Tecnologia ed arte del Levante in Europa nei secoli xv-xvii

PROBLEMI DI ATTRIBUZIONE E DI TUTELA


Redacción Científica, 2009

32 Páginas, Calificación: sehr gut


Extracto


Indice

Introduzione

I. Problemi di attribuzione
L’Europa dell’Est e dell’Ovest
La questione dell’origine etnica
Le implicazioni politiche
La catalogazione: metodi e strumenti analitici
Le fonti scritte di carattere tecnico

II. I reperti materiali
I cuoi con vernici trasparenti colorate
Tecniche e materiali.
Cuoridoro ebraici
Seta ebraica
La seta dorata a stampa
Lo stile bizzarro
Ornamenti
Cuoridoro armeni

III. La tutela
Bibliografia
Cirillico
Latino

Illustrazioni

Introduzione

A quanto emerge dai documenti storici, già nell’antichità le migrazioni dei popoli orientali portarono nella nuova patria in Europa una cultura materiale superiore all’indigena. Tra i suoi principali benefici furono la messa in piedi di sconosciute al Vecchio Continente industrie e tecnologie, nel cui ambito presero via fiorenti scambi commerciali ed approfondite conoscenze merceologiche. Il fascino dei nuovi prodotti non solo influì a fondo i gusti dei paesi europei, ma scaturì la voglia di imitarli e, in linea generale, favorì l’avvio di processi innovativi nella produzione tradizionale.[1] In determinati periodi del cinquecento e del seicento, manifatture come la vetreria, la smaltatura, l’oreficeria, la lavorazione delle pietre preziose, della seta e del cuoio, o la tintura e la stampa, grazie a complessi rapporti produttivi e al commercio, divennero così prospere da facilitare le economie locali nel resistere alle crisi e alla concorrenza. Tuttavia, nonostante che la vastità dei tentativi di penetrare nel sapere tecnico orientale fosse stata utile come incentivo per lo sviluppo tecnologico degli stati europei, i risultati, tutto sommato, rimasero irregolari e modesti. Sebbene verso la fine del secolo XVIII gli occidentali iniziarono ad acquisire vantaggi competitivi e svilupparono procedimenti che permisero loro di produrre beni “simili” agli originali levantini o asiatici,[2] fonti scritte e materiali testimoniano inequivocabilmente che in Europa, le produzioni innovative non potrebbero mai essere state sviluppate senza la diretta partecipazione degli abili artigiani orientali. In primo luogo per la mancanza delle millenarie conoscenze e tradizioni nell’applicarle. Un altro fattore chiave rappresentano, a tutt’oggi, le risorse naturali, più precisamente le difficoltà, per gli europei, di conoscere[3] e d’approvvigionarsi delle esotiche materie prime utilizzate nelle originali tecnologie dell’Oriente. In linea generale, il “boom industriale”, che consentì agli europei di resistere alla concorrenza dell’Oriente durante il periodo coloniale basa su diversi tipi di risorse e metodi produttivi. Essi potrebbero essere sommariamente determinati come sintetici (per Europa) in confronto con quelli prevalentemente d’origine naturale, impiegati nell’Oriente. Per questo motivo, ogni tentativo di comparare entrambe le economie, produce dei risultati estremamente relativi: la retro-faccia della preponderanza economica europea divenne particolarmente evidente nel periodo post coloniale, sullo sfondo della riduzione delle scorte di materie prime e d’energia.

Oggi, i reperti degli artefatti eseguiti secondo procedimenti specifici e tuttora sconosciuti da rifugiati arabi, siriani, libanesi, egiziani, ebrei, armeni, slavi o greci etnici nella loro nuova patria in Europa sono sparsi in tutto il mondo - perfino dove mai ci si aspetterebbe - e non di raro, intenzionalmente o non, “nascosti” dietro etichette false. Per una strana "inerzia", la produzione artistica del periodo successivo alla caduta definitiva dell'Impero d'Oriente è chiamata “post bizantina” in maniera sommaria ed ambigua, anche se l'insieme di religioni ed etnie prima sottoposte all'imperatore bizantino avevano conservato vivi diversi fermenti culturali oltre il greco-ortodosso. Mentre il contribuito di questi per la straordinaria ricchezza e pluralità della cultura bizantina è stato oggetto di approfonditi studi tematici o interdisciplinari, il loro ruolo per la costituzione della civiltà europea, dentro o fuori dell'area cattolica, contrariamente, ancora non è abbastanza chiarito. Per la forza di altre "inerzie", di segno opposto alle prime, qui il patrimonio creato dagli immigrati levantini viene spacciato come arte europea "di stile orientale".

La tesi della presente pubblicazione è che l'operato delle maestranze approdate in Europa dal Mediterraneo sud orientale prima dell'epoca industriale, è estraneo o essenzialmente diverso dall'eredità culturale locale. Anche se ormai parte integrante della storia del paese ospite, esso è costituito da materie rare e documenta preziose conoscenze di carattere naturalistico, importate dalla terra d'origine e in gran parte ancora ignote in Occidente. In vista ai principi che si stano affermando nella comunità europea riguardo ai beni archivistici e culturali, in spirito di reciproco rispetto tra i membri e verso esterni, esso necessita di una presentazione corretta, di un quadro giuridico adeguato e di una tutela che lo protegga sufficientemente, anche da inopportuni interventi di restauro.[4]

Il periodo ed i settori sono stati scelti fino quanto rappresentativi e meglio studiati per una casistica ben più estesa che non è chiusa, ma continua a generare contenziosi tra i vari paesi comunitari ed esterni, impedendo la stabilizzazione delle loro relazioni. Uno dei più gravi incidenti, di recente, è stato il Kosovo (2007).[5]

