] Dal discorso radiofonico intitolato “The Regions are Abolished” e trasmesso il 24 maggio 1966, con cui il generale Ironsi annunciò al paese l’introduzione del Decreto n. 34. Citato in Kirk-Greene (Anthony Hamilton Millard). Crisis and Conflict in Nigeria. A Documentary Sourcebook 1966-1969. Volume 1, January 1966-July 1967. London, Oxford U.P., 1971, pp. 174-177.

[65] Secondo l’inviato del quotidiano britannico Daily Telegraph, David Loshak, le vittime igbo nell’ultima settimana di maggio 1966 sarebbero state più di 600, mentre il bilancio ufficiale governativo riferisce di 92 morti accertate. Per i suoi articoli, Loshak sarà rimpatriato in Inghilterra dal governo di Ironsi durante la prima settimana di giugno.

[66] Luckham (Robin). The Nigerian Military. A Sociological Analysis of Authority and Revolt, 1960-1967. London a. New York, Cambridge U.P., 1971, pp. 68-69.

[67] Badru (Pade). Imperialism and Ethnic Politics in Nigeria. cit. p. 76 – Kirk-Greene (Anthony H.M.). Crisis and Conflict in Nigeria. Vol. 1. cit., pp. 54-55 – de St. Jorre (John). The Brother’s War: Biafra and Nigeria. Boston, Houghton Mifflin, 1972, p. 73 – Forsyth (Frederick). The Biafra Story. The Making of an African Legend. Barnsley, Pen & Sword, 2007, pp. 51-52, pp. 154-158 – Boutet (Rémy). L’effroyable guerre du Biafra. Paris et Dakar, Chaka, 1992, p. 68.

[68] Dal discorso radiofonico intitolato “No Trust or Confidence in a Unitary System of Government” e trasmesso il 1° agosto 1966, con cui il tenente colonnello Gowon annunciava di essere stato nominato capo dell’esercito e dello Stato dal SMC. Citato in Kirk-Greene (Anthony H.M.). Crisis and Conflict in Nigeria. Vol. 1. cit., pp. 196-197.

[69] Forsyth (Frederick). The Biafra Story. cit., p. 53.

[70] Ademoyega (Adewale). Why We Struck. The Story of the First Nigerian Coup. Ibadan, Evans, 1981, pp. 120-122.

[71] Uche (Chibuike). “Oil, British Interests and the Nigerian Civil War”. cit., p. 119.

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Detalles

Título
Le narrazioni del Biafra
Subtítulo
Immagine e storiografia della guerra civile nigeriana
Universidad
University of Rome "La Sapienza"  (Facoltà di Lettere e Filosofia)
Curso
Storia della storiografia
Calificación
1,0
Autor
Año
2011
Páginas
164
No. de catálogo
V193374
ISBN (Ebook)
9783656186458
ISBN (Libro)
9783656187288
Tamaño de fichero
1459 KB
Idioma
Italiano
Notas
Palabras clave
Biafra, guerra civile nigeriana, Nigeria, Nigerianischer Bürgerkrieg, Afrika, Post-Kolonialismus, Geschichtsschreibung, Historiographie, Storiografia
Citar trabajo
Michele K. Vollaro (Autor), 2011, Le narrazioni del Biafra, Múnich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/193374

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