Problemi di attribuzione

L’Europa dell’Est e dell’Ovest

Nell'Europa del secondo dopoguerra, gli studi dei rapporti con i paesi del Levante si svolsero in due ambienti divisi da reti di ostilità ed ebbero dei percorsi molto diversi tra di loro. Sia per l'impostazione generale sia per la metodologia ed i risultati raggiunti, i paesi dell'ex Patto di Varsavia[6] si distinguono nettamente dall'Europa Occidentale. Particolarmente critica è la situazione nel settore degli standard tecnico-scientifici, della loro storia e futuro: un settore che costituisce la base indispensabile per qualsiasi collaborazione economica, politica, scientifica o culturale. La principale causa della reciproca diffidenza deriva senz'altro dagli inevitabili intrecci della materia con interessi di proprietà e di competitività. Un altro insuperabile ostacolo è il diverso livello di sistemazione e governabilità del patrimonio culturale nelle due aree, dovuto alle loro diverse impostazioni socio-economiche fino al recente passato.

Sostenere che tentativi di avvicinamento non siano stati fatti sarebbe scorretto, si tratta però di reciprocità molto sproporzionata: già un confronto delle lingue straniere obbligatorie e dei percorsi formativi nelle scuole superiori e nelle università di entrambe le zone basterebbero per crearsi un’idea.

L'apertura dei confini interni della CEE, una quindicina d’anni fa, contribuì sensibilmente ad accelerare la catalogazione dei beni culturali pubblici (non però di quelli privati) nella maggior parte dei paesi membri. Grazie ai censimenti di cui si dispone a data d'oggi, non definitivi e creati da persone non sempre sufficientemente competenti,[7] è stato tuttavia possibile individuare alcune serie di prodotti eseguiti in determinate tecniche, distinti sia da comuni particolarità di lavorazione e di stile sia dall'impiego di materiali importati. La loro fabbricazione appare inoltre sempre in stretto rapporto con la presenza di comunità d’immigrati (ebraiche, armene, musulmane o siriane, ma non solo) che qui convenzionalmente sono indicati come "levantini". Ci limitiamo, per motivi di spazio, soltanto a pochi casi che rappresentano tipologie molto diffuse in due settori principali: la lavorazione della pelle (cuoi dorati) e dei tessuti (seta, lana, velluti stampati).[8]

La sfera coinvolta però è molto più ampia e comprende anche la produzione di vetri colorati, cristalli, ceramiche, tessuti broccati, arazzi, vernici incolori o colorate, solventi, leganti, impregnanti, emulsionanti, rallentatori dell’essiccazione, tensioattivi, ammorbidenti, agenti foto ottici, fissativi, inchiostri per la stampa, la pittura in tecniche miste, particolari trattamenti della pelle (laccata, damascata, etc.), la lavorazione dell’oro e dell’argento, l'incisione e la corrosione di lastre metalliche per la stampa o la costruzione delle rispettive presse, l'estrazione di pigmenti naturali, d’essenze e d’aromi con il pertinente strumentario, la preparazione di saponi profumati, ed altri.[9] Non meno rilevante è stata la mediazione culturale di questi “iso-cittadini”, grazie alle loro ampie conoscenze di popoli, lingue e costumi sia orientali sia occidentali, nell’adattamento di prodotti e tecnologie orientali alla fine di soddisfare i gusti e le esigenze europei.

La questione dell’origine etnica

In teoria, gli studiosi occidentali riconoscono unanimemente il contributo tecnologico artistico delle popolazioni immigrate direttamente dall'area levantina o dalla Spagna, dopo la sua riconquista cattolica, verso altri paesi europei, nei secoli XV - XVII. In maniera sommaria loro citano la lavorazione delle pelli, della seta, della lana e del cotone o la tintura; ammettono l'origine orientale di certi ornamenti e tecniche decorative. Nonostante ciò, l'attribuzione delle opere "post bizantine" e "di stile orientale" continua ad essere oggetto di vivaci discussioni e non raramente di esasperata assimilazione nazionalista: queste vengono definite "spagnole", "portoghesi", "italiane" (veneziane o fiorentine), "fiamminghe", "francesi", etc., "di stile orientale"[10] ; richiamandosi a “incontestabili prove d'archivio”, si parla addirittura di copie, fabbricate dagli europei (senza precisare se d'adozione o solo presta nome), e destinati ai mercati dell'Impero Ottomano, che sarebbero superiori per qualità ai prodotti orientali.[11] In alcuni casi si arriva perfino ad imporre la tesi che, l'Impero Ottomano ed il suo vasto retroterra arabo fossero dei recipienti passivi del civilizzatore occidentale,[12] ignorando quasi totalmente l’esistenza ed il ruolo del retroterra slavo, greco, ebraico, etc., nei Balcani, nel Mediterraneo orientale, nel Caucaso o in Africa settentrionale. In linea generale, anche nei casi quando tra le caratteristiche di un'opera viene dichiarata la presenza di aspetti estranei alla cultura europea, prevale la non disponibilità di superare gli stereotipi euro-centristi.[13]

A prescindere da alcune tendenze più realistiche nella storiografia occidentale degli ultimi decenni,[14] finora soltanto i paesi dell'Europa dell’Est (ex Patto di Varsavia) hanno assunto un'attitudine obiettiva verso l’origine etnica delle opere d’arte conservate sul loro territorio. Il tema del ruolo indispensabile, che le scuole nazionali ed etniche ebbero per lo sviluppo delle grandi civiltà (Bisanzio, la Russ’, etc.), fu introdotto per la prima volta proprio in Russia, ancora attorno alla metà dell’ottocento. Di ruolo-base furono le ricerche di V.G. Barski, N.V. Kondakov, V. Stassov, D. Ajnalov, N. Uspenskij, V. N. Lazarev, etc., sia in Russia sia nell'Oriente, con le missioni archeologiche nel Monte Athos, in Macedonia, Egitto, Siria e nei paesi dei Balcani, affiancate dall'Istituto Archeologico Russo ad Istanbul (fondato nel 1895) e dagli scienziati dei paesi slavi.[15]

Tuttavia, la questione a qui attribuire gli artefatti eseguiti dagli immigrati fuori i limiti territoriali e cronologici del loro paese continua a generare enorme confusione tra storici ed esperti. Il problema è principiale e tocca questioni di carattere storico, giuridico, politico, tecnologico e scientifico, da molto tempo oggetto di discussioni ed aldilà dei limiti della presente pubblicazione. Qui io mi soffermerò invece sugli inconsistenti argomenti di alcune attribuzioni tradizionali che stravolgono l’ovvia origine orientale dei manufatti come documentata dalle fonti o dalla loro stessa natura materiale. Non è possibile, in quest’occasione, passare in silenzio la stordente mancanza d’elementari conoscenze scientifiche nella valutazione di oggetti d’arte non tipici per l’Europa occidentale. Tale insufficienza, purtroppo cronica e diffusa, normalmente porta a perizie superficiali o erronee ed ad inappropriate strategie di protezione se non a danni. La situazione è veramente critica[16] e impone sia misure più rigorose nell’abilitazione degli esperti[17] sia una vasta revisione di quello che oggi è chiamato arte “post Bizantina”, “ottomana” o “arte europea di stile orientale”. Si tratta, in sostanza, della necessità di elaborare dettagliati e standardizzati passaporti che tengano in conto non solo l’iconografia e lo stile, ma anche gli aspetti materiali e strutturali degli oggetti e la loro posizione nel processo dell’evoluzione tecnologica.

Le implicazioni politiche

Fuori dubbio, la prima domanda da porre in simili occasioni è la definizione esatta del termine "veneziani”, “italiani”, "greci" o “francesi". Che cosa significano attribuzioni del tipo "cuoi spagnoli", "velluti veneziani", "seta fiorentina", "arazzi francesi", "incisioni greche": delle opere, progettate ed eseguite (interamente o solo in parte?) da nativi etnici o da famiglie d’immigrati assimilati (ma secondo quali prove?), oppure solo perché si trovano attualmente in quella città, oppure perché sono state etichettate per forza della legislazione d'allora come tali?

Ecco alcuni degli argomenti che danno ragione a tali riserve:

Diversi decreti emanati dalle autorità veneziane in materia di lanificio[18] impongono che:

«(anno 1430) .. infedeli non possono essere admessi né iscriti nell’Arte, solo sudditi Cristiani con famiglie, dopo 5 anni in città;

(anno 1450)…dopo 15 anni in città e sono tenuti spazzarsi per tutto il mondo come cittadini veneziani; portar prova dei luoghi dove negoziano;

( anno 1570, a ncora più restrittivo)…dopo 20 anni di vita a Venezia, senza contatti con la patria, per non portar l’arte in paesi esteri»

Un altro ordine del 12/12 1564 dice letteralmente:

«E perché la malizia degli uomini è talmente accresciuta che tantissime leggi vengono interrotti con manifesti inganni, ritrovandosi molti, che non avendo molto di lavorar, hanno integligenzia con Forasteri non admessi dalle leggi.. et cosi li fanno lavorar, mandando li panni in purgo sotto suo nome, se ben sono di ragione di forestieri.»[19]

Della prestigiosa bottega per stoffe dorate di "Pietro Bettino della Seta, cittadino di Venezia", e del suo collaboratore, un certo mercante veneziano "Zuane de Antonio de la Seda", riferisce D. Davanzo Poli:[20] entrambi hanno eseguito tra il 1474 e 1483 un insieme liturgico in panno d’oro per papa Sisto IV. Si tratta ovviamente di cittadini veneziani d'adozione, perché il cognome „della Seta“ è un inconfondibile indice di origine ebraica.[21] L'importanza che la nobile famiglia De la Seta ha avuto per la produzione serica nel Veronese è stata rilevata anche da C. Rigoni,[22] evitando, purtroppo, di chiarire le origini onomastiche.

Con una delibera del 29.04. 1610 i Provveditori del Comune della Serenissima concedono all’ebreo Isaach Cohene e anche ai suoi figli e successori la tessitura, a Venezia, di zambellotti e moccaiari.[23]

Il 25.01.1592 uno svizzero, "Stefano Somazzo di Lugano e compagnia", supplica la Serenissima di poter essere iscritto mercante.[24]

In realtà, tutti gli archivi dei luoghi abitati da emigrati abbondano di simili richieste per licenze commerciali o artigianali da parte di stranieri, reduci nella maggior parte dei casi dal Levante.[25]

A proposito sempre del termine "tessuti veneziani":

Nei rendiconti dei capi dell'Arte dei tintori (marzeri) del '500 e del '600, spesso ci si lamenta che i "forastieri" non vogliono assumere operai veneziani neppure per fare "l'angharia" e chiedono alle autorità di imporlo per mezzo di leggi.

Infatti, furono emesse diverse ordinanze sia a Venezia sia in altri centri della tessitura come Verona e Vicenza, formulati in maniera diversa, ma sempre allo scopo di difendere i manufatti locali da quelli importati:[26] ovviamente perché la qualità ed i costi dei prodotti di casa non erano quelli più vantaggiosi. Una continua serie di terminazioni del periodo 1534-1630, ad esempio, proibisce la vendita di pani di Ponente o d'altri stati nelle botteghe veneziani:

«24.04.1586: Havendo la Serenissima Signoria udito la supplicazione appresentatale dalli mercanti Tedeschi, Fiamminghi, Turchi, ebrei et altri dimandanti in proposito di bollar zambellotti (del mese scorso) – si chiede di delegare a questo i Cinque Savi alla Mercanzia si proibisce l’importo di stoffe straniere tranne: camisce, rasse, grisi, garze, cocolsali, perpermani, scotti, baghette, ferandine, grogani, mezelane, baracani, portoni, stammetti, roversi, duranti, baffoni, zambellotti, erbazi, mocigiari, sarzette, meziscotti, e bedene... ….che ognuno che vuol che sia debba tutti li zambelotti, moccaiaro et altre robbe rovane, et negre venute di parte di Ponente come di Levante avanti, che vengano fatte bollare in dogana, pezza per pezza.(Ordine del Provveditorato di Comune dell’11.2.1668)»[27]

Preoccupazioni per la scarsa competitività dell'industria locale e richieste di protezione d'ufficio contro gli stranieri, ma anche di imporre maggiore disciplina agli artigiani locali per impedire che venga immessa al mercato merce di scadente qualità, s’incontrano frequentemente nei rendiconti dei capi delle arti tessili destinali alle autorità. Nel settore della tintura, la principale difficoltà per gli Europei, come ben noto, è stata l'approvvigionarsi di materie prime (allume, galle, pigmenti, seta cruda ecc.) e l'esercizio efficace dei procedimenti tecnici.

Fino alla fine del '600, i tintori veneziani indigeni non erano in grado di assicurare una buona resistenza all'acqua delle materie tinte. In un documento dell'Arte dei tintori a Venezia, del 1692, si legge:

«Gli sperimenti con i panni colorati del Polacco Zuane Bess hanno dato risultati migliori di quelli dell’Arte dei tintori: non lasciano colore (panni ad uso d’Olanda, metà lana nostra, metà spagnola)»[28]

Da una serie d’altri “ordini” di contenuto tecnico si traggono delle conclusioni sulle caratteristiche oggettive dei prodotti veneziani a differenza di quelli stranieri:

1664, 31/5: che vengano bollati come “archimia” panni tinti con il legno tauro, invece che con guado;

1698, 9/2: si proibisce di usare brodo di galle (nella tintura, in nero), usato per altri scopi; si proibisce uso di vetriolo e legno tauro al posto di guado.[29]

Disposizioni in questo spirito sono reperibili anche negli archivi statuari veronesi e di molte altre città europee.[30]

È stato stabilito che in Marsiglia, negli anni cinquanta e sessanta del seicento, e ad Amsterdam negli anni 1670, furono assunti degli armeni per ‘dipingere e colorire ogni tipo di cotone d’India orientale, cosa che prima non si faceva in quelli luoghi ’.[31] È altrettanto noto che in Francia il cosiddetto “rosso turco” o “rosso d’Adrianopoli”, un colore molto resistente su cotone, almeno fino all’inizio del secolo XIX rimase esclusiva degli armeni e dei greci.[32] La stampa su cotone, ad esempio, ‘fu introdotta a Genova nel 1690 da un armeno che non solo era licenziato di commerciare fuori la sua arte, ma aveva anche ottenuto l’esclusiva nell’esercizio della sua attività per dieci anni’.[33]

La catalogazione: metodi e strumenti analitici

Purtroppo, nei paesi occidentali che pretendono la paternità sugli artefatti "di stile orientale", ancora non sono stati eseguiti censimenti esaurienti dei centri di tintura e tessitura. Mancano sia analisi sistematiche delle particolarità costituenti e strutturali dei prodotti sia confronti con le banche dati pubblicate nei periodici specializzati dei paesi dell'Est, relative a casi analoghi conservati nei loro musei.[34]

Normalmente si riprendono le attribuzioni tradizionali e solo gli aspetti sui quali vi sono già stati nel passato dei commenti, ma senza sottoporli a valutazione critica. L'attenzione quasi sempre è spostata verso i donatori, l'iconografia, l'uso liturgico o da parata, ignorando le questioni dell'origine delle materie prime, della composizione chimica dei prodotti e dello stile di fabbricazione.

Mentre in Russia la pubblicazione anche di un singolo campione di stoffa archeologica da decenni viene rigorosamente corredata da un complesso di indagini fisico chimiche,[35] le migliaia di esemplari delle collezioni più pregiate italiane, spagnole, portoghesi, greche o francesi continuano ad essere classificate senza ricorrere ad esami tecnico-scientifici. I risultati delle indagini analitiche invece vengono interpretati in base a dati storico-artistici di carattere piuttosto occasionale.[36]

La questione dell'autenticità – e questo vale per tutti i settori artistici - spesso non viene nemmeno posta oppure si confonde con l'iconografia e lo stile.[37]

I confronti degli ornamenti si limitano alle collezioni dei soliti musei centrali (turchi o egiziani), dimenticando del fatto che questi raccolgono prodotti di un’economia e cultura multi etnica e multi religiosa, le religioni ibride e sincretiche nelle loro forme urbane e contadine comprese. Più di un autore attribuisce all’arte islamica elementi decorativi come il lampas (Fig.1), il garofano, il loto o il melograno (Fig.2), nonostante che questi s’incontrano anche su oggetti di culto venerati da sudditi dell’Impero Ottomano che, convertiti all’Islam forzatamente, continuarono a confessare la loro fede precedente: ortodossa, melchita, ebraica, sabea, zoroastriana, etc. Logicamente, per l’espressione di tale credo ambiguo si preferivano simboli e idiomi figurativi di significato polivalente, quindi tutt’altro che caratteristica intrinseca della religione islamica. I ghiauri (sudditi del sultano turco non musulmani) invece, che riuscirono a mantenere la loro confessione, dovevano accontentarsi di limitati diritti civili, una sorta di statuto dhimitti (d’opportunità limitate “a metà” - gr.). Gli artigiani tra di loro, che lavoravano per il mercato ottomano, come ben comprensibile, non potevano non tener conto dello stile e del gusto regnanti nell’ambiente circondante.[38] Da tutto questo risulta che le attribuzioni della seta ottomana, con buona dose di probabilità, potrebbero essere riferite ad artigiani non-musulmani, come gli armeni stabilitisi presso le città di Tokat, Antalia, Aleppo o Sinop: verso la fine del secolo XVIII loro costituivano il secondo di numerosità gruppo etnico dopo quello dei greci.[39]

Nelle attribuzioni di concrete opere, le presunte antinomie Oriente-Occidente, Venezia-Islam, Est-Ovest, di cui si continua ad avvalersi, non solo che non sussistono, ma sono inopportune anche dal punto di vista etico, in quanto implicano collaborazione tra etnie divise per secoli da antagonismi, che non starebbero insieme neppure nel cimitero.[40] Tale approccio generico chiude per di più le strade alla soluzione dei contenziosi tra i piccoli stati formatisi dopo il crollo del blocco socialista ed è controproducente nel processo d'integrazione europea di paesi come la Turchia, l'Albania o la Macedonia, ereditari di un patrimonio d’origine etnico-religiosa estremamente eterogenea.[41]

Oltre alle riserve sopraindicate, negligenze, omissioni bibliografiche ed errori nel commento tecnico riflettono una pseudo competenza ed un lavoro condizionato un po' dalla fretta di pubblicare. Queste lacune rendono inutilizzabili dal punto di vista scientifico il lavoro di ricerca storica e la stampa di costosi e splendidamente illustrati libri. In primo luogo perché

‘l'attribuzione, parte dello studio di carattere tecnico, deve essere eseguita da persone d’altissimo livello professionale maturato su esperienza decennale nell'indagine tecnologica di quel tipo di opere. Le conclusioni definitive dello specialista non si possono fondare esclusivamente su soggettive impressioni, referenze bibliografiche e iconografiche o sull'intuizione. Esse sono ritenute valide solo se sono il risultato dell'interpretazione logica degli esiti dell'esame dell'opera sia in modo non distruttivo sia in laboratorio adeguatamente attrezzato, con dei dati obiettivi, raccolti in condizioni analoghe, da opere di questo maestro, scuola, periodo, etc. L'attribuzione, oltre a basarsi sul confronto con ampie banche dati riguardanti la composizione chimica e la struttura dei materiali dell'opera stessa, richiede un'esauriente conoscenza sulla storia della tecnologia di detta arte in tutte le sue variazioni regionali e temporali, acquisita nel corso di un pluriennale studio personale delle rispettive opere in originale, delle fonti storiche e delle pubblicazioni in proposito. La sua qualità è limitata dal livello scientifico dell'epoca, ma non deve scendere sotto di questo. Bisogna tener conto, inoltre, che la decisione di attribuire un'opera a un autore, luogo o periodo, in base alla perizia tecnologica, non ha il carattere di assoluta certezza, ma solo testimonia che non vi sono elementi incompatibili.’[42]

La situazione nell'Europa dell'Est, ereditaria delle ricche tradizioni della scienza accademica sovietica, nei casi migliori è in linea con queste normative, e la sua ricerca storica tendenziosamente mira il massimo livello d’obiettività. Com’è noto, nell'URSS - già nel 1918, nei paesi dell'Europa dell’Est - immediatamente dopo la seconda guerra, i beni culturali furono nazionalizzati ed inseriti in un registro unico, grazie al che si poté procedere all'analisi approfondita e obiettiva dei singoli reperti sullo sfondo dell'intero patrimonio del blocco socialista, avvantaggiandosi della piena e libera collaborazione tra le istituzioni statali e di quelle del Patto.

Nella CEE, la necessità di creare un registro unico del patrimonio culturale s’iniziò a discutere solo in seguito, e non prima, dell'entrata in vigore, nel 1993, delle leggi che sanciscono la libera circolazione dei beni. Dell'approvazione, prossimamente, di un accordo comune in materia, vista la reazione delle categorie interessate nei singoli stati membri, non vi è ancora la minima speranza.[43]

[...]


[1] A questo complesso argomento generazioni di storici hanno dedicato le loro ricerche e come si potrebbe intuire, le opinioni variano sensibilmente. Per un riassunto delle ultime tendenze, limitato alla storiografia occidentale e alle industrie più popolari: Hilaire-Pérez/Verna, “Dissemination “, 536-565. Referenze bibliografiche aggiornate per il settore dei tessuti sono reperibili al sito: http://chnm.gmu.edu/jsh/index.html.. Dati rilevanti in proposito al ruolo dei levantini nel trasferimento di tecnologie in Europa (Marsiglia) mettono in luce Raveux, “ À la façon“, Raymond, “Les chrétiens”. Le diverse teorie sul rapporto tra tecnologia, conoscenza dei principi coloranti, intrapresa d’affari e moda, relativi al settore dei tessuti (cottone, seta e lana), sono state criticamente riviste da una posizione super partes nelle recenti pubblicazioni di Riello, “The Rise”; Lemire/Riello, “East&West”; Riello/ Roy, “The world”. Per il settore del cuoio dorato fondamentale rimane Gall, Leder 295-7. Un panorama in continuo aggiornamento sulle nuove pubblicazioni riguardanti la conservazione ed il restauro di artefatti storici in pelle e cuoio, per opera di L. Falcão, è accessibile al sito:http://skinheritage.blogspot.com/ .

[2] Benchè molti autori parlano di “open systems” e ‘dissemination” o “radiation of oriental knowledge in Europe’, fino a quanto ho avuto possibilità di verificare, tali affermazioni risultano poco credibili: i secreti professionali venivano sempre gelosamente custoditi. Oltre gli argomenti esposti in questo lavoro, si vedano anche Stoyanova, “I cuoi “bulgari” a Venezia”, “Denominazioni” e “Armenian”; Calnan, “Scorched”. Sull’inesistente legame tra le copie europee di tessuti orientali e gli originali, a livello tecnico: Riello, “The Rise”; Lemire/Riello, “East & West”; sempre lì una rassegna di ben fondate critiche, nella storiografia più recente, riguardo alla tendenza ‘to foreground a supposedly European artistic exceptionalism’.

[3] Attualmente la più completa e sistematica discussione della tecnologia della colorazione, per parametri geo-culturali, storici, tecnici e chimici, è quella di Schweppe, Handbuch; riguardo specificamente all’area del Levante - di Böhmer, Koekboya. Purtroppo entrambi gli autori non prendono in considerazione le ricche fonti in lingue slave o conservate nelle biblioteche dei paesi dell’Europa dell’Est, in Russia soprattutto. Lo stesso vale per gli altri importanti studi in materia: Hofenk-de Graaff, Natural; Catling/Grayson, Identification, etc.Per quanto concerne la chimica e la tecnologia del cuoio in generale, si raccomanda come più esauriente, scientificamente fondato ed aggiornato - rispetto alle pubblicazioni occidentali in materia - lo studio di Афанасьева/Афонская/ Бернштейн, Справочник; per fonti relative alla fattura d’alcuni tipi di cuoi orientali importati in Occidente: Stoyanova, “I cuoi”. Notizie sulla problematica fornitura di materie prime in Europa sono raccolte negli studi di: Brunello, L’arte della tintura, passim; Ashtor, Studies.; Raveux, À la façon .

[4] Löhr, “Kulturgutschutz“; Liakopoulos, “La tutela“. Per una rassegna bibliografica dettagliata sul traffico illecito di opere d'arte si veda il sito dell'ICOM (www.icom.org) e http://www.interpol.int/Public/WorkofArt/Conferences.

[5] Un altro caso particolarmente caldo nei contenziosi tra i paesi balcanici costituisce la giurisdizione di Monte Athos, si veda Ульянов, “1700-летняя судьба”. Sui conflitti nati in seguito al traffico illecito, a livello internazionale, una rassegna dinamica dà Liakopoulos, “La tutela“. Tra questi spiccano, per l’enormità del materiale e paesi coinvolti, i bottini di guerra di Napoleone e le opere confiscate dai nazifascisti: Heuer, “Die Kunstraubzüge”.

[6] Un ritratto attualizzato di questa comunità e delle sue probabili prospettive, a distanza di vent’anni dal suo scioglimento de jura, disegnano Theodorescu/Barrows, L’Europe du Sud-Est.

[7] Più dettagliatamente sulle difformità che emergono confrontando la formazione di esperti e restauratori, il loro statuto giuridico e la divisione dei ruoli tra le istituzioni nei diversi paesi comunitari nei capitoli “Tecniche e materiali” e “La tutela.”

[8] I cuoi dorati ed i tessuti sono stati scelti per le numerose indicazioni che rivelano come, allo scopo di migliorare la produttività e la competitività, essi spesso venivano aggregati, permettendo l’utilizzo più razionale delle materie prime e dei progetti ornamentali (inclusi gli stampi, con cui venivano prodotti). Questa conclusione viene rafforzata dalla somiglianza nelle sequenze seguite nella doratura dei cuoi, della seta, della stampa del cotone e della carta da parati: Gall, Leder; Clouzot, Geschmückte; Clouzot, “La tradition" ; Clouzot/ Follot, Histoire; Koldeweij, “Gilt leather or textile “.

[9] Si vedano i trattati citati alla n. 49.

[10] La definizione stessa del termine nazione (lingua, territorio e moneta unica) è un’idealizzazione che nella realtà non s’incontra mai in forma pura. Inoltre le nazioni sono formate da etnie e persone, quindi le attribuzioni, che di norma dovrebbero mirare la massima esattezza, sono tenute a chiarire sia la nazionalità sia l'origine etnica dell'opera: un principio quasi mai rispettato nelle pubblicazioni occidentali che, in sintonia con le normative e le leggi nazionali sulla tutela, trattano come nazionali anche opere eseguite da stranieri (si veda Löhr, “Kulturgutschutz”). Molte di queste leggi tra l'altro risultano di data e spirito già troppo anacronistici, rispetto alla situazione e alle prospettive europee moderne. L'intrinseca contraddittorietà dei criteri e termini come causa principale dell'inefficienza della legislazione internazionale riguardante la tutela dei beni culturali, e la necessità di ridefinirla su orientamenti adeguati, sono discusse nei testi riportati alla n. 2. Sullo sfondo dei processi migratori in corso, che trasformano sempre più nazioni in diaspore, la definizione dell’appartenenza etnica o nazionale ovviamente non può più essere spiegata in isolamento e deve riconoscere ed analizzare i suoi profondi legami con altri fattori oltre al territorio geografico, la moneta o la lingua: le arti ed i mestieri, ad esempio, esistevano molto prima delle nazioni

[11] Si potrebbero riempire pagine e pagine citando tali lavori e, soprattutto, dimostrando errori nell’interpretazione dei fatti storici. Qui mi limiterò soltanto a un esempio del settore della seta che incarna i tratti tipici per la storiografia occidentale: Mackie, “Italian Silks”. Dall’affermazione di questo autore, ad esempio, che in Russia fino al s. XIII non vi sarebbe stata lavorazione serica e si importassero delle sete italiane, non si capisce innanzitutto se intende la Russ' di Kiev o la Russia attuale, della quale l'Ucraina non fa più parte, ma è particolarmente ricca di reperti di seta dei secoli X - XIII, di fama internazionale e da secoli oggetto di studi multilaterali, analisi chimiche comprese: si veda n.18, inoltre: Соболев, Очерки; Свирин, Древнерусское; Катасонова, Золотое. Le maggiori collezioni sono esposte nel Museo Storico di Mosca, di Kiev, Černigov, L'vov, Khersones e Novgorod; nel Hermitage di San Pietroburgo, di particolare valore sono, oltre che gli abiti, anche le tende e le peleny ad uso ecclesiastico. Nessuna traccia di seta italiana od occidentale, solo stoffe di lana e lino: la seta vi penetrava dall'Oriente e da Bisanzio.

[12] Per una critica più dettagliata di tali tesi: Kirillina, “Russian”, 11.

[13] Ad esempio: Reath, “Velvets”; Little, “A Group”; Wingfield Digby, “Sixteenth-Century ”; Irwin, “Origins'; Dimand, “Two”; Contadini,” Due”; Contadini,”Cuoridoro”; Davanzo Poli, “La produzione”; Davanzo Poli (ed), Seta & oro; Alarcao, “Episcopal ”; Fournet, Les cuirs; Bonnot-Diconne,/Fournet, “Hanging”, etc. In realtà, i sovrani nel Vicino Oriente mantennero - dalla caduta del cesaropapismo bizantino fino agli anni 40 del secolo XIX circa - una politica di relativa non ingerenza negli affari interni clericali delle varie popolazioni soggiogate, consentendo il loro consolidamento etnico e culturale, si veda Якушев, Христианские, passim.

[14] Riassunte in: Riello, “The Rise” 82.

[15] Per alcune delle pubblicazioni più recenti si veda n. 69 e Бартольд, История.

[16] La situazione è veramente critica perché riguarda tutti i settori, non solo la pelle ed i tessuti. Si vedano, ad esempio, i lussuosamente illustrati, ma pieni di errori e di essenziali omissioni cataloghi delle mostre di icone albanesi in Italia (Percorsi), di arte etiope (Nigra sum), il catalogo delle icone nel Museo Nazionale di Addis Ababa. (Addis Ababa et al., Ethiopian) edito da Skira, i volumi di Jaka Book dedicati all’arte dell’Oriente ortodosso, le super lussuose edizioni sui mosaici di Kahrie Djami e di Chora di C. Mango o sulle pitture nelle chiese della Cappadocia di C. Jolivet-Levi: mi limito soltanto ai casi più recenti e più “rappresentativi”, quanto per iniziare..

[17] Si veda il capitolo “La tutela”.

[18] ASV, Arti 387 (Terminazioni e Giudici), 17-18.

[19] ASV, Arti 387 (Terminazioni e Giudici), 17-18.

[20] Davanzo Poli, “La produzione” , 26-8.

[21] Sui cognomi ebraici nelle varie regioni d'Italia, come i „de la Seta“: Moscati Benigni, Breve storia. Altre risorse sono disponibili ai siti www.jewishgen.org. e www.italian-family-history.com. Nel caso citato, molto probabilmente si tratta di membri della stessa famiglia.

[22] Rigoni, “Produzione”, 297.

[23] ASV, Arti 387.

[24] ASV, Arti 387

[25] Molti esempi in proposito sono riportati nelle qui citate pubblicazioni di Raveux.

[26] Anna Bianchi, “Il lanificio”, 77-8. Di questa legislazione, in generale, Lemire/Riello, “East & West”, 890-2; Killerby, Sumptuary; Calvi, "Le Leggi”; Harte, “Silk”, 801.

[27] ASV, Arti 387.

[28] ASV, Arti 387.

[29] ASV, Arti 387

[30] Anna Bianchi, “Il lanificio”, 77-8 e passim; Lemire/Riello, “East & West”, 890-2; Killerby, Sumptuary; Calvi, "Le Leggi”.

[31] Homburg, "From Colour " 221, si vedano inoltre: Raveux, "À la façon" ; Lemire/Riello, “East & West”, 897, n. 65-68.

[32] Schweppe, Handbuch, 90-1, inoltre: Raveux, “The Birth”, "Spaces"; "Espaces" e "À la façon".

[33] Cataldi Gallo,‘Indiane” 25. L’annovero delle più antiche fonti scritte sulla stampa dei tessuti di Schweppe, Handbuch, 72-7, non è esauriente. A queste appartiene, ad esempio, un manuscritto cinese del s. VIII, cf. Прикладное e Великий . L’evidenza archeologica testimonia comunque la conoscenza di questa tecnica da tempi antichissimi..

[34] Oltre al caso riguardante la storia della seta riportato alla nota 11, numerosi esempi di strana ignoranza riguardo alla storia delle ricerche sulla tecnologia e la chimica dei manufatti in pelle e cuoio in Russia, un paese leader in questo settore, si rilevano in tutte le bibliografie occidentali in materia, si veda, come esempio, il riassunto con i relativi approfondimenti referenziali di Paris, “Conservazione”.

[35] Геерман, Текстильно - химическке; Закощиков, Текстильная микроскопия; i rapporti di V. N. Kononov, restauratore di tessuti al Museo dell'Ermitage, del 1940-51, e dei suoi successori;.Нахлик, Ткани Новгорода; Федорович,. “Методика”; Доде ,” Уникальный шелк” ; di recente una serie di indagini di V. P. Golikov et al. Per una rassegna più aggiornata sulla storia di queste ricerche, a partire dalla fine del s. XX, nei tre centri principali: Mosca, Tashkent e Leningrad, si veda. Глушкова, Археологический текстиль , cap. I.

[36] La raccolta più completa ed aggiornata delle analisi tecniche eseguite su tessuti antichi fuori i paesi dell’Est rimane tuttora il Handbuch di Schweppe, non privo, purtroppo, di errori di commento nell'attribuzione geoculturale del materiale analizzato, causati principalmente dal mancato coordinameto nelle ricerche tra storici e tecnici, ai quali si aggiunge la quasi totale ignoranza sullo stato di quest’arte nei paesi di lingua slava.. La questione della vera origine etnoculturale si pone, tutto sommato, solo raramente: Sardjoni, “Vellurs”; Koldeweij, “How”.

[37] Un fuggitivo esempio per una casistica d’estensione allarmante: Lymberopoulou, “A winged”. L’autore di questa studia sembra di non aver minima idea della cospicua quantità di perfetamente eseguite contraffazioni d’icone greche per opera dei vecchi credenti russi, a partire già dalla fine del secolo XIX (Красилин, “Иконопись”, n.11). Allo scopo di ottenere delle imitazioni irriconoscibili non solo nella maniera pittorica e nei materiali utilizzati, ma anche per quanto riguarda il supporto ligneo, questi pittori sacrificarono pregiati cedri siberiani, perfino d’oltre 500 anni d’età (cf. www.sibirles; Игнатенко, Сибирский), da cui tronchi ricavavano tavole di grande formatto come quelle che distinguono le più antiche icone cipriote e cretesi. A volte venivano eseguite su precisi ordini e portavano iscrizioni sia in greco che in latino, come nell’icona del Battista - Angelo del deserto, custodita nel Kunsthistorisches Institut, Mainz, N. inv..163.

[38] Numerosi fatti in questo senso espone Raymond, "Les chrétiens" citando Heyberger, Les chrétiens, 363 ; Masters, The Origins,. 93.; Abdelnour, Introduction, l02; Cornand, "L’artisanat" 105, 115-116 e 120; Thieck, "Décentralisation " 163. e Fukasawa, "Toilerie".

[39] McCabe, “Silk”; McCabe, The Shah's Silk; ch. 6; Hamilton, Researches, 351 ff.; Mordtmann, Anatolien, 160 ff. (cit. in: Yandim, Ikonographische, 21 ff.) Riguardo ad Aleppo: Raymond, "Les chrétiens" n. 7, 12-13.

[40] Lory, "I cristiani”, 30. Benchè non sempre ad extremis come le insurrezioni o le guerre liberatorie all'interno dell'Impero Ottomano, il genocidio degli armeni o la guerra nell'ex Jugoslavia, gli odi tra etnie e religiosi presentano una realtà della quale non si tiene sufficientemente conto neppure nella legislazione nazionale ed internazionale: si veda n.3.e di nuovo Bernard Lory che, nelle sue numerose pubblicazioni dedicate ai Balcani, ha riflettuto su diverse sottili sfumature di questa complessa problematica..

[41] Sulle discordie tra i gruppi etnico-religiosi e lo sbor (il parlato) centrale, adottato come lingua nazionale all'inizio del s. XX in Macedonia, si veda.Мисирков, За македонските, 17, 23 .

[42] Queste, in sintesi, le tesi principali presentate da uno dei migliori esperti in materia, attualmente capo della sezione “Espertisa e attribuzione” del Laboratorio Centrale di Restauro Russo (ГНИСЦР им. “И. Грабаря”), Ju. Grenberg: Гренберг, “Технологическая” .

[43] Löhr, "Gegen“.

Final del extracto de 32 páginas

Detalles

Título
Tecnologia ed arte del Levante in Europa nei secoli xv-xvii
Subtítulo
PROBLEMI DI ATTRIBUZIONE E DI TUTELA
Universidad
University of Venice  (Centro Interdiprtimentale di Studi Balcanici Internazionali)
Calificación
sehr gut
Autor
Año
2009
Páginas
32
No. de catálogo
V133071
ISBN (Ebook)
9783640669752
ISBN (Libro)
9783640669554
Tamaño de fichero
2549 KB
Idioma
Italiano
Palabras clave
Art technology, Gilt Leather, Bizarre Silk, Levante, Postbyzantine Art, Albanian art, Albanian icons, Armenian gilt leather, Armenian silk, Jewish gilt leather, Jewish Silk, Technical treatises
Citar trabajo
Magdelena Stoyanova (Autor), 2009, Tecnologia ed arte del Levante in Europa nei secoli xv-xvii , Múnich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/133071

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